Rinnovamento
Documento di P. Marchesi sul rinnovamento dell'Ordine per rispondere ai segni dei tempi
Fra
PIERLUIGI MARCHESI OH
RINNOVAMENTO
CENTRO
STAMPA FATEBENEFRATELLI
NOTA DELL’EDITORE
Al
termine del primo sessennio di governo del Priore Generale dei
Fatebenefratelli, fra Pierluigi Marchesi, la redazione del Centro Stampa della
Curia Generalizia ha voluto raccogliere in un’antologia le parti salienti dei
suoi scritti e dei suoi discorsi, nell’interno di fissare i momenti più
caratterizzanti del processo di rinnovamento avviato coerentemente in tutto
l’Ordine dal 1976 al 1982.
In questo
periodo, infatti, l’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio è profondamente
mutato, all’insegna del programma sintetizzabile nello slogan « rinnovarsi
per umanizzare »: si sono riscoperte le radici della vocazione ospedaliera dei
Fatebenefratelli per adeguarne la testimonianza alle esigenze emergenti via
via dal confronto tra la Chiesa post-conciliare ed una società civile che è
sempre più orientata ad assumere in proprio la responsabilità dell’assistenza
sociale e sanitaria, ma che spesso ne dimentica aspetti fondamentali, quali il
rispetto della soggettività dell’uomo — che
è l’utente di tali servizi — e intere
fasce di nuovi bisogni che non trovano risposta in modelli di assistenza
strutturati in modo troppo rigido.
Si è trattato
di un confronto spesso lacerante, che ha messo e mette tuttora a dura prova la
vocazione dei religiosi, proprio per la diversa concezione che dell’assistenza
sanitaria hanno lo Stato e l’Ordine ospedaliero.
A tutta
la complessa serie di problemi posti dalle nuove situazioni il padre Marchesi,
con umiltà ma con altrettanta fermezza derivantegli dalla responsabilità del
suo incarico, suggerisce risposte, lancia stimoli capaci di indirizzare i
religiosi ad una quotidiana verifica del loro impegno apostolico, nei duecento
ospedali dell’Ordine, secondo il carisma sempre efficace del Fondatore. Sono
pagine di sofferta, partecipata meditazione che certamente non perdono di
attualità, tanto più che lo stesso Priore Generale è stato recentemente
confermato alla guida dei Fatebenefratelli dal Capitolo Generale: segno questo
di convinta adesione alle sue proposte, nella speranza di dare nuovo vigore al
rinnovamento, sia della vita religiosa che delle strutture ospedaliere gestite
dall’Ordine.
Con
questo intento abbiamo compilato questa antologia che ci auguriamo possa essere
per tutti utile strumento di lavoro.
Roma 8 Marzo 1983
Festa di San Giovanni di Dio
PRESENTAZIONE
Confratelli carissimi,
come
avevo promesso ai P.P. Provinciali nella riunione di Granada, vi trasmetto i documenti
letti, in parte, in quell’incontro, sul tema del Rinnovamento.
La
presente non vuole essere una normale lettera circolare ma un documento che
serva di lettura, di meditazione e di guida per incontri comunitari, per ritiri
mensili e per esercizi annuali. Per tanto vogliate generosamente non accusarmi
di essere troppo prolisso. Questa pubblicazione vuole essere un fraterno
servizio a tutti voi su un tema, quello del Rinnovamento, che ci deve impegnare
tutti se amiamo la nostra consacrazione a Dio e ai fratelli, se vogliamo che
il nostro Ordine abbia ancora un suo ruolo apostolico nel mondo, rinnovando la
sua gloriosa spiritualità, se vogliamo infine essere figli obbedienti della
Chiesa che col suo Magistero ci indica, nello sforzo di un autentico
Rinnovamento, la strada maestra per rispondere ai segni dei tempi.
I
dibattiti, a cui ho potuto assistere o che ho provocato intorno a questo tema,
mi hanno dato la morale certezza delle necessità profonde ed urgenti, che il
nostro Ordine ha, di un vero Rinnovamento. Mi hanno altresì convinto che a
questo processo ci si deve innanzitutto accostare con una seria e convinta
preparazione cristiana e religiosa.
Questa pubblicazione, che desidero arrivi ad ogni
singolo religioso e ad ogni Comunità, vuole appunto essere un modesto,
fraterno e meditato contributo alla preparazione personale e comunitaria per
il Rinnovamento dell’Ordine.
A questi documenti va richiamata la mia lettera
circolare del 19 novembre 1977, che parte integrante di una visione globale li
questa preparazione.
E’ mio grande desiderio ed aspirazione proclamare
il 1979 « l’anno del Rinnovamento» per tutto l’Ordine, impegnando tutte le
energie dell’Ordine stesso e delle sue Province. Questo «anno del Rinnovamento»
troverà i suoi momenti forti soprattutto nel ricorso a speciali preghiere,
base e fondamento di ogni vero Rinnovamento e unica sicurezza di buona riuscita
di ogni iniziativa; preghiere che programmerò per tutto l’Ordine e per le
singole Province. Nello stesso anno, in collaborazione con i Padri Provinciali
e le due Commissioni Internazionali, organizzeremo nelle singole Province e
nelle Province della medesima area linguistica dei Corsi di Rinnovamento.
Questo « anno del Rinnovamento
», infine, culminerà con la celebrazione del Capitolo Generale Straordinario.
Durante quest’anno dovrà essere
ricercata ogni occasione per sensibilizzare tutti i Confratelli alle esigenze del processo di Rinnovamento.
Sarà opportuno dedicare
all’argomento alcuni incontri di Comunità e riservare allo stesso scopo anche
un po’ di tempo durante gli esercizi annuali ed i ritiri mensili.
Per quanto concerne il problema
fondamentale del Rinnovamento, penso che il documento che trasmetto dia motivo
di riflessione e di attuazione di programmi operativi.
Per quanto riguarda i temi
generali, trattati a Granada, i P.P. Provinciali avranno a cuore di comunicare
ai religiosi le discussioni fatte e i risultati conseguiti.
Da parte mia, in proposito,
voglio solo evidenziare, che, anche nel settore dell’esame periodico dei
programmi operativi dell’Ordine c’è molto lavoro da fare, perché mi pare di
aver notato una certa impreparazione o immaturità in proposito. Manca a mio
modesto ma sincero parere un autentico « sentire » come Ordine, anche se è ammirevole
ed edificante constatare amore per le Provincie e le Comunità di appartenenza.
Ritengo poi che sia importante conseguire capacità di dialogo e di verifica periodica,
poiché sono estremamente convinto che non si può più, dato il vorticoso evolversi
delle situazioni socio-ecclesiali, limitarci ad un incontro ogni sei anni (in
sede condizionante perché anche elettiva) in occasione del Capitolo Generale
per analizzare e programmare la vita dell’Ordine.
Conseguentemente poi a quanto discusso a Granada,
la Curia Generalizia si impegna a darsi un’organizzazione più efficiente e più
rispondente alle esigenze dei tempi, come è stato più volte ed in diverse sedi
richiesto, pur mancando poi un coerente aiuto per raggiungere questo fine.
Affido al Signore la presente pubblicazione
sperando che riesca, come è appassionato desiderio di chi umilmente la propone,
a fare un po’ di bene a qualche Confratello e ad accendere in molti la luce radiosa
della speranza cristiana.
Con fraterno affetto
fra Pierluigi Marchesi
Priore Generale
Roma
15 aprile 1978
Parte Prima
LE BARRIERE CHE CI DIVIDONO
« Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” Mt. 6:12
« Anche se i vostri peccati fossero come scarlatti, diventeranno bianchi
come neve» Is. 1:18
Capitolo Primo
IL MALE,
LA MALIZIA, IL PECCATO
Una sincera e profonda
meditazione sul nostro Ordine, che ho quasi visitato per intero, mi convince
sempre più della necessità di un autentico Rinnovamento.
Quando parlo di urgenza di
Rinnovamento penso a due cose. La prima, ovviamente la più evidente, è la vita
che viviamo in ciascuna delle nostre Province e che ho sperimentato «de
visu». Dobbiamo riconoscere che nell’Ordine esiste una vita spirituale, una
vita che, senza dubbio, continua nel tempo l’ideale di San Giovanni di Dio.
C’è vita e dinamica nell’unione
fraterna che tanto abbiamo dibattuto negli ultimi Capitoli Provinciali.
Nei miei contatti con i
Confratelli e le Comunità, però, ho notato altri fattori che si impongono alla
mia riflessione e alle vostre. Tradirei la mia coscienza e le mie responsabilità
se non tenessi davanti agli occhi anche questi altri fattori.
La situazione, in generale, ci
obbliga ad un incessante approfondimento della Parola di Dio, alla
contemplazione della persona di Gesù Cristo, alla ricerca costante e profonda
del significato autentico della vita di San Giovanni di Dio. Anzi, ci impongono
di riscoprire in maniera sempre più seria il significato e lo spirito delle
Costituzioni e dei nostri Statuti Generali.
Abbiamo il dovere di scoprire la presenza dello
Spirito Santo nella nostra stessa vita, e quella Nuova Legge che è scritta non
su « tavole di pietra », ma nel profondo del nostro cuore[1]
.
Quando dunque mi occupo, per mio principale
dovere, dei nostri Confratelli e centro la mia attenzione sui fattori
sopraccennati, allora riesco a comprendere in profondità le esigenze dello
Spirito nei nostri confronti, di quello Spirito che ci parla attraverso il
Magistero della Chiesa e i Documenti del Concilio Vaticano II.
Non è esatto dire che siamo « morti »! Non è il
passato come tale che va condannato. Esiste uno spazio sempre più vasto fra
ciò che di fatto siamo oggi e ciò che, invece, potremmo essere! Mi pongo molto
spesso questa domanda: dov’è mai quella « vita più abbondante’» [2] che si trova nel cuore del Nuovo Testamento
e nell’insegnamento della Chiesa?
Leggendo le risposte ai questionari cui la maggior
parte dei nostri Fratelli ha scelto di rispondere, ed esaminando le sintesi delle
varie Province, ho constatato, senza ombra di dubbio, che non sono il solo nell’Ordine
a ricercare questa « vita più abbondante ».
Come tutti sappiamo, se veramente siamo alla
ricerca onesta dei veri valori, esistono in noi dei lati positivi, dei « punti
forti », chiamiamoli pure così, che mantengono vivo in noi il desiderio di
scoprire Dio, di riesaminare in profondità le relazioni con il nostro
Fondatore, con tutti gli altri confratelli e con i Fratelli che dobbiamo amare
e servire.
Questa ricerca di una maggiore pienezza di vita e
di una felicità che ci spetta di diritto (se riusciamo a scoprirla!) è in
certo senso inerente alla nostra natura, come è inerente alla nostra natura
evitare il male, la sensazione di vuoto, la sofferenza, l’isolamento! Questa
«vita più abbondante », però, vita di amore e di unione fraterna che abbiamo
l’obbligo di realizzare appunto per quella Nuova Legge incisa nei nostri cuori
e in forza dei nostri voti, è al di sopra delle nostre forze! Però sono a nostra
disposizione dei doni soprannaturali che ci aiutano a rafforzare quegli
impulsi naturali che sono in noi, che ci portano a ciò che è buono e alla
felicità. Con questi doni, e con la buona volontà non dovrebbe essere troppo
difficile osservare questa «Nuova Legge». « Il mio giogo è soave, il Mio peso è
leggero » [3].
Tuttavia la nostra ricerca deve essere frutto di
una profonda riflessione: perciò dobbiamo anche tentare di scoprire l’altra
faccia della medaglia, i fattori che ci indeboliscono, le barriere che ci
separano dalla sorgente di questa « vita più abbondante ».
Ci renderemo conto del bisogno di rinnovarci se
riusciremo a guardare in faccia spassionatamente le nostre debolezze.
Il Rinnovamento ha due aspetti fondamentali:
innanzitutto esso cerca di eliminare le debolezze della nostra vita e di abbattere
le barriere che ostacolano la nostra comunione fraterna; in secondo luogo si
sforza di scoprire anche quei nostri « punti forti » che possono facilitare il
raggiungimento di una unione simile a quella tra il Padre e il Figlio.
La debolezza o il male (chiamiamolo con il suo
vero nome!) che rimane nell’ombra, cioè che non vogliamo far venire a galla,
può distruggerci.
In questo mio intervento intendo soprattutto
parlare di tale primo aspetto del Rinnovamento, cioè della nostra umana debolezza
e del male che è in noi!
So benissimo che è un argomento penoso!
Oggi non è più di moda parlare di peccato, dunque
a maggior ragione dobbiamo essere spietatamente sinceri con noi stessi e
sostenerci a vicenda in questo nostro sforzo.
A nessuno piace « meditare » sul male o sul
peccato. Eppure, nella misura in cui non viviamo quella « vita più abbondante»
di cui parla il Vangelo, cioè la vita di amore, noi siamo peccatori! Nella
misura in cui non mettiamo Gesù Cristo al centro della nostra comunione
fraterna, noi commettiamo il peccato.
Purtroppo la cultura moderna secolarizzante si è
infiltrata anche nelle nostre vite. Tale cultura non si preoccupa del Dio vivente
e del Suo esistere al centro stesso dell’universo, anzi, essa è riuscita
perfino a negare la realtà del peccato! Quindi, da un primo punto di vista, il
nostro Rinnovamento dovrebbe significare una maggiore e più profonda
consapevolezza dello spirito che anima sia la cultura secolare di oggi (la
nostra inclusa!) sia questa « vita più abbondante» [4].
Essere capaci di amare significa saper diventare
la stessa cosa con l’altro. Allo stesso modo, la capacità di essere cattivi, di
cedere al vizio e al potere del peccato, significa capacità di separare i
Fratelli gli uni dagli altri. Il potere di unire e il potere di dividere si
trovano nella nostra libera volontà: tutti e due hanno la medesima forza.
Vivere la vita interiore vuol dire cercare una
sempre maggiore pienezza di vita e di felicità.
Sentirsi soddisfatti dello « status quo », cioè
fare a meno di questa maggiore pienezza di vita, vuoi dire essere cattivi,
vuoi dire commettere peccato!
Quando ricerchiamo una felicità maggiore, e ci
sforziamo di realizzarci in questo campo, siamo «virtuosi », creiamo cioè la
comunione da cui sgorga questa « vita più abbondante ».
Vivere senza nessun ideale, nell’ignavia,
significa distruggere proprio quella comunione che Dio ci ha comandato di
cercare [5].
Per dirla in altre parole, il nostro potere di
distruggere la nostra unione fraterna trova la sua sorgente nella nostra
capacità di rispondere alla seduzione del Maligno [6].
Questo assecondare il maligno è debolezza. A
motivo di questa debolezza noi capitoliamo, rinchiudendoci in una cella di
isolamento, nella solitudine, tenendoci a distanza gli uni dagli altri.
L’unità viene da Dio. La
divisione dal demonio e anche dall’uomo, a misura della sua debolezza. La bontà
è ciò che attrae i Fratelli verso i Fratelli. S. Tommaso d’Aquino dice che il
peccato è «un’allontanarsi da Dio» [7].
E’
tragico notare come anche fra i membri delle Comunità religiose oggi il senso
del peccato si sia diluito a tal punto da essere quasi scomparso.
Da qui
il monito dei pontefici ed in modo speciale di Paolo VI.
Le
ragioni di tale realtà sono molte. Prima fra tutte è la cultura secolarizzante
in cui viviamo, che ha certamente esercitato su di noi un’influenza molto
maggiore di quella che noi abbiamo potuto esercitare su di essa. C’è poi il «
clima » religioso della Chiesa stessa. Dal tempo della riforma si è dato molto
più peso all’individuo che alla Comunità, al peccato attuale che ai vizi capitali,
al peccato come rottura della legge (legalismo) che come rifiuto di
considerarsi o creati o redenti [8].
Esiste un’altra ragione: la casistica, cioè, la
tendenza a razionalizzare, come sostituta di una riflessione autenticamente
morale [9].
Quando accettiamo il raziocinio invece della
coscienza, tendiamo a considerare « virtuose » cose che invece sono peccato
vero e proprio, oppure a chiamare « veniale », ciò che invece è peccato grave!
Anzi, a volte non lo chiamiamo neanche peccato!
Nel nostro mondo purtroppo, esiste una forma di
casistica molto più seria. Essa attacca le radici stesse della nostra
peccaminosità, giungendo perfino a negarne l’esistenza. Satana è riuscito a
mascherarsi da angelo di luce [10]
: è perfino giunto a farci dimenticare che esiste! E allora accade che l’uomo
si inganni al punto da convincersi che tutto ciò che egli desidera è buono appunto
perché lo desidera, che tutto ciò che esperimenta è giusto appunto perché egli
lo sente!
Giunti a questo livello, anche «l’inno
dell’Universo» [11] non è più un potente coro che loda Dio in
un’armonia e in una unità meravigliosa, ma un inno stonato e stridente in cui
ciascun cantante fa « esattamente ciò che crede» [12].
Una cosa è dire che l’uomo è cattivo al centro del
suo essere, che è interamente viziato a causa del peccato originale (Calvino
ha predicato questa dottrina e tutti ne conosciamo i risultati), e tutt’altra
è affermare che l’uomo, al centro del suo vero essere, è vivo, è libero, e può
usare questa sua libertà per opporsi alla Volontà stessa di Dio.
Mentre ci accingiamo a riflettere sul Rinnovamento
della nostra vita religiosa, è importante studiare con attenzione le diverse
prospettive da cui possiamo guardare al male, per capirlo e dargli un
significato. Nella tradizione della Chiesa ci sono due prospettive distinte da
cui guardare al male. Esse hanno dato origine alla classica distinzione fra i
vizi che non sono capitali e i peccati che chiamiamo attuali. Ci sono quattro
fattori da tenere presenti: il male, il vizio, la malizia, il peccato.
E ci sono due prospettive da cui guardarli. La
prima è la «raison d’être », cioè la « finalità ».
Ciò che è «ultimo » è frequentemente considerato
come qualche cosa che avviene alla fine. Parliamo di «novissimi », di pienezza
dell’essere, di totale realizzazione della figliolanza divina, di visione
beatifica, come di cose che verranno «in ultimo ». In realtà, però, questo «
ultimo », può anche essere considerato come « primo », come qualche cosa che si
trova al centro delle cose, come ciò che noi scopriamo scavando in profondità,
nei vari strati della nostra anima, per giungere, proprio attraverso questa
anima, al Dio che vive in essa. S. Tommaso d’Aquino ci dice « ciò che è primo
nella intenzione è ultimo nell’esecuzione » [13].
Contemplando Dio che sta al
centro del nostro essere vediamo quali sono le sue intenzioni su di noi, e
quali intenzioni Egli ha per così dire costruito per e nella nostra anima.
Queste intenzioni divine non sono qualche cosa «in più », come uno strato di
vernice su di un muro. Sono un qualche cosa che Dio ha voluto che fosse parte
della nostra stessa natura. Anche se inconsapevoli, fin dal momento della
nostra concezione, volevamo essere buoni nel senso pieno della parola, volevamo
raggiungere la pienezza del nostro essere, volevamo toccare la Bontà Divina, e
trovare completa felicità e gioia.
Queste intenzioni sono per
noi naturali come il nostro respiro.
Come una ghianda, anche se inconsciamente,
intende diventare un albero gigantesco, cioè una immensa quercia, così noi, al
centro del nostro io, intendiamo realizzare una felicità perfetta. Dio però
aveva su di noi intenzioni diverse da quelle sul resto dell’Universo. Per sua
natura una ghianda deve divenire una quercia, così come tutto, per propria
natura, è destinato a raggiungere la sua pienezza.
Ma Dio,
nel caso di noi uomini, vuole che ciò avvenga liberamente.
Solamente
l’uomo, in tutta la creazione, può scegliere di restare seme, di rimanere
vuoto, di rifiutare di stendere la sua mano per toccare Dio.
Quando
un individuo contempla la realtà sullo sfondo della verità ultima, al centro
o al principio delle cose, il suo punto di partenza è quello di un ordine o di
una intenzione che abbraccia l’Universo intero. Questo ordine equivale alla
presenza di Dio nell’universo, e a Dio come Centro dell’universo.
Non è
sufficiente pensare a Dio come al fine di tutte le cose, collocato vagamente «
là » in qualche posto, che riusciremo a «toccare» quando tutto il resto finirà
di esistere. E neppure è sufficiente immaginare la nostra bontà, le nostre
virtù, la nostra felicità in maniera simile. Significherebbe distorcere tutta
la nostra vita e la nostra stessa natura. Dio è Alfa e Omega, principio e
fine: Egli si trova là dove due semi si incontrano per la prima volta e agli
estremi confini dell’Universo dove i rami dell’albero della nostra vita toccano
l’infinito.
E allora, che cosa dobbiamo pensare del male in
questo senso « ultimo »? Non è forse vero che il male è « assenza» di tutto?
Che è resistenza all’ordine e all’intenzione che Dio ha posto nella nostra natura?
Se il bene e la felicità sono radicati nella
nostra consapevolezza di Dio come Centro del nostro Universo, allora è
giustificato affermare che il male esiste quando gli uomini mettono se stessi
al posto di questo Centro.
Se l’uomo si nega ogni bisogno di un mondo che ha
Dio al suo centro, quest’uomo tradisce se stesso e tradisce pure l’Universo di
cui è parte [14] . Quando i
religiosi si rifiutano di cercare Dio in ogni cosa, non è forse vero che essi
si arrendono al male nel suo senso « ultimo », cioè più ampio?
Quando l’uomo sceglie se stesso, esperimenta il
vuoto e il male: immediatamente si mette contro ogni possibile o concepibile
realtà, in una parola, contro Dio.
Il male preferisce la non-realtà dell’Universo, e la non-realtà della
vita stessa. Limita la realtà ad una piccola ed effimera porzione di quella
vita che un uomo chiama sua.
Attraverso il male si crea una indifferenza
enorme e inconcepibile per il «tutto» di cui un individuo è parte. Il male è
esagerazione, distorsione grottesca, e auto-centrismo. Una cosa è dire che
l’uomo è il centro dell’Universo e che Dio è il Centro dell’uomo [15];
un’altra cosa è affermare che l’uomo, svuotato dei suoi veri valori, è al
centro di tutto. Il paradosso di ciò che abbiamo chiamato male «ultimo» è
appunto questo: un uomo, svuotato del suo centro, che avanza delle pretese di
diventare lui stesso centro [16].
Quando consideriamo il male come un mettere se
stessi al centro di tutto, nonostante la nostra grande povertà, allora rendiamo
il male sorgente di vizio e di malizia, oltre che di innumerevoli azioni peccaminose
e di tradimenti reali. Questo male può anche essere sorgente di attitudini
apparentemente « innocenti » e di pratiche che si mascherano di pietà. Come il
male è l’opposto del bene, e il male al centro dell’io è l’opposto del bene al
centro dell’uomo, così il vizio è l’opposto della virtù, la malizia l’opposto
della bontà, e il peccato l’opposto dell’obbedienza alla Volontà di Dio che è
incisa in ogni essere umano. Non ci sarebbe male, se non ci fosse quella
povertà che va a braccetto con l’individuo pieno di sé. Il male è appunto
questa povertà, questa «vuotaggine». Se non ci fosse male in noi, non ci
sarebbe vizio, appunto perché il vizio è quell’inclinazione e quella tendenza
che abbiamo in noi di rimanere « vuoti ». Ma scartato il vizio, viene a cadere
anche la malizia, perché la malizia non è altro che quella attitudine che abbiamo
di dare precedenza alle cose meno buone su quelle maggiormente buone, alle
cose temporali ed effimere su quelle spirituali e durature, ai beni di questo
mondo sui beni divini. Togliamo la malizia dai nostri cuori e sparisce anche il
peccato, perché il peccato si verifica dentro di noi ed è sempre una scelta
responsabile, basata sulla malizia ben conosciuta, di un bene minore a
preferenza di un bene maggiore.
Chiunque osasse contestare il nostro situare un
io vuoto e sterile al centro dell’Universo sarebbe bollato come traditore,
anche se in realtà l’autentico tradimento dell’io consiste nel situare questo
io al centro di tutte le cose. E’ un paradosso, ma in pratica può diventare
facile trovarsi a proprio agio con la povertà interiore, la malizia, i vizi,
i peccati che esistono dentro di noi.
Appunto perché queste cose esistono dentro di
noi, tendiamo ad identificarci con esse. Basta che qualcuno giudichi questa
nostra povertà interiore come male, o il nostro ripiegamento su noi stessi
come peccato, e subito ci sentiamo minacciati.
Tendiamo ad adagiarci quando invece ci sentiamo
chiamati ad essere più buoni, a vivere in maggiore comunione con gli altri, ad
amarci reciprocamente di più, come Dio ci ha amati, a realizzare, o almeno a
sforzarci di realizzare quella pienezza di felicità che, nella nostra vita, si
raggiunge con fatica, gradualmente, ma che è il segno più autentico della
verità del Vangelo!
Come ogni altro traditore Giuda cercò di
assassinare il vero Centro dell’Universo, e di porre, come facciamo un po’
tutti, la povertà dell’assassino al centro delle cose.
Nessun «assassino» però può essere «centro» per la
semplice ragione che un assassino è confinato in una prigione, in una cella di
isolamento, o è condannato ad un tipo di morte in cui non esiste speranza di
resurrezione.
Come traditore Giuda è stato alla ribalta della
storia per duemila anni, ma come persona, come uomo è passato inosservato a
tutti, tranne che a Cristo. Non fu mai centro per nessuno, eccetto che per
coloro che si identificano con lui, nello sforzo tanto folle quanto inutile, di
svuotare l’Universo del suo centro autentico.
Ho detto sopra che il male può essere considerato
da due punti di vista. Il primo è quello che abbiamo chiamato la «raison
d’être», o il centro «ultimo» della realtà. Il secondo è quello che chiameremo
« penultimo », cioè periferico o di « superficie » della realtà.
Certamente dobbiamo considerare le culture
moderne, le tradizioni religiose correnti, le dottrine, i presenti codici
legali, i regolamenti, come cose che cambiano senza sosta.
Il male avviene in determinate situazioni
esistenziali. Prendiamo quindi l’avvio dall’ordine di cose stabilito dagli
uomini, di cui l’uomo è centro. L’ordine creato dall’uomo tende alla rigidezza
e alla finitezza [17],
ed è in profondo contrasto con quello creato da Dio, caratterizzato dalla
spontaneità e dalla espansione. Rimanendo alla superficie delle cose, è male
irrigidirsi in certe posizioni, perpetuare modi di vivere o di pensare che
hanno fatto il loro tempo, mettere uno stile di vita al di sopra della vita
stessa.
Dio è Padre e vuole che noi siamo Suoi figli, che
diventiamo una cosa sola fra noi, come Egli e il Figlio Suo sono una cosa sola.
Purtroppo questi figli di Dio preferiscono vivere nel mondo di loro creazione,
dove sono accettati come dei centri non autentici che però fanno comodo
all’uomo e gli danno una certa pseudo-sicurezza a cui si è ormai abituato.
Un centro è qualche cosa che serve di «coesione»,
che tiene unite le cose che vi gravitano intorno. Il centro «ultimo» è quello
che tiene unito l’Universo nella comunione del Corpo di Cristo. Dal centro
dovrebbe sgorgare la vita, così come dall’anima sgorga la vita per la persona
umana. Il centro «ultimo» perciò è quello da cui deriva la pienezza della vita
per tutti i membri del Corpo Mistico di Gesù.
Senza dubbio esiste una relazione reale fra
superficie e centro, anche nella vita esistenziale: il male confonde queste
due cose, e il peccato subentra quando si sceglie il bene minore che sta in
periferia, e non quello più autentico che si trova al centro della realtà.
Quando i membri di una Congregazione religiosa
confondono ciò che è marginale (periferico) nella vita consacrata con ciò che è
essenziale (centrale), o quando si illudono che la comunione possa stabilirsi
e crescere in relazione a cose esteriori, allora essi fanno «male» e forse
commettono anche il peccato.
In una Comunità religiosa come questa, azioni,
parole, attitudini, idee, stile di vita hanno precedenza sulla vita e sulla
persona umana mentre il centro e la sorgente di ogni comunità è chiaramente Dio
solo.
Quando l’apostolato viene visto come sorgente di
unità, molte volte si finisce col preferire il servizio apostolico al rapporto
con Dio e con i Fratelli. Il servizio apostolico, invece è frutto, non causa,
della nostra unione con Dio e con i Fratelli. A volte capita che cose in se
stesse « sacre » come una povertà austera, una severa ascetica, la fedeltà alle
pratiche di pietà diventano il cuore della vita religiosa, si trasformano in
centri non autentici, idoli che i religiosi adorano a scapito magari di un vero
impegno di carità fraterna e di un autentico slancio verso Dio: di quegli
slanci che sono stati l’origine stessa della fondazione delle nostre
istituzioni religiose.
Non è facile scoprire Dio al centro della propria
vita e di quella della Comunità!
Un religioso, se si è costruito falsi « centri »,
esperimenta anche maggiore fatica nel disfarsi e nel purificarsi da ogni male.
Esiste un’area nella nostra vita religiosa dove le
cose marginali, la «superficie» come l’abbiamo chiamata, cioè il «penultimo»,
cede il passo al centro autentico del nostro essere, cioè all’«ultimo». E’
l’area delle nostre relazioni con la comunità e con gli altri religiosi.
Quando una persona è vuota dentro, non può offrire
altro che esteriorità nella sua vita religiosa.
Ciò che appare sono le sue azioni, non la sua
anima.
Tutt’al più, parlando umanamente, un tale uomo
potrà trovare soddisfazione nell’approvazione degli altri per un lavoro ben
fatto. Però questa approvazione umana è, nella migliore delle ipotesi, un bene
effimero, ed esiste il pericolo che questa persona non ne sia mai sazia.
Quando una Comunità non può offrire ai suoi membri
altro che l’approvazione, rischiamo di gettarci in una attività frenetica. Ci
esauriamo, bruciamo le tappe e spesso cadiamo in una passività priva di ogni
speranza!
Quando manca la «ricompensa», creiamo dei
surrogati per le realtà più profonde della nostra vita affettiva.
I membri della Comunità diventano allora tante
navi che, in un giorno di fitta nebbia, si sorpassano senza nemmeno vedersi.
Nessuno osa porre all’altro una domanda impegnativa, perché nessuno ha imparato
a dare una risposta autenticamente personale.
Nella misura in cui l’altro si rifiuta di
corteggiare il mio io, un io vuoto e sterile, quest’altro è messo sotto
giudizio. In realtà, ciò che esigiamo è che l’altro corteggi il nostro io. Nel
senso «penultimo» del termine, il peccato non è altro che l’incontro di un io
vuoto e sterile con un altro io altrettanto vuoto e sterile.
Abbiamo dato importanza alle cose marginali: così
facendo abbiamo superficializzato il peccato, e con esso la creazione e la
redenzione.
Prendiamo ad esempio la carità, la più profonda di
tutte le virtù, e la sorgente di tutta la vita: essa è in opposizione diretta
al male radicale. Così come stanno le cose in molte Comunità oggi, i Religiosi
sono più consapevoli della loro mancanza di carità.
Senza dubbio i nostri « peccati » possono essere
mostruosi, ma non devono limitarsi al contesto che abbiamo chiamato «penultimo».
La loro mostruosità consiste appunto nella violazione del centro «ultimo»
della persona umana, sia che si tratti di noi che degli altri. La vera malizia
di questo tipo di peccato non consiste tanto nel negare la centralità del mio
io o dell’io degli altri, ma nel negare la centralità di Dio in tutti e due.
Giuda tentò di privare tutti gli uomini di Cristo.
Mandandolo a morte, però, uccise anche il peccato.
Quando uccise il Figlio di Dio, il male perse il
suo potere di distruggere la centralità di Dio. Nella Resurrezione Gesù
divenne il centro unificatore di tutti noi, e ci « attirò tutti a se » [18].
Questa è la potenza di Dio: tutto il resto è
debolezza!
Rendersi deboli di fronte alla potenza di Dio per
scampare alla morte è debolezza. E questa debolezza si rivela chiaramente
quando scegliamo l’isolamento e la solitudine, cioè la vita meno abbondante».
Vivacchiare così in superficie può anche, all’apparenza, dare l’impressione
di discrezione: si tratta in realtà di povertà e di debolezza che non regge
al paragone di una vita vissuta in unione con il centro di ogni cosa. Se
viviamo questa unione con Dio, che è bontà infinita, ci attira a quella
comunione che riflette quella del Padre con il Figlio.
Spero, cari Confratelli, che rifletteremo a fondo
sul male che si trova dentro di noi. E’ nel contesto della povertà interiore e
della malizia che siamo chiamati alla pienezza di vita e all’abbondanza della
figliolanza di Dio. Anzi, direi che è proprio per questo!
Dio solo può riunire tutti i suoi figli in una
sola famiglia.
Illuderci che il male non esista in noi, che non
siamo inclini a commetterlo, significherebbe non ammettere di essere figli di
Dio. Infatti, Dio viene attirato a noi appunto perché ha scoperto in noi
questa nostra capacità di male, di vizio e di peccato. Eppure, prima di
redimerci da questo stato, Dio ci vide « buoni ». Sembrerebbe un paradosso
affermare che la redenzione ci venne perché eravamo « buoni » e perché eravamo
« cattivi ».
Negare l’una o l’altra realtà costituirebbe in se
stesso un vero e proprio peccato.
Cari Confratelli, Figli di San Giovanni di Dio, il
male esiste in noi: questo male ci porta a preoccuparci di cose marginali, della
«superficie» della realtà, facendoci dimenticare l’essenziale, cioè il «
centro ». Non fa differenza che ciò che ci assilla sia la «superficie» della
Chiesa, o dell’Ordine, o della nostra Provincia, o dei nostri Confratelli. Ciò
è male perché, facendo così, preferiamo un bene minore ad un bene maggiore,
ciò che è in superficie a ciò che si trova in profondità. Fermandoci qui non
raggiungeremo mai la pienezza del nostro essere, la totalità della bontà e
della felicità che Dio ha preparato per noi [19].
Stiamo però in guardia dal considerare questo bene
«in profondità» in maniera troppo astratta. Per ovviare a questo inconveniente,
vorrei parlarvi un po’ in dettaglio dei sette vizi capitali, che sono compagni
di viaggio di questo male. Essi sono la sorgente, il «capo» (questo significa
«caput », in latino, da cui viene « capitale ») di tutti i nostri peccati. La
nostra impotenza di fronte a Dio la sperimentiamo in concreto appunto in questa
nostra multipla capacità di distruggere quella unità nell’Universo che Dio
desidera stabilire. Se però noi siamo deboli e impotenti, Dio Padre ci ha dato
la possibilità di partecipare con Lui alla creazione di questa comunione.
Vizi capitali, cioè la base, vizi principali,
cioè radicali: sono lo sforzo ripetuto dell’uomo di distruggere l’ordine
dell’universo che trova in Dio il suo centro. La morte di Cristo e la Sua
Resurrezione ci hanno, per così dire, svuotati del potere di metterci al centro
delle cose per soddisfare le nostre esigenze egoiste. Come possiamo quindi,
oggi, spodestare Dio per metterci al suo posto? Quale potere abbiamo a nostra
disposizione? Come e dove riusciremo a farlo? Con chi lo faremo?
Capitolo Secondo
IL VIZIO DELLA SUPERBIA
L’orgoglio, mettendo l’Io al di sopra di tutto,
incluso Dio, sta alla radice di ogni vizio e peccato. Può essere che nel mondo
eccessivamente secolarizzato in cui viviamo, un mondo svuotato di Dio e
impastato di materialismo, l’orgoglio assumerà un significato diverso? Come si
spiega che l’orgoglio riesce a dividerci gli uni dagli altri? E’ mai possibile
che un vizio che si situa in profondità nel nostro subconscio possa diventare
parte della consapevolezza dell’io?
L’orgoglio che ci schiaccia è di due specie:
personale e comunitario.
1) Orgoglio personale: l’orgoglioso non ha nessun
senso del valore ultimo dell’io nell’Universo il cui centro è Dio.
Di conseguenza, non riesce a
centrare né su questo Dio né sul fratello di cui Dio è centro. Di fatto, nella
profondità della sua anima, non sperimenta alcuna esigenza né di Dio né del
fratello. Non è neppure capace di rispondere all’urgenza di intimità che pure
esiste nel cuore del fratello!
L’orgoglioso non sa riconoscersi come « parte »
dell’universo, perché la sua passione lo rende centro della realtà, non partecipe
della stessa! Una volta negato il suo essere creatura di Dio, egli rifiuta di
ammettere che esiste un valore in questo essere creatura di Dio, e che valga
la pena di esserlo. E’ paradossale come l’orgoglioso proclami la centralità
proprio rigettando il valore della creazione, come possa lodarne il significato
proprio accettando un’assurdità, ed esaltare l’unione proprio provocando una
divisione.
Con l’orgoglio l’uomo si situa al di sopra o al
di fuori della volontà di Dio. Il desiderio del Padre è che noi viviamo la
nostra vita intima attraverso lo Spirito, che la Sua legge di amore e di
comunione sia scritta nei nostri cuori. La Sua volontà è che raggiungiamo un
livello di perfezione al di là di ogni immaginazione [20]
, superiore perfino a quella degli Angeli [21].
Dio vuole che diventiamo Suoi figli, e per
renderci tali, cioè pienamente felici anche nel senso umano del termine, Egli
è pronto a tutto. Ci facilita il cammino, e quando delle difficoltà emergono, è
pronto con la Sua forza e con grazie speciali che ci aiutano a superarle. La
Vecchia Legge era dura, certo, tanto da provocare il peccato [22]
ma non è così per la Nuova Legge. Gesù ci ha detto: «Il mio giogo è soave, il
mio peso è leggero » [23].
Per rigettare Dio che si trova nel centro del suo
essere, l’uomo deve veramente essere motivato da un vizio fondamentale e da un
peccato che lo rode in profondità. Come può un uomo preferire il bene limitato
che esiste nel suo io umano, impastato di povertà, al bene infinitamente
superiore che gli deriva dal suo essere una stessa cosa con Dio? E’ assurdo
solo immaginarlo! Solo un essere radicalmente corrotto può ingannarsi a tal
punto da considerarsi sorgente di doni superiori a quelli che gli derivano da
Dio. Solo un essere cieco, ostinatamente rifiutandosi di ammettere che tutto è
dono di Dio, può pensare di essere capace di tanto. Ma per giungere a tal
punto, l’uomo deve essere prima schiavo di una passione terribile: l’orgoglio!
Una
volta rigettato Dio e negata la Sua volontà di felicità piena per l’uomo, la
via è libera per qualsiasi abuso. Quando l’Io e la sua centralità diventano il
principio che guida la nostra vita, il nostro assenso alla Volontà di Dio non
può ridursi altro che a parole. E da questa sorgente può scatenarsi ogni tipo
di vizio e di peccato.
Una volta rigettato il principio che la grandezza
consiste nell’essere figli Dio, e negato «il modo più eccellente» [24],
è logico che ci affanniamo a sostituire questo valore fondamentale con altre
misure di grandezza e di eccellenza (cioè nostro io). Ma è pure logico che
scateniamo un’infinita varietà di mali, che diminuiscono l’uomo svuotandolo,
rendendolo assurdo e degno di pietà. In ultima analisi, il superbo non può fare
altro che generare il male. Distrugge tutto ciò su cui mette le mani. Nella sua
arroganza disprezza il fratello, non riesce ad ammettere di aver sbagliato,
rigetta ogni responsabilità per il male che fa. La sua libertà degenera in licenza,
la sua « umanità» in ostinazione. E’ tanto incallito nel suo peccato che ogni
sua azione implica disprezzo di Dio. E molto spesso tutte queste cose egli le
compie ritenendosi « illuminato », e a fin di bene! Capita di frequente che
questa persona sia un religioso osservante di tutte le Regole e di tutte le
Leggi di Dio, « ad litteram », ma dimentichi « l’unum necessarium» che sta
scritto nel suo cuore.
Come vostro Generale sono stato obbligato a pormi questi problemi. Mi sono
spesso domandato se mi considero, o meno, il Centro del nostro Ordine, quel
«quid» che lo tiene unito, quella persona che, nel cuore dell’Ordine, ha
ricevuto il mandato di rappresentare il Cristo. Spero che ogni Provinciale e
ogni Superiore Locale sia pronto a porsi la stessa domanda. Tocca spesso ai
Superiori prendere le decisioni finali. Ciò però non giustifica in nessuna
maniera il cedere alla tentazione di considerarsi come la « realtà ultima ».
Tanti dei nostri Fratelli considerano il Superiore come Centro dell’Universo,
e ciò nutre l’orgoglio di tutte e due. Se ciò accade, è dovere del Superiore
chiarire sia a se stesso che al Confratello, che un conto è possedere
l’autorità amministrativa e un altro è considerarsi essere divini. Sono i
tiranni a possedere potere assoluto e a credersi, almeno nel subconscio, degli
esseri assoluti. Facendo così, però, tradiscono sia Dio che il loro prossimo.
Penso che questa sia la ragione per cui Gesù affermò che coloro che
esercitano la autorità devono imparare a servire [25].
Penso pure che questa sia la ragione per cui Nostro Signore, che di fatto è il
Centro dell’Universo, sia divenuto servo di tutti noi [26],
e infine penso anche che questa sia la ragione per cui Gesù lavò i piedi degli
Apostoli. Lavò anche quelli di Giuda il quale, di fatto, non riuscì mai a
distruggere l’amore e il rispetto di Cristo per lui [27].
Di fronte all’amore di Gesù Cristo l’orgoglio è
debolezza.
Ho già accennato al fatto che il male provoca
divisioni.
Con l’orgoglio tradiamo i fratelli come Giuda
tradì il suo Fratello, il Figlio di Dio.
Quando un Generale o un Provinciale prestano
orecchio a chi si lamenta di certe debolezze che si notano in superficie nei
Fratelli, e decidono in conseguenza di tali lamenti, non è forse vero che, col
loro operato, essi contribuiscono a seminare divisione nella Comunità? E che
agiscono per orgoglio?
Perché invece non aiutare il Fratello che si
lamenta a scoprire la bontà interiore che certamente si trova nell’altro, e a
vedere in lui la presenza del Cristo? Nostro Signore tende a vedere soprattutto
ciò che è buono e bello nell’altro, mentre passa sopra a ciò che può essere
spiacevole o ripugnante in superficie.
Chiedo troppo se invito i Provinciali e i
Superiori locali ad esigere che questi lamenti si facciano alla presenza delle
persone interessate? Quando un Fratello parla male di un altro, non è forse
vero che, così facendo, ne diminuisce la stima, ed esalta se stesso? E che cosa
è ciò se non superbia? Quando i Superiori si prestano a certe cose, diventano
partecipi dello stesso vizio.
Un Fratello che, per orgoglio, abbassa un altro
Fratello gli sottrae un valore che gli appartiene di pieno diritto: il suo buon
nome. Derubare un Fratello dell’onore che gli è dovuto, della buona reputazione
che gli spetta non è forse molto più grave che derubarlo di beni esteriori?
Se i Superiori partecipano a questo «furto», sono
tenuti alla restituzione se vogliono che il loro peccato venga perdonato.
Capita spesso che queste « calunnie e
denigrazioni» finiscano su un resoconto scritto: queste cose sono una vera e
propria rapina e una diminuzione dell’altro.
In ogni Comunità religiosa i Superiori devono ogni
giorno prendere delle decisioni di carattere amministrativo. Lo stesso dicasi
del Generale dell’Ordine.
Esiste il pericolo che il nostro lavoro
amministrativo, o direzionale diventi una vera e propria evasione dall’<
unum necessarium»[28]
, cioè dal nostro dovere di portare i Fratelli a quell’amore reciproco che
riflette l’amore del Padre e del Figlio. Sotto questa nostra eccessiva
preoccupazione amministrativa può anche nascondersi un certo orgoglio,
specifico di noi Superiori!
Potremo dire in tutta onestà che io come Generale,
e voi come Provinciali o Priori, siamo veramente persone desiderose di diventare
autentici leaders cristiani? E se vogliamo essere leaders invece che amministratori,
sappiamo con chiarezza dove intendiamo guidare i nostri Fratelli? In parole
povere, ho io, come vostro Generale, avete voi come Provinciali e Superiori Locali,
messo il molo di leader alla base del molo di autorità? Interroghiamoci: se la
maggior parte del nostro tempo la passiamo distratti da una grande quantità di
affari, non potrà forse Gesù rivolgerci quelle stesse parole che disse a
Marta: « Marta Marta, ti affanni troppo! Una sola cosa è necessaria. Maria ha
scelto la parte migliore che non le sarà tolta »? [29].
Quali sono dunque le cose di cui noi Superiori e i
nostri Confratelli si preoccupano e in cui si scopre prova evidente e dolorosa
di orgoglio? Ci preoccupiamo di affari giuridici, siamo più interessati alla
lettera che allo spirito delle cose. Sciupiamo ore ed ore discutendo le
strutture giuridiche della Comunità e degli stessi nostri voti. Siamo
preoccupati dell’obbedienza esterna ai nostri Direttori Provinciali, anche se
Gesù ci ha dato un altro comando: « Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi
di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello
che indosserete: la vita non vale forse di più del cibo, e il corpo più del
vestito »? [30].
Se ci affanniamo dietro queste cose mostriamo ai
nostri Fratelli di essere noi al centro delle cose, che sta a noi provvedere ad
esse, invece che al Padre, la cui cura per loro è molto maggiore della nostra.
Confratelli carissimi, forse quando sono stato
eletto vostro Generale non fu in vista dell’amore cristiano. Chi mi ha dato il
voto perché mi amava? E se l’amore non fu il motivo della nostra elezione è
molto improbabile che coloro che ci hanno scelto si attendessero che noi
guidassimo i Fratelli all’amore reciproco. Quale maschera abbiamo indossato,
quale frode perpetrata se, eleggendoci, i nostri Fratelli non lo fecero perché
convinti che avremmo fatto l’«unum necessarium », ma forse proprio al contrario,
perché convinti che non l’avremmo fatto? Può un buon Superiore Maggiore, il cui
impegno deve essere quello di portare i Fratelli all’unione con il Centro
dell’Universo, può un buon Superiore Maggiore, lo ripeto, continuare a portare
la maschera e perpetrare quella frode che la nostra Chiesa, nel Decreto «
Perfectae Caritatis » ha chiesto di mettere da parte una volta per sempre?
L’umiltà è verità. Gli umili non portano maschere per nascondere sia il bene
che il male.
Carissimi Confratelli, tutti noi siamo
occupatissimi, in innumerevoli dettagli di amministrazione e di direzione,
tuttavia vorrei attirare la vostra attenzione su un’altra preoccupazione,
un’altra ansia. Sono convinto che tutti noi, Superiori e Fratelli, siamo
troppo occupati, anzi preoccupati, circa i Fratelli « problematici » che ci
stanno intorno. Ma forse, in fondo in fondo, è l’orgoglio che ci spinge a
dedicare tanto tempo a questi individui e così poco tempo ai Fratelli « buoni »
per guidarli ad una maggiore comunione con ciascun membro della Comunità!
Non può darsi il caso che una delle « maschere »
dei Superiori Maggiori sia appunto questa convinzione di avere in mano le
chiavi per risolvere tutti i problemi? Il vero compito nostro, come Superiori
Maggiori, è un altro: aiutare i nostri Confratelli a raggiungere l’unione con
Dio, col Fondatore e con ciascun membro della Comunità. E’ vero, in ogni Casa
ci sono problemi, ma dobbiamo essere convinti che non abbiamo né la capacità
né la vocazione di risolverli tutti. I leaders veramente maturi, responsabili
e preparati fanno uso di esperti esterni, perché abbastanza umili da ammettere
i loro limiti. Ciò che Gesù disse della pecorella smarrita è senza dubbio vero.
Certamente è cristiano « abbandonare le novantanove nell’ovile per andare in
cerca dell’una perduta, fino a che la si ritrovi [31].
Ma la pecorella smarrita e il Figliol Prodigo (di cui si parla nello stesso
capitolo) non sono tanto gli individui problematici, quanto i nostri Fratelli
che abbisognano di pentimento e di riconciliazione. Le novantanove vivono
veramente in comunione le une con le altre. Quella perduta è il Fratello che
non ha mai esperimentato la unione in seno alla Comunità.
Ma, direte voi, è proprio vero che il novantanove
per cento vive una vita di profonda comunione? O magari solo il cinquanta per
cento? O forse appena il due per cento? Non esponiamoci a peccare di orgoglio
paragonando i Fratelli « problematici» alla pecorella smarrita! Non esponiamoci
a delusioni convincendoci magari di essere il «buon pastore» che passa tutto il
suo preoccupandosi di questi «problemi magari trascurando l’unica cosa che
veramente conta [32].
Ogni volta che ci esaltiamo al di sopra quello che
siamo in realtà, per volgerci a beni minori (cioè a noi stessi, allontanandoci
da Dio) ci creiamo un vuoto e innalziamo il nostro io, povero e superficiale,
al di sopra di Dio stesso.
Chi conosce la via cristiana alla perfezione sa
benissimo che ogni individuo e ogni Comunità deve passare attraverso il duro
sentiero del Rinnovamento.
San Giovanni della Croce parla di queste tre
tappe come di Via Purgativa, Illuminativa e Unitiva. Secondo San Giovanni
della Croce e Santa Teresa d’Avila l’anima umana non ha bisogno di completare
una tappa prima di passare all’altra. Oggi, però, Fratelli miei, iniziamo il
nostro processo di Rinnovamento.
Se non siamo disponibili a guardare in faccia al
nostro orgoglio e ad ammettere il potere tremendo che un tale vizio ha su di
noi e su gli altri, e a purificarcene, non faremo mai un vero cammino sul
sentiero del Rinnovamento.
Vi supplico di non lasciarvi spaventare da questa
purificazione.
L’orgoglio è uno dei vizi più pericolosi perché ci
allontana dalla sorgente di ogni bontà e di ogni felicità.
Dedichiamoci interamente all’unione e la nostra
gioia strariperà [33].
2) Orgoglio Comunitario: Fratelli cari, quelli di
noi che tendono a preoccuparsi di se stessi e dell’impressione che possono fare
sui loro Fratelli troveranno molto difficile riflettere sui due problemi a cui
ho già accennato sopra: il problema del male e della malizia che sta al centro
del nostro essere, e il problema dell’orgoglio nella sua dimensione personale.
Allo stesso modo, quelli di noi che si preoccupano
per l’Ordine e per l’idea che il mondo può farsi dello stesso, troveranno
difficile riflettere sull’altra dimensione dell’orgoglio, quella comunitaria.
E’ naturale che ciascuno di noi si senta in un
certo senso orgoglioso di appartenere all’Ordine!
E’ bene anche essere orgogliosi dell’Ordine.
Da parte mia sono certamente orgoglioso di
appartenere all’Ordine fondato da San Giovanni di Dio, e lo considero un tesoro
di immenso valore nella Chiesa [34].
Esiste però una differenza di fondo fra questo
tipo di orgoglio e quell’altro che, in un certo senso, pone l’Ordine al centro
di tutto.
Come nel caso dell’orgoglio personale, anche in
quello dell’orgoglio di corpo, il vizio risiede nell’intimo del nostro essere,
in ciò che Freud chiamerebbe «subconscio ». Il nostro compito è ora di
riflettere su questo subconscio, su quest’anima « collettiva ». Così facendo
portiamo a galla, cioè a livello di conscio, ciò di cui non siamo consapevoli.
Penso che il miglior modo di procedere sia di
sollevare dei problemi, quegli stessi che mi vengono in mente mentre rifletto
sull’Ordine nel contesto del vizio capitale dell’orgoglio. So benissimo che è
un compito tutt’altro che piacevole, e sono certo che anche voi la pensate
così.
Se vogliamo progredire nel cammino del
Rinnovamento dobbiamo incominciare dalla Via Purgativa. Non si sfugge.
Voglio porre il problema nei termini del dilemma
che è comune a tutte le istituzioni.
Il dilemma istituzionale: l’individuo
e l’istituzione
Questo primo problema concerne la scelta fra
Apostolato privato (dell’individuo) e Apostolato istituzionale. Se come
Comunità decidiamo di salvaguardare l’individuo con le sue esigenze, dobbiamo
sacrificare le grandi istituzioni e perdere la nostra identità comunitaria. In
questo caso l’Ordine è destinato a sparire in breve tempo. Se invece scegliamo
l’altra faccia della medaglia, cioè di continuare nelle grandi istituzioni,
succederà che i Fratelli si troveranno impantanati, per così dire, nelle molte
attività inerenti a tali istituzioni, e anche in questo caso l’Ordine è
destinato a perire.
In ogni caso ciò che va evitato è di prendere
decisioni che risolvano il dilemma in base all’orgoglio di istituzione.
Esiste anche una terza soluzione, che chiamerei
pseudosoluzione. Continuare ad esistere come Ordine formando dei Fratelli
disponibili ad accettare la «missione» di inserirsi in Apostolati personali o
nelle grandi opere istituzionali. I Fratelli diventano così il centro
unificatore di Apostolati radicalmente opposti. In superficie il discorso
fila: ma esaminiamolo alla luce della fede, e vedremo che si tratta semplicemente
di un’utopia. E’ vero, la Comunità in se stessa ha una bellezza e un valore
intrinseco, ma, se vogliamo essere onesti, che differenza esisterebbe, in tal
caso, fra noi e qualsiasi altro gruppo operante nei mondo? Solo coloro che
agiscono per orgoglio di corpo possono concludere che ciò che importa è
mantenere la Comunità a tutti i costi, la Comunità al centro di tutto! In
pratica però l’emergere di questo nuovo tipo di Comunità è destinato a creare
un dilemma ancora più tragico, che si può esprimere pressappoco così: permettere
ai Fratelli di inserirsi in Apostolati soggettivi, di scelta personale, col
rischio di perderli all’Istituzione, o di perderli come persone autentiche in
seno alle grandi Istituzioni Comunitarie.
Il secondo
dilemma è quello «comunitario», con la seguente alternativa: migliorare la
Comunità le cui energie sono tutte dirette al di dentro, o migliorare la Comunità
le cui energie sono tutte dirette al di fuori, in ogni caso per assicurare
l’integrità. Nel primo caso abbiamo una Comunità, in cui i Fratelli guardano
solo a se stessi, nel secondo abbiamo una Comunità in cui i Fratelli guardano
solo a coloro che essi servono.
Se scegliamo di occuparci della prima alternativa,
cioè della Comunità che chiameremo «introversa», non ci sfugge il pericolo di
sterilità, di soffocamento, di morte. Se optiamo per la seconda alternativa,
cioè la Comunità «estroversa», non ci sfugge il pericolo che i Fratelli
rimangano «bruciati» dalla loro stessa attività apostolica e si isteriliscano.
Anche qui la Comunità è condannata a morte.
Certo all’uomo « ragionevole » tutte e due le
soluzioni possono sembrare plausibili, ma all’uomo « di fede» appaiono chiaramente
come frutto di « orgoglio di istituzione ».
Nessuna Comunità totalmente «introversa» o
totalmente « estroversa » può sperare di mantenersi in vita. L’esistenza e la
comunione, non dimentichiamolo mai, sono la stessa cosa.
Che cosa dunque ci dice la fede circa la nostra
Comunità?
L’orgoglio è l’antitesi della fede. L’orgoglio
crea false centralità che, per la loro intrinseca debolezza, diventano fattori
di divisione. La sola Comunità, la sola fraternità che può sperare di
sopravvivere, di crescere dinamicamente, di realizzarsi anche sul piano umano e
di portare frutti apostolici, è la Comunità e la fraternità che pone Dio al
centro di tutto, e Dio solo.
Sarebbe assurdo affermare che il Rinnovamento è
il centro della nostra vita: fare ciò significherebbe fare del Rinnovamento un
idolo. Sarebbe pure assurdo fare della Comunità rinnovata il centro della
nostra vita. Fare ciò significherebbe creare un’altra divinità.
Ciascun Confratello deve sforzarsi di mettere Dio
al centro di se stesso, e una volta fatto questo, di scoprire Dio al centro
della sua Comunità. Nella misura in cui ciò si realizzerà, l’integrità
personale di ciascuno e la comunione di ogni Comunità diventeranno delle vere
e proprie realtà.
Ho già detto sopra che Dio non risiede alla
periferia delle cose, ma al loro centro. Dio è il Centro delle cose. E’ facile
di Dio, agire per Dio, rivestire, per così dire, i panni di Dio, e continuare a
alla superficie delle cose, col pericolo di sparire da un momento all’altro.
L’orgoglio di istituzione, anche nel nostro sforzo di Rinnovamento, non è la
risposta al problema.
L’unica risposta è di trovare
Dio al centro delle cose e riscoprirLo come centro di ogni realtà. Rinnovarci,
significa stroncare quella tendenza al male e alla superficialità che ci viene
dal vizio dell’orgoglio. Significa rivivere, attraverso la virtù della fede,
la nostra scoperta di Dio al centro di tutte le cose, e così realizzare la
pienezza e la felicità completa del nostro essere.
Il dilemma della crescita: staticità o dinamismo
Un religioso, una Comunità o una Provincia che si
dichiarino convinti dell’assolutezza e della finalità delle nostre forme di
esistenza, così come sono oggi, fanno ciò ispirati non dalla fede ma
dall’orgoglio. Altrettanto, un religioso, una Comunità o una Provincia che
giudicassero senza valore, e perciò degno di mutamento radicale, ciò che si è
fatto nel passato, agirebbero per orgoglio e non certo alla luce della fede.
Tl
dilemma, però, esiste nell’Ordine, e per noi Superiori Maggiori costituisce un
problema: come affrontarlo?
Se
decidiamo che nulla va cambiato, fissiamo lo « Status Quo », invece che Dio,
come Centro del nostro mondo. Se, al contrario, siamo propensi a cambiare
tutto, mettiamo al cuore della realtà l’adattamento invece che Dio! E allora?
Il
nostro compito, come religiosi e Superiori Maggiori, è di esaminare sia il vecchio
che il nuovo alla luce del Vangelo, della vita di San Giovanni di Dio, dei religiosi
che compongono il nostro Ordine, dei segni dei tempi. Il « vecchio » ha valore
in quanto ha Dio come Centro della sua realtà. Lo stesso dicasi del « nuovo ».
L’orgoglio di corpo, incapace di scoprire la centralità di Dio, tenterà di
causare nell’Ordine divisione fra quelli che hanno fatto un dio delle cose
passate e quelli che hanno fatto un dio delle cose nuove.
Inutile dire che in ambedue i casi si tratta di
vera e propria idolatria: ciascuna parte si ostina a considerare le sue vie
come le vie di Dio. Il Vaticano II, però, nel « Perfectae Caritatis» e nella
«Gaudium et Spes» ci ha insegnato due cose molto chiaramente: la prima, che
rinnovare lo Spirito e il Carisma significa scoprire Dio al centro di ogni
realtà; la seconda è che dobbiamo adattare questo spirito rinnovato ai segni
dei tempi. Solo in un secondo tempo, cioè dopo la riscoperta di Dio e della sua
Centralità, si deve procedere all’adattamento della nostra crescita
comunitaria e del nostro servizio apostolico nello Spirito.
Molle Comunità religiose, inclusa la nostra,
hanno fatto seri sforzi per adattarsi ai segni dei tempi, ma solo in
superficie. Nella « Gaudium et Spes » i segni dei tempi sono visti come realtà
interiori e come conflitti. Quindi l’aggiornamento richiesto deve riguardare
il cuore dei Fratelli che vivono in comunione, più che le loro azioni e le
esteriorità.
Fratelli miei, che nessuno di noi osi affermare
che Cristo è con noi in questo nostro cammino di Rinnovamento se Dio, Suo
Padre, non sta chiaramente al centro dello stesso.
Come dunque può un Fratello discernere se Dio è
veramente presente in se stesso e nella Comunità, come centro di ogni realtà?
Prima di tutto occorre soffocare l’orgoglio, sia
personale che comunitario, con la virtù dell’umiltà. Così facendo, ciascuno
scoprirà la sua personale insufficienza e la insufficienza della sua Comunità
ad essere centro ultimo delle cose. Scoprirà anche la grandezza e la magnificenza
di Dio che è l’unico Centro autentico. Infine scoprirà che, sia in se stesso
che nella Comunità; esiste una grande bontà e il potere di realizzare in
comunione con Dio un autentico Rinnovamento.
San Paolo ci insegna anche altre vie per
discernere la presenza dello Spirito Santo in mezzo a noi affermando che Dio si
rivela attraverso i Suoi frutti e i Suoi doni.
Prima di azzardarci a leggere i segni dei tempi,
impariamo a discernere la presenza dello Spirito Santo. Vi riusciremo solo in
un contesto di preghiera e di riflessione comunitaria.
In questa atmosfera, i Fratelli riescono a
comunicarsi sia la presenza che l’assenza di questi frutti e di questi doni
dello Spirito. Stiamo attenti, però, a non ingannarci nel processo di
discernimento.
Se seguiamo il nostro orgoglio, potremo anche fare
di questi frutti e di questi doni un uso fraudolento, superficiale ed errato.
Il criterio ultimo della presenza dello Spirito in noi stessi e nella Comunità
rimane sempre la comunione che esiste fra di noi.
Se questa comunione assomiglia a quella che esiste
fra il Padre e il Figlio, i frutti e i doni che esperimentiamo sono veramente
quelli dello Spirito Santo.
Il dilemma morale: spirito o lettera della Legge
Le risposte al mio questionario e le varie sintesi
provinciali rivelano nell’Ordine, oggi, due forze opposte. Un gran numero di
Confratelli è del parere che, alla base e al centro del nostro processo di
Rinnovamento si pongano le Costituzioni, gli Statuti Generali e i Direttori
Provinciali. In una parola, essi vogliono ritornare all’osservanza stretta e
rigida delle Costituzioni. Un altro gruppo, altrettanto nutrito, ignorando il
primo, insiste sulla urgenza di uno studio approfondito dei Documenti
Conciliari, di un ritorno allo spirito del Fondatore, di una immersione nel
messaggio evangelico. Questo rappresenta, per loro, la base e il centro di ogni
Rinnovamento.
Che cosa devono fare i Confratelli, che cosa
dobbiamo fare noi, Superiori Maggiori, di fronte a queste forze opposte? La
nostra maggiore responsabilità è di creare l’unione di tutti i Fratelli. Quando
emergono polarizzazioni radicali come queste, dobbiamo forse sederci con le
mani in mano, nella speranza che Dio intervenga a risolvere i problemi?
Dobbiamo mettere la difficoltà in un cassetto e lasciarvela, facendo finta che
non esiste? Dobbiamo schierarci da una parte o dall’altra, contribuendo così
alla divisione dell’Ordine?
Secondo me, un dilemma così fondamentale può
essere risolto solamente con la consapevolezza profonda che esiste il pericolo
di un orgoglio di istituzione. L’orgoglioso, non dimentichiamolo mai, elimina
Dio dal cuore delle cose e lo rimpiazza con beni minori e falsi idoli. L’uomo
di fede, invece, sperimenta la centralità di Dio in ogni realtà, sia vecchia
che nuova.
A coloro che insistono sulla rigida osservanza
delle Regole e Costituzioni come centro del nostro cammino di Rinnovamento, io
chiedo: « Dove si trova Dio »? La stessa domanda pongo a quelli che si
ostinano sulla interpretazione letterale dei Documenti del Vaticano II. «Dove
si trova Dio»? Il fare di una o dell’altra di queste posizioni un idolo
significherebbe creare una spaccatura fatale. A tutte e due queste « parti »
vorrei suggerire: andate a fondo delle cose e scoprirete il fine ultimo! Come
ci dice San Paolo nella sua lettera ai Romani: «Ora però siamo stati liberati
dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel
regime nuovo dello spirito e non nel regime vecchio della lettera» [35].
La Nuova Legge ci viene dal Figlio di Dio fatto uomo. Lo spirito che anima
questa Nuova Legge è lo Spirito Santo di Dio. E’ una legge scritta nei nostri
cuori.
Dobbiamo anche noi cercare lo Spirito di Dio nella
lettera della nostra Regola e nella lettera delle nuove Costituzioni della Chiesa
post-conciliare.
Riflettano quei Fratelli e quei Provinciali che
sono convinti che la salvezza si trova nella stretta osservanza della legge,
che lo Spirito viene prima della legge. E facciamo riflettere tutti gli altri!
E cerchiamo di essere sensibili alla Sua ispirazione e di discernere la Sua
presenza!
D’altra parte, quei Fratelli e quei Provinciali
che si aggrappano alle parole del Vaticano II devono anche loro imparare una
lezione, che è fondamentalmente la stessa: siamo nello Spirito, non nella lettera
della Legge!
Non abbiano paura i Provinciali di spingere i
loro Fratelli ad una seria ricerca di Dio al centro dell’universo. Dicano loro
chiaro e tondo che l’orgoglio tende a rimuovere Dio dal centro delle cose per
rimpiazzarlo con idoli facilmente fabbricati e quasi sempre falsi.
Uomo morale è colui che mette il bene ultimo al
primo posto nella sua vita.
Uomo morale è colui che cerca prima la pienezza
del suo essere e della sua felicità anche umana. uomo morale è colui che si
sforza di vedere che questi valori siano non solamente suoi ma anche dei suoi
Confratelli.
Le leggi umane, in una istituzione, sono
certamente utili, anzi necessarie, però sono buone solamente quando sono
proporzionate alla Nuova Legge, che ci impone di amare Dio e il prossimo come
noi stessi. Quando invece queste leggi umane diventano fini a se stesse,
quando cioè si mettono al centro del nostro mondo, prendendo il posto di Dio,
allora diventano pericolose e anche distruttive.
Senza dubbio dobbiamo essere uomini morali, ma non
legalisti, perché solo l’uomo morale può essere uomo religioso.
Il dilemma religioso: esteriorità e costrizione o
interiorità e libertà
Parlando dell’orgoglio personale ho detto che
l’orgoglioso è un uomo vuoto che tenta di mettere la sua povertà al centro di
tutto ciò che incontra. E’ ancora l’orgoglio, quello di corpo, che porta un
Ordine Religioso alla stessa povertà interiore. Succede allora che
quest’Ordine cerca di farsi accettare più per mezzo delle cose esterne che dei
veri valori. Siamo tutti al corrente della caduta di Roma, un impero svuotato
di ogni ricchezza morale e adorno solo della sua gloria imperiale. E’ un
paradosso della storia ma è così: l’esteriorità è direttamente proporzionale
al vuoto interiore!
Quando non esiste autenticità si tende ad
appoggiarsi sul superficiale. Purtroppo, e noi l’abbiamo visto, la stessa
tragedia è accaduta per la Chiesa.
Oggi però l’esteriorità non inganna più nèssuno.
La nostra società sembra essere sensibile in proposito, e capisce che là dove
il primato è concesso alla esteriorità, immediatamente subentra il rischio
della costrizione. Quando poi questa esteriorità è tenuta in piedi a tutti i
costi, se non c’è libertà, la gente capisce subito che si tratta di sole
apparenze! In realtà l’autorità è morta!
La facciata splendida del decadente Impero Romano
non trattenne affatto i Barbari dal saccheggiarlo a piacere! E si capisce: il
«centro » era morto! Fu solo quando un uomo semplice, vestito poveramente, con
in mano una nuda croce arrivò a Roma, con in cuore la forza di Cristo, che i
Barbari si ritirarono. Leone Magno, da solo, riuscì a fare ciò che gli
eserciti imperiali non avevano potuto. Leone era umile, ben consapevole di non
essere lui il centro di Roma. Nella sua semplicità proclamò ai Barbari che
Dio, in realtà, stava al centro dei resti di questo impero. Ed essi fecero marcia
indietro, non davanti al potere di Leone ma davanti al potere di Dio.
Diamo ora uno sguardo al nostro Ordine e
chiediamoci onestamente (anche se far questo ci può costare!) se forse non
stiamo recitando la stessa farsa. Tutte le decorazioni dorate di un tempo che
fu, esistono ancora fra di noi, ma al centro, esiste qualche cosa di
autentico? Forse che l’abito che portiamo, le pratiche monastiche che compiamo,
la grande istituzione che dirigiamo riescono a convincere gli uomini che, nel
centro, esiste veramente Dio? O forse, per usare le parole del Nuovo
Testamento, siamo un po’ come i Farisei: « ipocriti, sepolcri imbiancati, che
all’esterno sembrano belli ma dentro sono pieni di ossa e di marciume »? [36].
Fratelli miei, queste sono domande, non risposte!
Un vero religioso si pone queste domande ogni giorno. O forse il nostro orgoglio
di corpo ci impedisce di porre queste domande alla nostra Comunità, alla nostra
Provincia, al nostro Ordine? La verità — ce lo ha detto Gesù stesso — è l’unica
cosa che può aiutarci a realizzare la vera comunione tra di noi.
L’orgoglioso, che non si assoggetta a nessuno,
che si mette al di sopra di tutti gli altri, Dio incluso, e mette la sua
volontà al di sopra di tutte le cose, si sente completamente autosufficiente,
non disponibile ad accettare nessun dono, neanche quello della verità. Questo
orgoglioso è l’uomo meno libero che esista, l’uomo più prigioniero di una
infinita moltitudine di esigenze che non riesce mai a soddisfare, di una infinita
moltitudine di cose che non lo accontentano mai.
L’umile, invece, l’uomo che ha scoperto Dio al
centro del suo essere e che è disponibile ad accettare il dono della verità, è
anche l’uomo più libero di cercare l’intima comunione con gli altri. Dalla
interiorità scaturisce la libertà perché « la verità vi farà liberi » [37].
E’ anche interessante vedere come la Comunità
orgogliosa, che è Comunità vuota, è quella che si sente più costretta nelle
relazioni interpersonali. Tutto è nascosto e segreto, anche se in fondo in
fondo, questo vuoto causa un senso di vergogna. Una Comunità di questo genere
non sa collaborare con altre Comunità religiose; cerca di esercitare un
controllo assoluto sul personale laico che lavora nel suo seno, e sui malati.
Se è una Comunità maschile raramente collabora con le donne, e se è una
Comunità femminile, raramente collabora con gli uomini.
Questo è il frutto dell’orgoglio di corpo. Solo
l’esteriorità appare, perché di dentro c’è solo il vuoto.
La Comunità che mette Dio al suo centro, invece,
è Comunità di amore e di comunione perché è Comunità di libertà. Non si lascia
a scoraggiare dalle sue debolezze. Non ha in sé quei vuoti che servono a creare
barriere che la dividono da altre Comunità. Anzi, dipende dalla forza di Dio,
dai Suoi doni e dalla presenza dello Spirito Santo.
Questi fattori la rendono libera, disposta alle
relazioni con gli altri, alla cooperazione, e ad una Ospitalità Universale
come quella di Cristo che non chiudeva le porte del suo cuore a nessuno. Questa
è una vera Comunità, che si sente a suo agio alla presenza di Dio.
Il dilemma della sicurezza: isolamento - partecipazione
Penso che sia giustificato dire che il nostro
Ordine è meglio conosciuto per il suo isolamento nella Chiesa e dalle altre
Congregazioni Religiose, che per la sua partecipazione nella stessa e con le
stesse. Questo isolamento sembra aumentare il senso di sicurezza di alcuni fra
di noi, restii a partecipare in pieno alla vita della Chiesa Universale, Essi
si oppongono ad ogni interferenza nelle loro Case e probabilmente nei loro
cuori, da parte di questa Chiesa.
Poche sono le Comunità che invitano esperti dal di
fuori per aiutarle. Anche il Generale è criticato severamente da molti perché
insiste sul valore e sul bisogno di questo aiuto dall’esterno. Sono il vostro
Generale e parlo per esperienza. Esperimento anch’io questa riluttanza ad
aprirmi completamente agli altri, sia quando do che quando ricevo. So che
questa riluttanza deriva da un senso di insicurezza, che a sua volta viene
dall’orgoglio. So che dobbiamo purificarci in questo campo, se vogliamo
veramente crescere insieme.
E’ pure vero però che questi esperti, una volta
penetrati nelle nostre fortezze sia di individui che di Comunità, hanno scoperto
pochi segreti interiori. Tutte le Comunità religiose, non solo quelle del
nostro Ordine, passano attraverso la stessa prova. Noi però, ci sentiamo «
sicuri » tenendo i nostri segreti per noi.
Il cercare sicurezza in questo isolamento ha la
sua radice nel vizio che abbiamo chiamato «orgoglio di corpo». La sicurezza
umana non si trova mai dietro ad una porta sprangata, all’interno di una
fortezza ben protetta, o in una cella di rigore. La sicurezza per l’uomo, come
ci ha detto bene la « Gaudium et Spes », non è simile a quella che cerchiamo di
assicurarci quando mettiamo sotto chiave i nostri tesori per evitare che ci
siano rubati. E’ invece simile alla sicurezza del Figlio di Dio il quale, anche
se abbandonato dal Padre sulla Croce, era totalmente a suo agio, perché era
unito al Padre Suo. La sicurezza umana si trova nel cuore aperto e nella mente
aperta. Il Concilio ci ha insegnato che l’uomo è sociale per sua stessa natura [38]
e che la vita è un incontro, e che maggiore è la comunione, più piena e più
sicura è la nostra identità.
Cari Fratelli, vi scongiuro, apriamo le porte dei
nostri conventi così che i nostri Fratelli possano stabilire comunione con
altre Comunità che non siano le nostre. Lasciate che altri entrino attraverso
queste porte, portando con sé i loro tesori religiosi per parteciparceli.
La Comunità orgogliosa si caratterizza per
l’isolamento che esiste anche fra Comunità del nostro Ordine, fra Provincia e
Provincia, e fra i membri tutti della nostra famiglia religiosa. La Comunità
orgogliosa si caratterizza per la lentezza con cui affronta il problema della
Formazione Permanente, come se avesse già raggiunto la cima della perfezione.
La Comunità orgogliosa, non avendo centro
proprio, manca di iniziative e di energie per attirare nuovi membri a se
stessa. Ignora le opere missionarie dell’Ordine, si disinteressa di ciò che
accade in altre Comunità, in altre Province. Non sa niente delle reali
condizioni delle città in cui vive.
E’ incapace di leggere i segni dei tempi
accuratamente. Il suo servizio è esplicato in modo perentorio, di malavoglia. I
beni che riceve, li riceve senza gratitudine o magnanimità.
Cari Fratelli, se nelle vostre Comunità o Province
scoprite qualcuno di questi segni, sapete qual è il compito che vi attende.
Occorre aiutarci a vicenda per purificarci dal vizio dell’orgoglio di corpo.
Arricchiti e vivificati, nella fede, dal vero Rinnovamento dello Spirito,
dobbiamo insieme sforzarci di scoprire l’abbondanza della vita che sarà nostro
retaggio quando avremo messo Dio al Suo vero posto, cioè al centro
dell’universo.
Se all’origine della nostra insicurezza e del
nostro isolamento troviamo l’orgoglio, come potremo esperimentare comunione e
sicurezza? Chi ci aiuterà a comprendere il senso dell’appartenenza? Può forse
un membro del corpo dirci che cosa significa partecipare all’essere dell’anima
umana? Possiamo contemplare il palmo della mano, i petali di un fiore, i rami
di un albero, le stelle del cielo, il mare, la terra, e imparare da loro che
cosa significa comunione e senso di sicurezza? Osiamo guardare in faccia il
Figlio di Dio che divenne uno di noi attraverso una unione che Egli stesso
paragonò a quella che esiste fra vite e tralci?
E che dire dello Spirito Santo? Non è forse vero
che vive in noi come in un tempio? E non è forse anche questo un modo di
partecipare al nostro essere uomini? Senza dubbio Gesù parlò spesso della sua
unione con il Padre e con lo Spirito Santo! Osiamo noi contemplare questo
mistero dei misteri, e scoprirvi ciò che Gesù ci ha rivelato in proposito,
cioè il mistero della nostra comunione? Come riusciremo a liberarci dal vizio
dell’orgoglio che ci rende ciechi, incapaci di afferrare la bellezza di un
tale mistero?
Preferirei non attirare la vostra attenzione su
questo aspetto della vita religiosa. Magari fossimo tutti esenti e liberi da
queste sorgenti di male e di vizio! Il nostro Rinnovamento, però, non sarebbe
mai autentico se non parlassimo chiaro sulle nostre cattive inclinazioni.
Solo prendendo l’orgoglio di petto, nella sua cruda realtà, riusciremo a
vincerlo sia in noi stessi che nella Comunità. Partecipiamo di questa vittoria
mentre ci accingiamo al Rinnovamento interiore del nostro Spirito e del nostro
Carisma.
Capitolo
Terzo
GLI
ALTRI VIZI CAPITALI
Dovremmo, a questo punto, sentirei disposti ad
ammettere che siamo peccatori e che abbiamo in noi quei sette vizi che hanno
il potere di distruggere quella unione con il Padre che Egli tanto desidera per
noi. Forse la nostra conoscenza dell’orgoglio, il più distruttivo e letale dei
sette vizi capitali, è aumentata. Oltre ad essere principio degli altri sei
vizi capitali, l’orgoglio è anche radice di innumerevoli peccati. Ne abbiamo
parlato estesamente. Adesso dobbiamo affrontare gli altri sei vizi. Sono di
opinione che basterà farlo in maniera più breve. Essi non sono così vicini al
centro del nostro essere, come lo è l’orgoglio. Sono perciò più facilmente
individuabili attraverso i segni che li rivelano.
Il vizio della gelosia
Per realizzare la comunione occorre comprendere, e
porre freno alla gelosia o invidia, che nella superbia trova le sue radici.
Siamo in comunione con gli altri quando, pieni di compassione e di amore per
loro, scopriamo la bontà e la bellezza che sta al centro del loro essere, e ne
siamo attratti.
Quando percepiamo che un Fratello è buono, sia in
superficie che in profondità, la nostra risposta normale è il desiderio di
emulazione.
Ammiriamo il bene che vediamo nell’altro e
sentiamo l’urgenza di realizzarlo anche noi. Forse, senza neanche
accorgercene, apprezziamo questo bene come un dono di Dio. Gli siamo grati per
averci dato la gioia di vivere accanto ad una persona buona.
Qual è l’impatto della gelosia sulla compassione
e sull’amore che proviamo per gli altri? Certamente la gelosia non illumina la
bontà interiore di un Fratello che ha Dio al centro del suo essere! Anzi, la
luce che la gelosia getta sul Fratello è luce grottesca, che rende orrendo,
repellente, antipatico e forse anche isolato non solo il geloso, ma anche chi è
oggetto della sua cattiveria.
Una gelosia che si fermasse ai beni, ai successi,
alle qualità dell’altro, sarebbe superficiale e sciocca. In realtà, la gelosia
va oltre: essa cerca di diminuire questi beni e questi successi.
La gelosia che prevale nelle Comunità religiose è
di tipo più esistenziale. Si preoccupa di diminuire il bene ultimo del Fratello.
Teologicamente parlando, la gelosia è debolezza,
debolezza derivante dal fatto che il geloso è profondamente consapevole di
essere creatura. Ma questa consapevolezza implica una relazione personale con
Dio, bene ultimo che vive al centro di ogni creatura. La gelosia non riesce a
distruggere questa relazione: ecco perché ho parlato di debolezza.
Però, se non distruggere, questa relazione si può
indebolire, o diminuire. Ecco perché ho detto che la gelosia attacca l’amore e
la comunione tra i Fratelli: in questa comunione si intensifica e si nutre
l’unione intima dell’uomo con Dio.
Apertamente o di nascosto, il geloso fa di tutto
per diminuire il rapporto dei Fratelli con Dio. La gelosia non accetta la vera
santità, mette in ridicolo l’autentico spirito di preghiera, si mostra
sospettosa della crescita genuina nello spirito. La gelosia ha le sue radici
nel disprezzo che prova per se stessa, disprezzo che a sua volta, assume la
maschera dell’amor proprio. Il suo potere come vizio viene scatenato dalla
incapacità propria del geloso di voler entrare in rapporto con Dio o con il
prossimo. La gelosia rende ciechi alla bontà altrui: non possedendo la
comunione, il geloso fa di tutto per distruggerla sia tra i Fratelli, che tra
questi e Dio. E’ un modo come un altro di mettersi al livello di coloro che
sono oggetto della sua passione. Infatti la comunione con Dio e con i Fratelli
è il maggiore, il più spirituale e il più immutabile dei beni, e sorgente di
ogni felicità per l’uomo. In comunione con gli altri noi ritroviamo noi stessi
e il nostro essere.
Ci chiediamo: « Ma perché mai un Fratello
desidera di possedere la bontà che è parte costitutiva di un altro? La ragione
è che così facendo egli oppone resistenza alla bontà che Dio ha creato in
quest’altro. L’invidioso non sa accettare il vuoto che esiste in lui, e cerca
di innalzare questo vuoto al di sopra della pienezza che egli scopre nel
Fratello. In fondo in fondo desidera divenire il bene che vede nell’altro ma
non in se stesso, tuttavia, l’invidia non è il mezzo con cui elevarci alla
figliolanza di Dio! Anzi, il miglior
modo per divenire schiavi! E schiavi di fatto diventiamo quando ci sforziamo
di riempire il vuoto della coppa del nostro io diminuendo la bontà dell’altro.
Invidia e amore stanno agli antipodi. Armonia,
pace, gioia, pazienza, bontà: tutte queste cose riescono intollerabili al
Fratello vittima della gelosia. Sospetti, distorsioni, bugie, pettegolezzi
senza fine, mormorazioni, calunnie, tristezza per il bene altrui, sorrisi
maliziosi, soddisfazione per l’insuccesso dei Fratelli: ecco le armi del geloso
per creare divisione in Comunità. Paura, tensione, spaccature, amicizie
morbose, stereotipi o « etichette » appiccicati al prossimo, ricordi oscuri,
risentimenti, antipatie, vendette: ecco i frutti della gelosia, sguinzagliata
nella Comunità!
Le vie della gelosia sono sottili. L’angelo delle
tenebre può assumere le apparenze dell’angelo della luce. Eccentricità, stranezze,
innovazioni, idee « originali », possono nascondersi sotto il manto della
correzione fraterna, per il « bene della Comunità ».
Certi doni umani e certe attitudini possono
irritare qualcuno, e le parole e le azioni del geloso riescono a diventare
plausibili e ad apparire ben intenzionate. Attirando su qualche difetto
esterno dell’altro l’attenzione, il geloso riesce a distruggere la bellezza e
la bontà. La persona gelosa non piace a nessuno, d’accordo, ma accade che chi è
vittima della sua gelosia e della sua invidia diventi pure antipatico e
difficile da amare. Tanto più il geloso riesce nel suo intento di sminuire la
bontà dell’altro, tanto più cresce nella Comunità il disagio, e i Fratelli si
trovano essenzialmente isolati gli uni dagli altri, prigionieri nella cella di
rigore creata dalla gelosia.
Il vizio dell’ira
Contrariamente agli altri vizi capitali, l’ira può
anche essere virtù. L’ira è virtù quando è diretta contro il male, la falsità,
l’ingiustizia, l’odio. Non è un compito facile incrementare il bene comune. Ci
sono ostacoli sul sentiero del bene che vanno superati con energia. Il bene
comune è quello che è diretto a tutti e a ciascun membro del gruppo senza
distinzioni, alla pienezza della felicità di tutti quei membri. E’ più naturale
che i Fratelli provino sdegno quando tutto ciò è messo a repentaglio dalla
compiacente accettazione del vizio dell’ira, anzi è indice di virtù! L’ira in
se stessa può anche trovare una giustificazione, ma diventa vizio in due casi:
quando si adatta alla persona interessata e quando non è proporzionata alle sue
cause.
In caso di difficoltà, l’agire con passione e con
fortezza diventa una necessità. Passione e fortezza, cattive quando sono esercitate
per ostacolare un bene, diventano virtuose se si tratta di combattere un male.
La passione è necessaria per superare la violenza
che nasconde il vizio dell’ira in una Comunità religiosa. Va però moderata
dalla compassione e dalla prudenza. Se no, rischia di mandare a pezzi la Comunità.
L’ira è vizio quando è sinonimo di desiderio
sfrenato di punire gli altri perché sono buoni e fanno il bene. In ultima analisi,
in un io svuotato dei suoi veri valori, è indice di vuoto interiore. Pretendere
di reprimere l’ira, di soffocarla, magari di divertirla, trasferendola sugli
altri, può causare divisioni insanabili nella Comunità. L’ira è direttamente
opposta alla virtù della carità e della giustizia, milita attivamente contro
la comunione fraterna, si nutre di orgoglio, che ne è la radice, e diventa sorgente
di molti peccati.
Lanciandosi contro il bene, qualsiasi forma di
bene, l’ira merita la condanna che Cristo le ha lanciato [39].
Nella Comunità religiosa l’ira assume aspetti differenti.
Un Fratello schiavo dell’ira è un uomo pieno di
amarezza. Non sa dimenticare offese e ingiustizie ricevute, di cui cova il risentimento,
senza riuscire a vincersi. Se scopre che gli altri sono buoni, che si vogliono
bene, si irrita e diventa violento. Come l’invidia e la gelosia, anche l’ira si
nutre di distorsioni. L’iroso concentra la sua attenzione sulle circostanze
ordinarie della vita comune. Azioni buone di propria natura, ma compiute forse
con una certa goffaggine, sono da lui giudicate assoluta-mente negative. Una
osservazione buttata lì con buona intenzione, ma forse senza troppa prudenza, o
un gesto di questo tipo è per lui una falsità. Piccoli comportamenti, che
possono apparire non del tutto caritatevoli, diventano una scusa che scatena i
suoi malvagi propositi, giustificandoli. L’iroso si consuma nel desiderio di
vendetta contro i suoi cosiddetti nemici: allora diventa esplosivo, attacca
gli altri con un torrente di accuse cattive e maliziose. La situazione
peggiora quando la vittima dell’ira è consapevole della sua cattiveria e della
sua tendenza a questo vizio.
Nell’estremo dei casi l’iroso alza il pugno anche
contro Dio, maledicendolo perché è ingiusto contro di lui! Condanna Dio per
averlo creato così e non cosà, e così facendo non si accorge nemmeno di bestemmiare
contro la divinità.
Nelle Comunità religiose l’ira ci sarà sempre: i
sette vizi capitali sono il nostro retaggio. Però la nostra è un’ira « controllata
», dignitosa, e così capita che molto spesso non ce ne accorgiamo, non riusciamo
a scoprire i suoi effetti deleteri. I Fratelli che si odiano sono spesso, in
apparenza, i migliori gentiluomini. Affabilità, cordialità, cameratismo sono
le maschere preferite dagli irosi, e portate con disinvoltura. L’ira, nelle
sue manifestazioni più subdole, appare proprio il contrario di ciò che in
realtà è.
Come l’invidia, l’ira trova le sue radici
nell’assecondamento della tristezza e dello scoraggiamento: a loro volta queste
danno origine all’odio. Mentre la felicità trova le sue radici nel bisogno di
amare e di essere amati, l’ira la trova nel bisogno di allontanare gli altri
dalla bontà, e ciò perché il Fratello succube dell’ira crede che gli altri non
abbiano diritto ad essere veramente buoni, considerandoli indegni di ciò.
La risposta cristiana all’ira dovrebbe essere una risposta di
indignazione. Le Comunità religiose diventano forti e unite quando sanno
affrontare le indegnità con una indignazione che è frutto di giustizia, una
giustizia accompagnata dall’amore, i cui frutti sono la compassione e la
misericordia. Ogni decisione presa dalla Comunità sul modo di affrontare il
vizio dell’ira deve ispirarsi a queste sorgenti di luce: l’amore e la
giustizia.
Se vogliamo camminare alla luce dell’amore e della giustizia dobbiamo
prima imparare a guardare in faccia alle multiformi « ingiustizie » che
purtroppo esistono nelle nostre Comunità e nei nostri Apostolati. E ciò perché
ci vuole una buona dose di amore e un senso profondo di giustizia per far
fronte, in maniera cristiana, all’ingiustizia delle molte indegnità che l’uomo
può commettere.
Fratelli cari, senza dubbio avete tutti sperimentato in una maniera o in
un’altra il potere deleterio che ha l’ira sulle nostre Comunità e sulle nostre
Province. Come vostro Generale sono in una posizione di esperimentare
qualcosa di più: il potere deleterio che ha l’ira nelle relazioni fra Provincia
e Provincia. Il fatto è che esiste fra noi ancora troppa ingiustizia, ancora troppo
poco amore reciproco.
E’ vero: in tutte le nostre Province, siano esse «
di conservatori » o « progressisti », si trovano tanti valori, tanti punti
positivi che vanno condivisi, e l’ira non è certo la via migliore per
realizzare una autentica fratellanza. Tocca ad ogni Provincia, tocca ad ogni
Provinciale e a ciascun Fratello, sentirsi responsabile del come affrontare il
vizio dell’ira, sotto qualsiasi maschera si presenti. Nessuna Provincia può
legittimare, col pensiero, con parole o con modi di fare questo vizio letale
che separa i Fratelli fra di loro. Tutti abbiamo l’obbligo di promuovere la
comunione e l’armonia, il rispetto reciproco e l’amore fra i vari gruppi della
Provincia. Da ultimo, sta a ciascun Provinciale accettare la responsabilità,
che è sua, di riunire tutti i membri della sua Provincia, nella sola grande
Famiglia di San Giovanni di Dio.
Il vizio dell’avidità
L’avidità nella vita religiosa assume una
colorazione leggermente differente da quella nel mondo, ma la sostanza è praticamente
la stessa. L’avido e il mondo guardano alla gente e alle cose da una
prospettiva di possessività, piuttosto che di esistenzialità. Né uno né l’altro
riescono a vedere l’Universo come un dono, ed è logico. Quando si vede
l’universo come un dono di Dio fatto a noi, bisogna per forza giungere alla conclusione
che noi siamo fatti per Dio: e questo è amore. Desiderare di possedere l’Universo
vuol dire disprezzarlo, come ha fatto Satana. L’umile, invece, percepisce che
tutto è dono di Dio.
Nella
«Gaudium et Spes» leggiamo: « Credenti e non credenti sono pressoché concordi
nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito
all’uomo, come a suo centro e a suo vertice... La Sacra Scrittura infatti ci
insegna che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio, capace di conoscere e di
amare il proprio Creatore e che fu costituito da Lui sopra tutte le creature
terrene quale signore di esse [40]
per governarle e servirsene a gloria di Dio [41].
« Che cosa è l’uomo che tu ti ricordi di lui? O il figlio dell’uomo che tu ti
prenda cura di lui? L’hai fatto di poco inferiore agli angeli, l’hai coronato
di gloria e di onore, e l’hai costituito sopra le opere delle Tue mani. Tutto
hai posto sotto ai suoi piedi » [42]
[43].
E’ quindi un errore credere di aver diritto a tutti questi doni di Dio!
L’orgoglioso, come ho detto, non riesce a
percepire il valore radicale del suo io e la Centralità di Dio nei suoi
riguardi. Non è perciò conscio del valore altrui, e quindi desidera possedere
gli altri più che unirsi a loro. L’orgoglio è radice di ogni avidità. Per la
persona possessiva, l’Universo non è un dono, ma una proprietà. Con una persona
simile, che agisce in base a queste convinzioni, non si può fare comunione!
La possessività è un vizio che ha dei lati interessanti.
Quando sperimentiamo il possesso dei nostri beni, tendiamo a tenerli nascosti e
a proteggerli. Costruiamo muraglie per difenderli e ci guardiamo bene dal
condividerli con gli altri. Nella sua bramosia di possesso, l’avido finisce
col lasciarsi possedere dalle cose. I beni di cui si sente padrone e lo
controllano, mentre dovrebbe essere lui ad esercitare il controllo. Tutta la
sua vita è in funzione delle sue possessioni, ma ciò lo rende in realtà
schiavo.
Nelle Comunità religiose l’avidità esiste, e
assume vari aspetti che meritano la nostra attenzione: possono esserci aspetti
individuali dell’avidità, e aspetti collettivi. Il religioso, avendo fatto a
Dio voto di povertà, non possiede nulla di fatto, eppure talvolta è schiavo del
vizio dell’ingordigia, dell’avidità! Come può accadere questo? Dal punto di
vista personale, alcuni religiosi diventano estremamente possessivi circa le
strutture della vita comunitaria, gli impieghi che svolgono, i luoghi dove
vivono, le loro idee, le loro attitudini, il loro stile di vita. Invece di
possedere tutte queste « cose », i religiosi ne sono posseduti: esse diventano
il centro della maggior parte dei loro pensieri e delle loro azioni. Ad
esempio, i Superiori sono spesso possessivi circa i dettagli amministrativi
propri del loro ufficio, e più spesso si lasciano dominare dagli stessi. I
Maestri dei Novizi e i Direttori degli Scolasticati assumono un’attitudine
possessiva davanti a quelli di cui si sentono responsabili. Qualche volta si è
tentati di credere che gli Economi abbiano il compito di possedere il denaro
invece che distribuirlo!
Nella vita religiosa l’opposto dell’amore non è
l’odio, ma il controllo. Non si contano le persone che, nella Comunità religiosa,
sono state profondamente ferite o anche distrutte, dagli sforzi di certi individui
avidi e possessivi per controllare e dominare le loro vite. Non è forse giusto
dire che l’urgenza di controllare gli altri è sinonimo di possessività e di
avidità?
Vista in superficie, l’avidità nelle Comunità
religiose diventa un fenomeno collettivo. I membri delle Comunità possono essere
ancora più possessivi circa i loro beni collettivi che non gli ingordi dei loro
beni privati. Però la possessività è un aspetto secondario e apparente
dell’ingordigia. L’ingordo non riesce ad essere sensibile alle bellezze e alla
bontà dell’universo. Non riesce ad avere un rapporto con Dio, che si trova ai
centro dell’Universo stesso. Pensa che tutto gli tocchi di diritto e questa
insensibilità è il comune denominatore che prevale nell’ingordigia sia dei
religiosi che dei secolari.
Quante volte ci siamo fermati per ammirare le
bellezze di una stella che brilla in cielo, o di un uccello che canta, o di un
bocciolo che si apre a primavera? Ci capita mai di essere sopraffatti dalla
bellezza di un volto umano di vecchio su cui si riflettono le gioie e i dolori
di un’intensa esistenza? Rimaniamo qualche volta colpiti dalla semplicità e
dalla bontà dei bimbi che giocano per le strade? Ci addormentiamo alla sera,
ogni tanto, pensando alla bellezza dei volti e delle anime dei nostri
Fratelli, ringraziamo il Signore perché fa risplendere su questi volti e in
queste anime la Sua stessa bellezza? Purtroppo noi religiosi ci abituiamo a
tante cose, e siamo convinti che ci spettino di diritto. E’ tragico, ma è
così, e io penso che in ciò consista l’avidità che domina le nostre vite.
Il vizio
dell’avarizia, il peccato della possessività, affiorano in una maniera o in
un’altra nelle Comunità religiose. E così i nostri Fratelli tengono i loro
segreti nascosti agli altri, non conoscono le gioie intime e i dolori di
coloro che vivono loro accanto nella stessa Comunità, la loro ricchezza intima
e la loro povertà, la pace che esperimentano e le ansie che li consumano, il
loro bisogno di amore e di affetto, o la loro solitudine e sterilità.
E’ purtroppo vero che nelle nostre Comunità il
vizio dell’avarizia si rivela in questo modo: i membri divengono possessivi a
tal punto da non voler mai, o quasi mai, rivelare agli altri il loro vero
essere. Nascondiamo la «nostra luce sotto il moggio » [44]
come un tesoro sotto terra, e questa è possessività. Ci fidiamo di pochi Fratelli,
forse di nessuno! Diamo il nostro affetto a pochi, forse a nessuno: e questa è
possessività. Non ci convinciamo ad aprire la nostra mente, il nostro cuore, il
nostro amore a nessuno: e questa è possessività.
Siamo votati alla povertà e non possediamo beni
materiali, ma poi siamo avari dei nostri beni spirituali. Non è forse questa
avidità, anzi avidità nella sua forma più radicata? Come riusciremo a liberarci
da essa? Come giungere a scoprire in che consiste l’autentica liberalità e la
vera generosità?
Solo svincolandoci dal vizio possiamo volgerci
veramente a tutto ciò che è bene! Gli uomini di oggi considerano la libertà un
bene di grandissima importanza e fanno di tutto per possederla, e hanno
ragione! Quando si libera da ogni schiavitù delle cose materiali che possiede e
si sforza di scegliere il bene, l’uomo acquista una dignità tutta speciale.
Dio ci ha fatto dono di questo mondo affinché, nel dono, riuscissimo a
scoprire il Divin Donatore. Ma gli uomini che sono prigionieri dell’avarizia
non sono aperti a ricevere questi doni. Per poterli ricevere ed apprezzare nel
loro giusto valore dobbiamo svincolarci dall’avidità delle cose materiali,
essere liberi, e, in questa libertà, lodare Dio per la gloria che è Sua e anche
nostra!
Il vizio della lussuria
Come tutti gli altri vizi capitali anche la
lussuria assume, nella vita religiosa, un aspetto diverso. Non lasciamoci però
ingannare dalle apparenze. La nostra castità è divenuta purtroppo fine a se
stessa, invece che un mezzo di più intima unione con Cristo [45].
Abbiamo finito col giudicare la sessualità umana con la nostra mentalità di
adolescenti, e così facendo abbiamo dato alla lussuria il potere di dividerci
gli tini dagli altri.
Ricerche serie fatte sulla vita religiosa hanno
portato alla conclusione che raramente esiste fra di noi una relazione
veramente profonda, un’amicizia autentica, un amore durevole. Nel migliore dei
casi i nostri rapporti reciproci sono casuali, cordiali anche, di rado però
sono durevoli e quasi mai ricchi di una genuina intimità interiore. La colpa è
della lussuria! Dove esiste unione e intimità, là c’è la vera castità. Dove ci
si tiene a rispettosa distanza, là c’è la lussuria!
Per comprendere questo vizio
dobbiamo prima esaminare la condotta del lussurioso. Incontrando un’altra
persona, il lussurioso immediatamente percepisce in essa un oggetto per la
propria gratificazione. Non prova niente per questa persona. In superficie
vede l’altro nei termini di una sessualità di adolescente immaturo che guarda
solo al lato fisico delle cose, senza vero amore e comprensione. Non esiste una
vera intimità fra il lussurioso e l’oggetto del suo desiderio disordinato:
naturale quindi che il suo rapporto non possa durare. La ragione è che non c’è
un autentico interesse per l’altro, visto solo come oggetto, facilmente
rimpiazzabile e sempre a disposizione. Quando esso viene a mancare, il lussurioso
non ne avverte la mancanza. In una relazione lussuriosa non c’è spazio per la
personalità umana.
Il lussurioso è una persona vuota, senza un
centro, senza una personalità, che non riesce a vedere gli altri se non in
termini di povertà interiore, cioè giudicandoli con la sua stessa misura. Non è
capace di dare né, tanto meno, di ricevere. Alla base di questo suo vuoto sta
la mancanza di ogni vera interiorità.
Il voto di
Castità esiste prima di tutto per aiutarci ad amare Dio e poi per amare i
Fratelli, e le due cose si identificano. Il voto non è fatto per garantirci
contro la lussuria ma per renderci possibile l’amore. La lussuria, al
contrario, « fa uso» degli altri: un uso sensuale, in superficie, un uso totale
al centro delle cose. Come vizio capitale la lussuria è principio o radice di
ogni uso o manipolazione degli altri. Non aspira a possedere, come fa
l’avidità, che ha in se stessa una certa nota di permanenza. La lussuria si
preoccupa di usare l’altro per riempire il vuoto che sta in se stessa. Nel
senso più profondo la lussuria è desiderio di potere assoluto e di controllo
totale sull’altro. Come ogni vizio capitale, è profondo allontanamento dal
bene che l’altro è.
Se ci limitiamo a considerare la
castità come un freno alle nostre inclinazioni sessuali, o anche, in senso più
immediato, come sacrificio del bene del matrimonio e della famiglia, o se la
vediamo come potere e controllo, facciamo due cose molto compatibili fra di
loro. Infatti quando nel mondo un individuo si lascia prendere dal desiderio
sfrenato di potere, spesso egli tende a controllare i suoi istinti sessuali.
Solamente una castità considerata come dono di
Dio, che ci permette di amarci a vicenda come Cristo ci ha amati, cioè in modo
trascendente, completo e totale, diventa veramente un dono che ci rende capaci
di soffocare il vizio capitale della lussuria fin dalle sue radici. La castità
trasforma l’amore di tutti quelli che incontriamo, in qualche cosa di
naturale e di gioioso, mentre la lussuria rende questo impossibile.
Fratelli miei, dobbiamo costantemente vigilare.
Come Superiori Maggiori dobbiamo costantemente stare in guardia per non cadere
nella tentazione di esercitare, in qualche modo, un potere o un controllo assoluto
sopra i nostri Fratelli. La nostra autorità è sanzionata dal Padre che è nei
cieli, ma appunto per questo è un dono ricevuto per liberare i nostri Fratelli
dalla schiavitù della solitudine e dalla carenza d’amore, per formarli a quella
unione che rispecchia l’unione che esiste fra il Padre ed il Figlio.
Tuttavia i Superiori di Comunità religiose non
sono i soli ad essere esposti alla tentazione del controllo. Tutti gli uomini
sono vulnerabili in questo campo. Tutti gli uomini sentono sulle spalle il
peso dei sette vizi capitali. Tutti abbiamo una inclinazione al dominio così
come tutti abbiamo in noi la capacità di amare in modo degno di Dio.
Quando in una Comunità religiosa difetta l’amore
fraterno, probabilmente esiste la tentazione di controllare gli altri: ma questo
controllo divide i Fratelli dai Fratelli, le Comunità dalle Comunità, le
Province dalle Province, e tutti noi dalla Chiesa.
Come possono i Fratelli usare questo potere per
separare e per dividere? Può forse il pettegolezzo, sia esso ciarlone che malizioso,
unire mai una Comunità? Che dire poi dei «sussurroni», di coloro che
calunniano, che a torto parlano male dei loro Fratelli? Se ci prestiamo ad
ascoltare certe cose, o peggio ancora, se siamo facili ad agire in conseguenza
di certe cose, non diventiamo forse partecipi della sete di potere propria
della persona che dice queste cose? Ciascuno di noi deve cercare di scoprire
in profondità la ragione per cui si preoccupa del lato meno bello che esiste in
tutti gli uomini.
Quando guardiamo spassionatamente ai nostri
ministeri apostolici, alle grandi istituzioni che amministriamo, a tutto il lavoro
che in esse svolgiamo, possiamo dire con onestà che la nostra motivazione, la
molla di tutto questo attivismo, è veramente il Carisma di San Giovanni di Dio?
Quanti sono i nostri Fratelli sparsi nel mondo che continuano ad aggrapparsi
alle loro posizioni di potere, come amministratori o supervisori? Non è forse
vero che queste «cariche» ci incoraggiano ad esercitare un controllo sia sulle
strutture che sulle persone che in esse collaborano? Non c’è dubbio che
questa sete di potere non può derivare dal nostro carisma! Viene invece dal
desiderio sfrenato che abbiamo un po’ tutti di prevalere sugli altri.
Visitando la maggior parte delle nostre Province
recentemente, ho visto che il nostro carisma e la nostra testimonianza evangelica
sono più vive là dove i Fratelli sono stati privati della proprietà e della
amministrazione delle nostre strutture, e a volte non possono neppure
indossare il loro abito religioso. Privati così di queste impalcature di
sostegno, essi devono giocoforza aggrapparsi alle cose dello Spirito. E allora
si manifesta la forza dei veri doni soprannaturali, e con loro il carisma di
San Giovanni di Dio.
Sono convinto che ciò che sta accadendo in molte
nostre Missioni sia provvidenziale. Parecchi governi, pian piano, ma decisamente,
ci stanno privando delle nostre proprietà e della direzione dei nostri
Istituti. In tutto ciò, ripeto, vedo la mano di Dio che opera per il nostro
bene: un bene sul quale bisogna riflettere e meditare per imparare ad
accettarlo, anche se sembra esagerata una simile affermazione.
Il vizio dell’ingordigia
Come la lussuria anche l’ingordigia è stata molto
diluita dall’uomo moderno. Direi quasi che sia stata eliminata dal pensiero
contemporaneo. Essa non è più vista come radice da cui nascono molte azioni malvage.
Tendiamo a considerare l’ingordo come colui che è
intemperante nel cibo e nella bevanda. Siccome a pochi piacciono gli individui
che conducono una vita animalesca, finisce che questi esseri si trovano evitati
e isolati. Però l’ingordigia non è solo questione di cibo o di bevanda!
Se andiamo a fondo della cosa vedremo che
l’ingordigia è un certo modo di guardare ai piaceri dei sensi, ai piaceri della
vita. L’ingordo, o il goloso, è colui che non riesce a scoprire la relazione
che esiste fra i sensi umani e l’anima umana. Il goloso ringrazia Dio per il
cibo e le bevande, almeno qualche volta, ma non Lo ringrazia mai della capacità
che lo stesso Dio gli ha concesso di gustarli. Porse come religiosi dovremmo
verificarci circa certe formule di rito che pronunciamo prima dei nostri
pasti di Comunità e che dovrebbero esprimere gratitudine, ma, di fatto, non
contengono nessun elemento di ringraziamento.
Dal punto di vista dei sette vizi capitali e del
vuoto che essi mettono a nudo nell’uomo ci domandiamo: di che cosa, in primo
luogo, si ciba il goloso? Non è forse vero che egli cerca disperatamente di
riempire il vuoto che si trova nel suo intimo? Non è forse questa la ragione
per cui egli non riesce a godere di ciò che mangia e beve, di ciò che vede,
sente e tocca?
Fondamentalmente l’uomo è un essere sociale, e il
condividere con i suoi simili la mensa è un gesto preminentemente sociale. Ciò
che stabilisce l’unione non è il cibo o la bevanda: nessuna di queste cose la
esprime. Il godimento invece di ciò che mangiamo e beviamo, questa è una gioia
che possiamo condividere, però la gioia è coesiva solo se godiamo delle persone
con cui sediamo a mensa. Ciò avviene perché Dio ci ha dato il potere di godere
delle cose anche in senso materiale e lo ha fatto perché trovassimo nel nostro
intimo la gioia che deriva dallo stare insieme. Nel senso cristiano ogni
piacere esterno va orientato alla gioia dello spirito. Un piacere è veramente
umano quando serve ad unirci molto intimamente.
Il goloso danneggia gli altri perché consuma le
cose solo per se stesso. Negandosi la consapevolezza del piacere che deriva
dalle cose che mangia o beve, egli si nega anche il godimento delle persone con
cui mangia o beve. Il suo è un consumo egoista, e per ciò stesso è male, e non
tanto perché è egoista, quanto perché l’io a cui tende è un io vuoto, un io
senza Dio. Usando delle cose senza veramente assaporarne il piacere, il goloso
rivela agli altri la sua superficialità e così facendo rende difficile, se non
impossibile, un rapporto con gli altri.
Cari Fratelli, penso che dobbiamo approfondire
l’analisi delle nostre mense comunitarie. Non è forse vero che, o per evitare
di cadere nell’edonismo o per avere accettato un certo giansenismo, abbiamo
trasformato i nostri pranzi in un altro ostacolo al crescere insieme? Dio
Padre ci ha donato la possibilità di godere in profondità della bellezza del
mondo che Egli creò apposta per noi. Quando ci rifiutiamo di usufruire di
questa possibilità perdiamo di vista la bontà stessa di Dio che vive in
ciascuno dei Suoi doni.
Io penso che tutti noi, sia Fratelli che
Superiori, dobbiamo accettare di introdurre nella nostra vita monastica tutti
quei cambiamenti che sono necessari per promuovere un’autentica comunione
fraterna. Teniamo in mente che il fine è la comunione, poi ciascuno di noi
decida quali sono i cambiamenti che si devono fare sia nel refettorio che
nelle sale di ricreazione.
Come dicono le nostre Costituzioni e i Decreti sui
Rinnovamento della vita religiosa, refettori e sale di ricreazione dovrebbero
essere così piacevoli da far sì che i Fratelli godano a starci.
Il vizio della pigrizia
L’amarci come il Figlio di Dio ci ama esige anche
molta energia e riflessione. Penso che sia molto importante per noi religiosi
esaminarci sul grado di pigrizia che mostriamo nelle nostre relazioni
interpersonali. In superficie un religioso pigro può anche apparire preoccupato
di cose marginali come stile di vita o ministero apostolico. Può sembrare
energico, attivo e coscienzioso nella sua attività apostolica, anzi
ossessionato dal lavoro, immerso in esso sino all’esagerazione. In realtà ciò
può costituire un’evasione da ciò che veramente importa nella sua vita
personale e comunitaria. A livello di spirito, è un pigro, che ignora le cose
fondamentali nel Rinnovamento religioso, l’ «unum necessarium », cioè il
crescere insieme nella Comunità religiosa.
Esaminando la pigrizia nella vita religiosa,
muoviamo dalla periferia delle cose, come abbiamo già fatto altrove. Facciamo
una breve meditazione sulla pigrizia come vizio capitale. Essenzialmente essa
consiste in un disinteresse passivo e collettivo per il bene interiore sia di
se stesso che dell’altro o anche della comunità in cui si vive.
Sembrerebbe in se stesso un vizio innocuo,
specialmente quando si ammanta di immensa energia o di efficienza negli affari
dell’amministrazione, nell’organizzazione, o semplicemente nel risolvere
qualche problema umano. Un certo stile di vita rigido nella Comunità
religiosa, una certa mentalità secondo cui certe cose vanno fatte in certi
tempi, una certa routine nelle attività religiose, come la Messa, la
meditazione, le pratiche di pietà e così via, sono tutte cose che possono
facilitare la pigrizia nelle nostre file. Per un religioso pigro, tutte queste
espressioni esterne dell’unione con Dio sono un sostituto eccellente per
un’autentica interiorità- Invece di «essere» religiosi, tendiamo a «fare»
delle azioni. Mettiamo tutte le nostre energie nelle strutture esterne delle
nostre attività, non nell’essere presenti gli uni agli altri, in certi luoghi
sacri.
La pigrizia però non consiste solo nel dare una
direzione errata all’energia umana. E’ qualche cosa di più che uno sfuggire
alla realtà di un dovere attuale: è il rifiuto di quella Grazia Divina da cui
ci deriva appunto la capacità di essere in comunione con Dio e di crescere
insieme. Siccome però la pigrizia spirituale appare così poco pericolosa, va
considerata un vizio ancora più insidioso degli altri nella vita consacrata.
Nella mia esperienza come Fratello di San Giovanni
di Dio, nelle mie visite alle Province, nella lettura delle sintesi delle risposte
ai miei sondaggi sono venuto un po’ alla volta convincendomi (non senza una
certa sofferenza) che l’«unum necessarium» purtroppo è ciò che appunto difetta
nella nostra vita. Pochissimi di noi, l’ho detto sopra, hanno fatto nella loro
Comunità un’esperienza profonda di autentica carità. Le nostre Province
funzionano più come enti autonomi che come gruppi di individui che partecipano
della stessa vita divina. Ho l’impressione di trovarmi di fronte ad altrettante
isole quante sono le nostre Comunità.
Come è triste, per esempio, vedere come Fratelli
così meravigliosi, che vivono, soffrono, si consumano nelle nostre opere missionarie
sparse un po’ in tutto il mondo, si sentano abbandonati dai loro Confratelli in
patria!
La mancanza di interesse, sia individuale che
collettivo, è sinonimo di inazione e l’inazione è sorgente di pigrizia. La
pigrizia sta alla radice di ogni peccato di omissione. Tendiamo a confondere il
torpore fisiologico con la pigrizia, anche se sappiamo perfettamente che
l’inazione fisica può andare unita sia alla più intensa vitalità che alla
pigrizia spirituale. Non mischiamo la superficie delle cose con il loro
centro. Il problema che qui mi interessa è però l’opposto: tendiamo cioè a
confondere pigrizia dello spirito con una estrema vitalità esteriore. Come
tutti i vizi capitali la pigrizia è una forte, apparentemente passiva, avversione
al bene. Il religioso pigro non se la sente di impegnarsi seriamente a scoprire
ciò che è buono dentro di lui o negli altri, e tanto meno a scoprire Dio
sorgente di ogni bontà in tutti noi, e di ogni felicità.
Fratelli carissimi, non inganniamoci sulla realtà
della pigrizia spirituale che è in noi. Quando dobbiamo ammettere di non avere
ancora scoperto noi stessi, o Dio al centro di noi stessi, non cerchiamo di tirare
in ballo le scuse tradizionali o i raziocini propri del pigro: « Sono troppo
preso dall’apostolato... non ho abbastanza cultura... ho bisogno di qualche
altro corso... ». Nostro Signore si fece uomo e predicò il Suo Vangelo di
unione ai poveri, ai bisognosi, agli analfabeti di Israele. Per comprendere
la Parola di Dio e il Suo messaggio non occorrono né geni, né intellettuali,
e nemmeno teologi. Occorre invece una grande semplicità di spirito, quello spirito
di infanzia proprio dei primi seguaci di Gesù, che accettarono con cuore aperto
l’energia, la vitalità e la Grazia che Gesù loro offriva. Non avevano alle
spalle un Ordine Religioso che li sostenesse. Non avevano l’ispirazione di San
Giovanni di Dio (che, fra parentesi, era un uomo semplice, anche se energico
come loro). Non avevano i vantaggi di una moderna civiltà né duemila anni di
esperienza cristiana alle loro spalle. Eppure tutti, con grande energia, si
addossarono la loro croce e Lo seguirono. Che tragedia vedere tanti nostri
Confratelli che si trascinano in una vita passiva privi di ogni entusiasmo,
senza una interiorità vissuta in pieno!
Come possiamo vedere
l’ingordigia nei nostri refettori e nelle nostre sale di ricreazione, così
possiamo vedere la pigrizia spirituale in molte nostre Cappelle e Oratori. I
nostri religiosi pregano con indifferenza, sonnecchiano durante le celebrazioni
eucaristiche, prendono alla leggera la direzione spirituale. Si ascoltano poco
e solo in superficie e, se accettano realtà interiori, lo fanno come
spettatori davanti ad un video più che come persone che partecipano al dramma
della vita insieme.
Che cosa
dirò del pigro isolamento in cui si tengono i Fratelli estraniandosi dalle
gioie e dai dolori del mondo in cui vivono? Che cosa del disinteresse collettivo
per le ingiustizie, le ineguaglianze che ci sono nel mondo? Che cosa dirò
dell’ignoranza che esiste sulle condizioni reali del « terzo mondo », essa
pure dovuta alla pigrizia? Che cosa dirò del fatto che molte sorgenti di
arricchimento umano sono ignorate da noi? Che cosa della passività dei Fratelli
davanti all’insegnamento vecchio e nuovo della nostra Chiesa? Della pigrizia
con cui affrontiamo lo studio del nostro carisma? Delle ore perse passivamente
davanti alla TV? Della lettura trascurata delle Sacre Scritture e dei mezzi
tentativi che facciamo per scoprire il Verbo Incarnato che si rivela in queste
stesse pagine?
L’orgoglioso si accontenta di vuoto e di povertà
spirituale. Appunto perché orgoglioso, il pigro si rifiuta di agire. Diamo uno
sguardo alla nostra vuotaggine e alla nostra povertà, e poi diamone un altro
alle cose che Dio ha preparato per noi, quando entreremo nel Suo Regno.
Facciamo sì che il Rinnovamento del nostro
spirito ci liberi dalla pigrizia, e ci aiuti a realizzare quella « vita più
abbondante » che Dio ci offre attraverso Suo Figlio.
A conclusione di questo lungo e complesso
intervento vorrei suggerirvi, cari Fratelli, ciò che segue.
L’esperienza che abbiamo voluto fare di guardare
in faccia al male e, in particolare ai sette vizi capitali, non è stata
negativa. Anzi è stata positiva per due ragioni. In primo luogo credo che non
sarebbe stato possibile affrontare un discorso sul Rinnovamento senza parlare
di questi problemi. Sono convinto che in un processo di Rinnovamento, ci deve
comunque essere una dimensione purgativa. Guardandomi alla luce della mia
peccaminosità, sono riuscito se non altro a scuotere dalle mie spalle il peso
dell’autodelusione e della fantasia.
La seconda ragione per cui non giudico questa mia
esperienza negativa, è che queste ombre mi hanno molto aiutato a mettere in
luce le tinte che Dio ha usato per dipingere quel quadro che io chiamo me
stesso. Quando una persona si riconosce peccatore, nella cruda realtà del
peccato che si trova al centro del suo essere, ogni timore, ogni ansietà di
crescere insieme sparisce. Togliendomi la maschera della « impeccabilità », mi
vedo così come veramente sono.
Appunto perché siamo peccatori, e probabilmente
perché abbiamo peccato, Dio ci ha dato alcuni grandi doni. Siamo uomini di
fede: con la fede possiamo guardarci negli occhi come ci guarda e vede il
Figlio di Dio.
Siamo uomini di speranza: alla luce della speranza
possiamo contemplare il nostro futuro come figli adulti di Dio.
Siamo uomini di amore: con l’amore possiamo
arrivare a quella comunione che esiste fra il Padre e il Figlio.
Abbiamo anche ricevuto i doni della giustizia,
della fortezza, della prudenza e della temperanza, e anche quattro punti forti,
cioè i nostri Voti.
In questi doni, se li capiamo in profondità,
possiamo pure trovare la forza di cui abbiamo bisogno, e la grazia necessaria
per impegnarci a fondo nel processo di Rinnovamento del nostro spirito e del
nostro carisma che ci porterà ad amare Dio e i nostri Fratelli, con un amore
simile a quello dei Figlio di Dio.
In una vita religiosa rinnovata, sia a livello
personale che comunitario, Dio è l’unico Centro possibile dove individui e
Istituzione, Comunità e Apostolato trovano la loro integrazione armonica.
Individui e Comunità sono aperti al Rinnovamento quando ciascuno riscopre Dio
come Centro di tutto. Il Rinnovamento è rappresentato proprio da questo
reintegrarsi di Spirito, Carisma e Fratellanza.
***
QUALCHE
DILEMMA
Primo
Dilemma
Apostolato Individuale,
«privato»:
il Membro è perso
per la Comunità e l’istituzione
Apostolato Istituzionale, strutturato su vasta scala:
il Membro viene sacrificato alla Istituzione.
Pseudo
Soluzione:
LA COMUNITA’
infatti i due punti
Sopra accennati
sono « fuori strada
»
Secondo
Dilemma
Una Comunità fine
a se stessa:
l’interesse primo
sono i suoi Membri.
Una Comunità aperta
agli altri:
l’interesse primo è
l’Apostolato.
Soluzione
Reale:
UNA
COMUNITA CENTRATA IN DIO
I due tipi di
Comunità sopra accennati non hanno una autentica centralità.
Parte Seconda
I PUNTI FORTI CHE CI UNISCONO
« Quelle
cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo:
queste cose ha preparato Dio per coloro che lo amano » (I Cr. 2,9)
Capitolo Primo
LE VIRTU’ TEOLOGALI
Poiché Dio propone ad un uomo una meta o un dovere
che trascendono le sue forze naturali, sarebbe un Dio crudele se, allo stesso
tempo, non aumentasse le forze di quest’uomo, per metterlo in grado di raggiungere
questa meta e di compiere questo dovere.
Leggendo nell’Antico Testamento la storia
dell’uomo come tale, notiamo due cose: Dio fissa delle mete, Dio dà i mezzi per
raggiungerle.
Guardiamo Abramo, per esempio: Dio gli chiede di
mettersi in cammino. Sembra un ordine al di là delle sue capacità umane, ma
Abramo si mette in cammino. Gli si propone una meta: l’Egitto. Non conosce il
paese, tutto sembra incomprensibile! Ma la meta è raggiunta. San Paolo nella
sua lettera ai Romani dice che Abramo ci riuscì per la sua fede.
La fede
Ecco dunque la seconda cosa che capita sempre:
insieme ad una meta che appare irraggiungibile, Dio offre un potere quasi
inconcepibile. Abramo era debole, davanti al sacrificio di Isacco che Yahweh
gli chiedeva, il vecchio patriarca esitò. Ma gli venne data la forza di
superare la sua debolezza.
Tutto il Vecchio Testamento è pieno di questa
esperienza. Tali debolezze umane sono così lampanti in queste pagine che si
diede loro un nome incisivo: vizi capitali!
Coloro però che si aprirono al dono della fortezza
di Dio riuscirono sempre a superare le loro debolezze. A volte si trattava di
doni individuali, come appunto nel caso di Abramo. Altre volte erano doni
collettivi, come i vari patti che Dio fece con il Suo popolo. In ogni caso,
barriere che sembravano insuperabili venivano abbattute. Così possiamo fare
anche noi in una vera unione: possiamo abbattere le barriere che ci dividono.
Dio ci propone sempre doveri impossibili e ci
mette di fronte a barriere insormontabili, ma non manca mai di aiutarci, in un
modo che sfugge alla nostra intelligenza umana.
Ci volle del tempo prima che gli Ebrei capissero
ciò che Dio voleva da loro. Quando però il Messia arrivò, alcuni di loro compresero,
come appare dalla conversazione di Gesù col giovane dottore della legge.
«Maestro» chiese, « qual è il più grande Comandamento della legge »? Gli
rispose: «amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima e con tutta la tua mente ». Questo è il più grande e il primo dei
Comandamenti. E il secondo è simile al primo: «amerai il prossimo tuo come te
stesso ». Da questi due Comandamenti dipende tutta la legge e i profeti »
(Matt. 22:36-40).
Ecco quindi la somma e la sostanza della Vecchia Legge. Ci volle la fede
per comprenderla e viverla.
Tuttavia noi abbiamo ricevuto una Nuova Legge e un Nuovo Comandamento. Non
basta amare gli altri come amiamo noi stessi.
Il Comandamento di Cristo è che « ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci
ha amati ».
Per comprendere e vivere questo Comandamento ci
vuole una fede ancora più profonda. Dio ci chiede di fare qualcosa che
trascende il nostro potere umano perché, umanamente parlando, non possiamo
amare come Dio ama. Dio ci ha dato quindi un nuovo tipo di fede, un dono
soprannaturale che ci rende capaci di fare cose che, umanamente parlando, sono
al di là della nostra capacità.
La fede è un dono che influisce sulla nostra mente
e sul nostro cuore e ci aiuta a capire questo Nuovo Comandamento. Con la fede
riusciamo a vedere che cosa significa amare gli altri come Cristo ci ama, ed essere
uniti tra di noi come il Padre e il Figlio sono uniti. La fede opera in due
maniere: da una parte ci aiuta a scoprire le barriere che ci dividono, a
comprendere la nostra peccaminosità e i sette vizi capitali che ne sono parte
integrante. Dall’altra, la fede ci aiuta a vedere che siamo stati redenti e che
perciò siamo Figli di Dio. Il peccato, come Cristo lo descrive, non sarà mai
capito a fondo se non alla luce della fede. Ci vuole la fede, inoltre, per
capire l’amore come è insegnato e vissuto da Gesù Cristo. Troppo si parla di
amore fraterno, di amore comunitario, ma troppe volte sono espressioni di
comando o di tranquillizzante convivenza sociale: dobbiamo invece convincerci
che l’amore, trova le sue radici in un vero processo di fede.
Man mano che ci lasceremo coinvolgere nel processo
di Rinnovamento dovremo incominciare proprio dalla nostra fede. E’ la fede che
deve essere vivificata. E’ la fede che dobbiamo imparare ad usare.
Per molti anni la nostra fede ci è servita per
accettare gli insegnamenti del Vangelo e della Chiesa. Cosa ottima, ma oggi non
più sufficiente. Mentre cerchiamo di rinnovare la nostra fede dobbiamo
imparare ad usarla per illuminare le profondità del nostro io, e le profondità
dell’io dei nostri Fratelli.
La fede guida la mente del
Fratello al cuore delle cose. La fede ravviva attraverso il Rinnovamento, aiuta
il Fratello a scoprire la bellezza interiore e la bontà che è in se stesso e
negli altri.
Quando un Fratello si disprezza,
o disprezza un suo Fratello, non esercita sicuramente una fede operativa.
Quando un Fratello non riesce a vedere quella grande bontà che è in lui, che
attira perfino Dio, non esercita sicuramente una fede operativa. Quando non
riusciamo ad accettare il fatto che Cristo amava i peccatori, siamo schiavi
dell’orgoglio, e non c’è fede in noi.
La fede non spazza via la nostra
peccaminosità e il nostro orgoglio, ma vi getta luce, come getta luce sulla
bellezza interiore.
Con la fede vediamo che il male
dentro di noi è stato sconfitto, e che il peccato, lungi dall’essere una forza,
è invece una debolezza.
Alla luce della fede constatiamo
che i malvagi, gli orgogliosi, i gelosi o gli iracondi riescono a fare molte
cose, ma comprendiamo anche che queste cose sono cattive. Il male peggiore è
la loro divisione.
E’ ancora la fede che ci aiuta ad ammettere che
siamo deboli e che tutti i malvagi sono deboli. Alla fine essi falliranno,
perché cercando di impedire il processo di Rinnovamento, essi manifestano la
loro debolezza e qualche volta la loro cattiveria intrisa di uno scetticismo e
di una abulia che ferisce l’impegno dei Fratelli ed è sintomo di una fede che
non opera.
La nostra forza consiste nel fatto che, attraverso
la fede, riusciamo a vedere non solo il male che c’è negli altri, ma anche il
bene. E vediamo che la bontà riesce sempre a superare il male, così come la
Resurrezione superò la Crocefissione di Nostro Signore. Proviamo a sognare una
Comunità ospedaliera rinnovata profondamente nella sua fede, operante nella
fede, e vedremo d’incanto che molti problemi che tormentano l’ordine
(mantenere la proprietà delle strutture, operare in opere piccole e grandi,
avere Comunità tradizionali o Comunità sperimentali, ecc.) troverebbero pronte
ed illuminate soluzioni.
La
speranza
La speranza è un dono soprannaturale che ci aiuta
a vedere o a comprendere i passi che dobbiamo fare sul cammino del
Rinnovamento.
La fede illumina la meta della vera unione, la
speranza, la strada da seguire. Se ci guardiamo come persone che crescono insieme,
in una comunione simile a quella del Padre col Figlio, siamo uomini di
speranza.
La speranza illumina sia il nostro io che gli
altri. Illumina il nostro io quando possiamo dire di crescere verso la
pienezza del Figlio di Dio. Illumina l’altro quando vediamo che anche l’altro
cresce nella stessa direzione.
Si parla tanto oggi di crescita e di sviluppo
della persona! Purtroppo, però, molte di queste idee sono nate dalla « psicologia
della crescita» e non hanno la profondità di una visione veramente cristiana.
Leggiamo molti libri sulla teologia della speranza
ma di rado questi ci aiutano a centrare la nostra attenzione sulla mutua
unione, che è l’oggetto proprio della virtù della speranza.
La speranza nasce dalla schiavitù. Quando capisco
di avere in me il potere di amare come Dio ama, ma non riesco a progredire nel
bene, nell’autentico vivere in unione, nell’amore sacrificante per i
Confratelli e per i fratelli sofferenti che devo servire, vuol dire che la mia
speranza non è operativa. Per mezzo della speranza scopro il significato della
solitudine, dell’isolamento dove non posso né vedere, né essere visto, né
ascoltare, né essere ascoltato. Per mezzo della speranza scopro di essere
prigioniero, isolato, solo. Quando esperimento questo mio isolamento, e divento
consapevole che esso è parte di me stesso, allora incomincio a sperare.
Io, che vi parlo, sono oggi il Generale
dell’Ordine: ebbene, quando mi guardo intorno mi domando se ci sia qualcuno di
voi che veramente possa amarmi, o se, realmente, io ami qualcuno. Mi vedo come
un perseguitato da molte paure. So che queste paure hanno la loro radice in me
stesso, non nella mia relazione con i Fratelli. Non dovrebbe esserci timore
alcuno in me nei confronti di quelli che si oppongono al progetto di
Rinnovamento o ad altri programmi pure proclamati dalle Costituzioni o voluti
dai Capitoli, perché questa opposizione si fonda sul male, e questo è
debolezza. Certamente non dovrei temere niente da parte di quei Confratelli che
sostengono il Rinnovamento del nostro Ordine perché so di poter contare sul
loro aiuto. La paura e l’ansietà derivano dalla mia inclinazione al peccato e
dal mio orgoglio.
Quando riesco a capire questo nella fede, allora
capisco anche di avere bisogno del dono della speranza.
Vorrei che voi, che i Provinciali e i Confratelli
tutti si esaminassero alla luce della speranza. In questa ricerca di forza interiore
troveranno spesso nei loro timori la virtù della speranza di cui abbisognano
per liberare sé stessi e gli altri dalla cattività.
La speranza è liberazione dalle tenebre e da tutte
quelle distrazioni che nelle tenebre si ritrovano. Se non riesco a vedermi
come Figlio di Dio, vivo nelle tenebre. In queste tenebre inciampo, vado a
tentoni cercando qualche cosa o qualcuno su cui appoggiarmi. Nelle tenebre
costruisco un impero per me stesso e una muraglia che mi protegga.
Penso di essere al sicuro in questa fortezza,
cioè nel controllo che esercito sopra gli altri, nelle regole che osservo, nelle
tradizioni con cui mi identifico.
Ma tutte queste cose rappresentano la mancanza di
fiducia, non la speranza, mi dicono che devo imparare a far uso della luce
della mia speranza per illuminare le tenebre in cui mi trovo.
Quando la libertà appare impossibile, allora nasce
la speranza. Quando mi pare di stare crollando, allora la speranza mi sostiene.
Quando non vedo la luce al di là del tunnel della solitudine, allora la speranza
porta la luce. Quando mi riconcilio all’idea di essere una creatura inutile, allora
la speranza mi rivela i miei valori. Quando confondo le sbarre della prigione
che è la mia vita, con quelle cose che sole mi possono dare gioia e felicità,
allora la speranza illumina le vere sorgenti della realizzazione umana.
E’ nella disperazione che imparo a sperare.
Essere figlio di Dio vuol dire trascendere ciò
che mi ostacola. Se questo ostacolo è una persona, allora la speranza mi rivela
un altro. Se questo è una Comunità o una Provincia, allora la speranza mi
induce ad occuparmi di altre Comunità, di altre Province. Se sono ostacolato
dalla mia nazionalità, dalle mie origini culturali, allora la speranza mia
libera da questi limiti. Per mezzo della speranza mi vedo parte di tutta la
famiglia di Dio, e riesco a trovarmi bene in qualsiasi situazione.
Dio mi dà il potere di farlo.
La speranza abbraccia il pluralismo e la
disperazione non trova spazio. La speranza si entusiasma alla molteplicità di
forme che il nostro spirito e il nostro carisma possono assumere, la
disperazione vuole limitarli ad una sola. Quanto è drammaticamente attuale ed
urgente questo Rinnovamento della nostra speranza se vogliamo sopravvivere
nella storia e nell’amore!
Quando in noi esiste la virtù della speranza, ed
essa è attiva, godiamo di una grande pace con noi stessi e con il mondo in cui
viviamo.
Siamo pieni di fiducia, sentiamo una certa
sicurezza di noi stessi. La speranza non è violenta, non esercita pressione,
non si impone a noi stessi o agli altri. La speranza non è piena di inganni, di
«politica» come invece è la disperazione.
Se ho speranza posso anche rischiare di essere
onesto e sincero. La speranza è l’esperienza di Dio nei doni che Egli mi ha
dato perché fossi libero.
Siccome la speranza ha a che fare con il movimento
delle cose, mi rende consapevole del valore di questo movimento e di questa
crescita. La libertà è movimento. E’ un muoversi dall’isolamento alla compagnia,
è quella virtù che mi rende comprensibile la libertà. La libertà di cui sto
parlando è la libertà dei figli di Dio, la libertà di amare come Dio ama e di
essere uniti fra di noi come il Padre e il Figlio sono uniti.
Quando parliamo di libertà nel vivere religioso
verifichiamo se questa libertà è generata e si proietta nella speranza: se ciò
non è, senza dubbio possiamo pensare di essere su una strada sbagliata che non
ci porta alla luce.
La carità
La carità, o meglio l’amore, è quel potere che
abbiamo di essere uniti tra di noi nel centro stesso del nostro essere. Per il
cristiano non c’è amore senza fede e senza speranza, così come non esiste amore
senza le quattro virtù cardinali. Come ho già detto parlando del peccato, i
vizi capitali oscurano la bontà e la bellezza dell’altro, rendendolo brutto e
ripugnante. La virtù soprannaturale dell’amore è il potere e il dono che ho in
me di rispondere in modo sensibile e appropriato all’altro. Il frutto
dell’amore, basato sulla fede e la speranza, è l’unione. Per mezzo della fede
vedo la bellezza interiore degli altri, per mezzo della speranza cerco di
unirmi a loro, per mezzo della carità realizzo questa unione.
Nelle Comunità religiose l’opposto dell’amore non
è l’odio, ma il controllo di sé e degli altri. Quando parliamo di amore
fraterno e reprimiamo ogni impulso generoso o creativo nell’amore e
giudichiamo questi impulsi dei Fratelli con astio (magari perché turbano le
nostre abitudini) o con maligna critica, ci poniamo contro l’amore.
A parte il fatto che spesso ci amiamo poco, il
nostro peccato maggiore, come religiosi, è quello di cercare di controllare i
nostri Fratelli. « Io sono la via, la verità e la vita ». Inoltre « la verità
ci rende liberi ».
Coloro che vogliono diminuire questa « maggiore
abbondanza di vita », o limitarla in qualsiasi maniera, non amano.
Nostro Signore diede la Sua vita perché potessimo
amarci l’un l’altro « in abbondanza ».
Quelli fra noi che passano la loro vita evitando
il contatto intimo con i loro Fratelli sono quelli che non amano come il
Figlio di Dio ama.
Egli ci ha rivelato i segreti più intimi del Suo
Cuore e quelli del Padre. Se custodiamo i nostri «segreti» e ci proteggiamo
da qualsiasi intrusione, non possiamo certamente pretendere di essere suoi imitatori.
Noi amiamo i nostri Fratelli quando ciò che
diciamo intende rivelare la bontà e la bellezza di un Fratello ad un altro
Fratello. Tutte le volte che abbiamo diminuito la stima di un Fratello davanti
ad un altro Fratello o agli occhi di un Superiore, ci dobbiamo chiedere in
tutta onestà se questo è stato il frutto della virtù teologale dell’Amore o
invece il frutto della nostra peccaminosità.
L’amore non diminuisce mai l’altro. L’amore
costruisce, esalta l’altro, lo rende attraente, perché si costruisca l’unità.
Il bisogno di controllare, di distruggere l’altro, lo riduce alla posizione di
servo o di schiavo.
Se una cosa è chiara nel nostro Ordine oggi,
all’inizio di questo processo di Rinnovamento, è che dappertutto, a tutti i
livelli della nostra vita, esiste tanta solitudine.
Il Vaticano II ci ha insegnato che siamo esseri
sociali nel cuore del nostro essere. Ci ha insegnato che la « vita è un
incontro» e che se vogliamo essere «persone più complete, abbiamo bisogno di
una unione più intima ».
La solitudine è l’incapacità di stabilire una
relazione interiore con gli altri.
La persona sola dice che non riesce a sentire, non
riesce a capire: non riesce veramente a comunicare con gli altri. Allo stesso
tempo sottintende che sono gli altri che «non sentono” non capiscono, non
vogliono comunicare con lui. Non sono questi i discorsi più frequenti tra
superiori e sudditi, tra confratelli, quando esaminano il loro vivere? Dobbiamo
reagire con un vero Rinnovamento della nostra carità fraterna, del nostro
vivere consacrato e del nostro essere Comunità.
Come esseri umani non possiamo amarci senza
profondi sentimenti. Quando reprimiamo la tenerezza, la gentilezza e la compassione
non c’è amore umano e certamente non c’è amore divino.
Basta guardare a Gesù nel Vangelo per comprendere
la sua tenerezza, la sua sensibilità, la sua compassione verso tutti coloro
che incontrava.
E’ così l’amore che noi esperimentiamo nelle
nostre Comunità? Quanti di noi sono pronti a dare la vita per i Fratelli,
perché il nostro amore reciproco sia sempre più pieno? Dedichiamo la nostra
stessa vita ai malati, ma raramente diamo la nostra vita per i nostri Fratelli.
Ma Cristo fece proprio questo! Rinnoviamola e, se necessario, rivoluzioniamola
la nostra vita comunitaria, ma rendiamola vera vita di amore, di generoso
slancio affettivo, se non vogliamo incontrare le tenebre.
Per assicurarci che il nostro Rinnovamento non
diventi una realizzazione nella vita futura, vorrei citare qualche frase tratta
dall’epistola di Paolo ai Corinti: «Queste sono dunque le tre cose che
rimangono: la fede, la speranza e la carità: ma di tutte la più grande è la
carità” (I Cor. 13:13).
Questo «dunque» che San Paolo usa, si riferisce al
presente, perciò se vogliamo essere uniti adesso dobbiamo avere sia la fede,
che la speranza, che la carità. Più tardi, quando le « profezie »
scompariranno... quando la conoscenza non esisterà più... la carità rimarrà
(cfr. idem v. 8).
Su questa terra la nostra Comunità è Comunità di
fede, speranza e amore. In cielo quando vedremo Dio faccia a faccia, e l’un
l’altro come veramente siamo, cuore a cuore, anima ad anima, non avremo più
bisogno di fede e di speranza. « Solo la carità non avrà fine ».
Di conseguenza il nostro Rinnovamento, nel tempo,
dipende dalla nostra capacità di approfondire la nostra visione di fede nei
nostri rapporti interpersonali, di ravvivare la nostra speranza nella nostra
crescita insieme, e nell’approfondire la nostra carità mentre un po’ alla
volta incominciamo a sperimentare quella unione che Dio desidera per noi.
Stiamo attenti solo, Fratelli miei, a non
romanticizzare questo amore, rendendolo fine a se stesso.
Un religioso maturo non va alla ricerca del
sentimento, ma di qualcuno verso il quale può sperimentare dei sentimenti.
Un religioso maturo non va alla ricerca di
comprensione, ma di qualcuno che può essere l’oggetto della sua comprensione.
La nostra fede ci aiuta a vedere i Fratelli come
Dio li vede.
La nostra speranza ci aiuta a crescere insieme con
confidente fiducia. Ci spinge gli uni verso gli altri, ci riavvicina. Non
dovremmo guardare alla luce della speranza, ma a ciò che è illuminato da
questa speranza.
Infine, il dono dell’amore ci aiuta a fare
comunione con gli altri, non con l’amore in se stesso.
Non può esserci amore in questo mondo senza
sacrificio.
Per troppo tempo abbiamo visto il sacrificio come
pena e sofferenza. Il sacrificio per noi significava « dare » qualcosa per
realizzare l’unione. In verità, la parola sacrificio significa « santificare ».
In latino la parola « sacer » significa « sacro », « santo », e la parola «
faccio » significa « fare ». Una cosa è santa o sacra per me quando vi scorgo
la presenza di Dio. Il religioso è colui che è consapevole della presenza di
Dio in tutte le cose, perché Dio è dappertutto. Perciò quando dico che non
esiste amore profondo senza sacrificio, intendo dire che non potremo mai essere
veramente una cosa sola se non ci convinciamo della presenza di Dio in ciascuno
di noi.
«Trovare Dio in tutte le cose », non è lo stesso
che trovare Dio in ciascuno di noi. Dio è presente in tutte le cose che
esistono nell’Universo, ma la sua presenza, è quella del Creatore. Dio è pure
presente in ciascuno di noi, come un Padre: è questa presenza «paterna» che
noi dobbiamo scoprire negli altri. Lo facciamo perché vediamo tutti alla luce
della virtù teologale della Carità. E’ la virtù dell’Amore che illumina la
nostra figliolanza divina. Quando vediamo in un Fratello un Figlio di Dio,
capiamo che tutto il resto passa in seconda linea.
La cosa essenziale che va scoperta nell’altro è
appunto questo essere figli di Dio, che è infinitamente più importante della
sua sapienza o conoscenza, del suo dono di profezia o di qualsiasi altro
carisma di cui parla Paolo.
Un uomo è figlio di Dio solo nel cuore del suo
essere: tutto il resto conta poco nella nostra relazione con Lui.
Questa è la ragione per cui l’amarci gli uni gli
altri come figli di Dio è l’ «unum necessarium». Se siamo figli di Dio, siamo
una cosa sola, e tutto il resto è di poco rilievo.
Rinnovamento significa renderci consapevoli, ogni
giorno, di questa realtà e vivere insieme agli altri in modo coerente.
La fede, la speranza, l’amore, sono doni potenti.
Tuttavia, data la nostra debolezza, la nostra
inclinazione al peccato, abbiamo bisogno di altri doni se vogliamo obbedire
alla volontà di Dio. Dio ci ha ordinato di amarci come ama Lui: quindi dobbiamo
confidare che ci darà anche altri doni.
Capitolo Secondo
LE VIRTU’ MORALI
Quando pensiamo all’uomo morale non dobbiamo
necessariamente immaginare un uomo che osserva tutte le leggi e fa tutto il suo
dovere. Se restringiamo il termine « morale» a ciò che è obbligatorio, lo priviamo
di molto del suo significato. Abbiamo stabilito una relazione fra l’uomo e la
legge piuttosto che fra l’uomo e Dio o il suo Fratello.
Amare un Fratello perché si ha il dovere di
farlo, è una cosa completamente diversa dall’amarlo perché lo si considera degno
di amore. La luce della fede, della speranza e della carità ci fanno scoprire
cose come queste, ma non ci garantiscono, di conseguenza, il desiderio di
comunione con gli altri.
Studiando le Virtù Morali è importantissimo
riflettere nella preghiera a ciò che dice Paolo nella lettera ai Romani.
Come la fede, la speranza e la carità, le Virtù
Morali sono principi o radici da cui
deriva la nostra vita di unione con gli altri. Viste come principi, piuttosto
che come obblighi, le Virtù Morali ci aiutano a darci una direzione e ad
andare incontro agli altri.
La vita che sgorga da queste radici è una vita
d’amore. Questa vita d’amore è «morale» quando la nostra risposta agli altri
come figli di Dio è profonda, appropriata e adeguata.
Nell’insegnamento di San Paolo, un uomo è
considerato morale quando è aperto all’altro nella maniera giusta, cioè quando
la sua risposta è illuminata dalla luce della fede, della speranza e
dell’amore, e quando il suo desiderio di unione con gli altri è guidato dalle
Virtù Morali. Quando ci sforziamo di diventare una cosa sola con gli altri,
come il Padre e il Figlio sono una cosa sola, tale sforzo è morale se i nostri
rapporti sono ispirati ai doni della prudenza, della giustizia, della fortezza
e della temperanza.
La prudenza
Per essere figli di Dio dobbiamo essere prudenti.
Dal momento che Dio ci ha chiesto di essere suoi figli e di ricevere il suo
Spirito, Egli ci deve dare anche il potere e la capacità di accettare questi
doni. Questo potere soprannaturale, è una virtù infusaci nel Battesimo.
Molte cose terribili sono accadute alla virtù
della Prudenza col passare degli anni. E’ diventata per molti una virtù superficiale.
Come la fede, quindi, anche la prudenza ha bisogno di un Rinnovamento. L’uomo
prudente, come lo si intende oggi, è una persona cauta piuttosto che una persona
decisa. Si preoccupa costantemente di ciò che gli altri diranno o penseranno.
E’ inclinato a calcolare anche in modo astuto, come si fa in politica. Si tiene
sempre in guardia, cercando di proteggersi, non si espone e non rivela mai ciò
che sta nel suo intimo. Nessuno sa esattamente, dove quest’uomo stia. Ha
dimenticato che cosa sia una vita governata da un principio. Rappresenta la
pienezza della debolezza umana, e da questa debolezza egli cerca di controllare
tutto e tutti, per la sua soddisfazione e per i suoi interessi personali.
Abbiamo anche noi tanti di questi «prudenti» nel
nostro Ordine. Sono abbastanza intelligenti da vedere le debolezze degli altri
e, attraverso queste debolezze, essi cercano di controllare i loro simili e di
manipolarli.
Se per esempio un Superiore è così debole da
prestarsi al pettegolezzo, da ascoltare chi calunnia e parla male degli altri,
questo Superiore viene facilmente usato e « controllato » dai cosiddetti
prudenti. Se un superiore si lascia intimorire da sottili minacce, magari da
ricatti velati, allora i cosiddetti prudenti riescono a tenerlo sotto
controllo. I cosiddetti prudenti fanno uso di «suggestioni», di allusioni e di
mezze verità. La loro prudenza consiste essenzialmente nella loro capacità di
far apparire queste mezze verità come plausibili. Manipolano gli altri e ne
controllano il cervello, facendo loro vedere solo parte della verità, in modo
tale da cancellarne la verità interiore.
Solo la pienezza della verità ci può liberare.
Quando siamo obbligati a usare mezze verità,
rischiamo di lasciarci controllare dai cosiddetti «prudenti». E allora
diventiamo Superiori che non solo permettono, ma direi aiutano questi
«prudenti» a controllare gli altri facendo uso dell’autorità.
La prudenza soprannaturale, però, è tutt’altra
cosa. E’ un dono meraviglioso che ci rende capaci di prendere la giusta decisione
circa un passo da fare, se vogliamo rimanere liberi. La nostra fede ci insegna
che, come figli di Dio, la nostra meta è di vivere in comunione limpida con gli
altri. La prudenza soprannaturale ci detta ciò che dobbiamo fare per
raggiungere questa meta. Se la meta è l’unione con gli altri e con Dio,
l’azione giusta è quella ispirata dalla comprensione e dall’amore. Un Fratello
veramente prudente sarà pronto a correre tutti i rischi necessari per capire,
amare e aiutare un altro Fratello. Sarà pronto anche a rischiare per essere
capito e amato dal Fratello.
Nostro Signore, quando decise di
«rischiare» di amarci, fu veramente prudente. Sapeva che in cambio l’avremmo
crocefisso! E lo abbiamo crocefisso. Tuttavia, nella sua prudenza, Egli sapeva
che la morte era il modo migliore per darci «una vita più abbondante ».
Il paradosso
del Cristianesimo è questo: solo la morte può distruggere la morte! Questo
paradosso è anche il mistero centrale del Cristianesimo. Questo mistero, noi
lo capiamo solo attraverso una fede rinnovata. E, solamente attraverso una
prudenza rinnovata riusciremo a vivere e ad agire in questa maniera.
L’« agere » guidato dalla
prudenza avviene nel nostro intimo. Quando per esempio io capisco e comprendo
un Fratello, ciò avviene nel mio intimo. Quando amo un Fratello, ciò avviene
nel mio intimo.
Ecco perché sono così
preoccupato di andare al cuore delle cose, perché è là che ogni comprensione e
amore avviene. Il mondo sembra impazzito nello sforzo di mettersi in contatto
con il sentimento ». Il mondo cristiano ne è seriamente influenzato, anche se
un cristiano dovrebbe sapere che ciò che importa è mettersi in contatto con
il suo io da cui derivano tutti i sentimenti. La prudenza governa e dirige
queste azioni interiori dell’Io verso un fine ultimo. Questo fine ultimo è
l’unione simile a quella che esiste fra il Padre e il Figlio. La prudenza
dirige tutte le energie della libera volontà a quelle azioni che sono indicate
a raggiungere questo scopo. Quando ci amiamo, allora usiamo la virtù della
prudenza. Tanti errori e tante omissioni si realizzano in nome di una falsa
prudenza che ci distoglie dalla verità e perciò dalla vera libertà.
La vera prudenza, rinnovata nelle sue fondamenta
ispiratrici, sarà il lievito del nostro vivere comune: una falsa prudenza
distruggerà le nostre Comunità ed i rapporti tra i Superiori ed i loro
Confratelli, creando quelle spaccature che minano la reciproca fiducia.
La
giustizia
Ad un uomo, per sua natura sociale, non sono
sufficienti una comprensione ed un amore che rimangano nel suo intimo. Questo
è maggiormente vero per un cristiano.
Il cristiano deve sforzarsi perché la sua
comprensione e il suo amore giungano al cuore del Fratello.
Effettuare ciò è compito della giustizia. Dio è
giustizia, così come è amore. Per giustizia Dio inviò suo Figlio a salvarci,
per giustizia questo suo Figlio morì per noi. In questa morte di Cristo per
l’umanità c’era una esigenza fondamentale di giustizia.
Era la risposta di Dio alla nostra bontà, un
disegno divino per giungere fino a noi.
Morire per un altro: ecco il modo migliore che
Dio scoprì per penetrare nelle tenebre in cui, da uomini quali siamo, noi
viviamo. Naturalmente, uccidendo suo figlio, abbiamo peccato, ma questo suo
figlio, morendo per noi, era giusto.
Nessun Fratello agisce giustamente quando cerca
di distruggere o di diminuire il suo Fratello davanti agli altri. Quel Fratello,
però, da parte sua, agisce bene accettando questa diminuzione.
Questa è giustizia perché, anche se minacciati da
distruzione e da calunnie, per mezzo dell’amore esteso ai nostri nemici noi
rendiamo la nostra carità credibile, e riusciamo a convincere gli altri.
Quindi, fondamentalmente, il giusto non rende male
per male, ma risponde al male con la vita e con l’amore. Ecco le due componenti
fondamentali della nostra comunione reciproca. Per mezzo di questo dono noi
riusciamo a scoprire altri modi di convincere i nostri Fratelli del nostro
amore, altri modi per penetrare nel loro cuore e nella loro mente. Per esempio,
quando siamo disinteressati e abbandoniamo a loro stessi i nostri confratelli
missionari, addossando impegno e responsabilità ad altri, non siamo giusti nei
loro confronti.
Quando una Provincia — pur avendo i suoi problemi
— non si preoccupa mai di un’altra Provincia, non si preoccupa dell’Ordine,
non ne vive i problemi di crescita o i momenti di tensione, non possiamo
parlare certo di giustizia.
Quando un gruppo etnico evita o snobba un altro
gruppo etnico, quando non si cerca di penetrare nei Fratelli attraverso l’amore,
accettandoli in tutte le loro componenti umane e sociali, non possiamo parlare
di giustizia.
Una Provincia o una Comunità è giusta quando
esterna il suo amore e il suo desiderio di unione con un’altra Provincia o con
un’altra Comunità, e non a sentimenti, ma nella realtà operativa.
La giustizia è un dono che ci facilita l’apertura
ai Fratelli, e la riempie di gioia. La giustizia è in noi attraverso la
presenza dello Spirito Santo: noi siamo certi della sua presenza quando
diventiamo consapevoli dei suoi doni e dei suoi frutti. La Nuova Legge è
scritta nei nostri cuori: è una legge di libertà, che ci scarica dei pesi della
Vecchia Legge per darci la gioia della Nuova.
La libertà è amore, amore in vista dell’unione
con i Fratelli. Non c’è maggiore gioia che osservare dei Fratelli che vivono in
comunione fra di loro. Siamo giusti verso gli altri quando partecipiamo loro le
nostre ricchezze interiori, la nostra vita soprannaturale! La giustizia senza
l’amore è vuota. L’amore senza giustizia è sterile, chiuso in sé stesso e
inutile. Proiettarci nella ricerca di una metodologia di apostolato, nello
studio della Pastorale per le Vocazioni o della Pastorale Ospedaliera, e non
essere in ogni dimensione della giustizia, significa porci sulla strada dell’insuccesso
e, qualche volta, sulla strada del tradimento.
La
temperanza
Quando il Padre ci fece redimere, per renderci
suoi figli, conosceva perfettamente quelle nostre debolezze che ci avrebbero
reso difficile amare come i suoi figli dovrebbero amare, e formare una cosa
sola come Lui e il Figlio suo sono una cosa sola. Dio non intendeva rendere
questa Nuova Legge un peso come lo era stata l’Antica. Desiderava che fosse
qualche cosa di facile e di dolce da osservarsi.
Perché però i suoi figli possano davvero essere
liberi, Dio deve arricchirli con certi doni che li aiutino a superare le loro
debolezze innate. Uno di questi doni soprannaturali è la temperanza. Come la
giustizia, la temperanza ha pure bisogno di essere rinnovata e rivitalizzata
dentro di noi. Non ci sarà mai un vero Rinnovamento dello spirito e del nostro
carisma senza un Rinnovamento della virtù della temperanza.
La temperanza è un dono che ci rende possibile,
anzi facile e gioioso, controllare le tendenze a eccedere che sono radicate
nella nostra umana debolezza. A volte le nostre passioni ci inclinano ad azioni
che non sono né buone né adatte.
La nostra sensibilità verso gli altri trova le sue
radici nella nostra fede e nel nostro amore. Quando questa sensibilità è governata
dalla passione, invece che dalla fede, occorre controllare questa passione, ma
in modo calmo e gioioso. Ecco il compito della temperanza. L’amore umano senza
una certa passione è un inganno.
Nostro Signore ci amò appassionatamente. Il suo
profondo amore per noi era così forte che morì per noi. Questa fu temperanza.
La sua morte non fu un eccesso radicato nella debolezza, ma un’abbondanza
d’amore radicata nella forza.
La temperanza modera l’amore secondo le regole
della fede. Non si preoccupa tanto del controllo delle passioni che noi
abbiamo, e che sono radicate nei sette vizi capitali, ma dei punti forti che
sono radicati nella presenza dello Spirito in noi. Per mezzo della temperanza
scopriamo i limiti di questo amore e di questa giustizia.
Questi limiti sono quelli che Gesù stesso ci
mostrò sulla croce. Noi siamo uomini di temperanza quando viviamo totalmente
gli uni per gli altri, anche dando la nostra vita per gli altri.
La temperanza è diventata ormai una virtù
superficiale della nostra cultura secolarizzata. La usiamo per controllare la
nostra debolezza, non i nostri punti forti.
Essa può renderci consapevoli del peccato come
faceva la Vecchia Legge.
Lo insegna San Paolo nella lettera ai Romani.
La temperanza soprannaturale, invece, ci rende consapevoli
della molteplicità delle nostre buone azioni, che ci permettono di vivere gli
uni per gli altri e gli uni con gli altri. La temperanza non si cura tanto
degli ostacoli all’amore e all’unione che esistono al di fuori di noi stessi,
quanto invece di quei doni dello Spirito che noi possediamo e che desideriamo
condividere con gli altri (Gal. 5,22).
La
fortezza
Come la temperanza, la fortezza incomincia nella
debolezza e si perfeziona nella pienezza della vita dello Spirito che è in noi.
Qualche volta le nostre passioni ci fanno allontanare da ciò che ci suggerisce
la fede. Allora sperimentiamo la paura. Quando per esempio incontriamo
ostacoli, cerchiamo di evitarli al punto da rimanere paralizzati. Parlando
della prudenza abbiamo già discusso questi ostacoli. Essi sono radicati nella
nostra debolezza e nel peccato. Tocca alla fortezza illuminare la debolezza del
male che ci si oppone. Quando capiamo che il male è debolezza, allora i nostri
timori spariscono, e noi riusciamo ad agire rettamente secondo la fede.
Qualcuno di noi, Fratelli carissimi, può avvertire
paura, esitazioni, e anche un senso di minaccia davanti alle richieste di Rinnovamento.
Molti dei nostri Fratelli sono soggetti alle stesse passioni negative.
Così molti Fratelli hanno paura di condividere il
loro amore con gli altri, e perciò necessitano un Rinnovamento del dono della
giustizia nel loro cuore; e molti altri sono spaventati dagli ostacoli che
incontrano da parte di coloro che rigettano questo amore.
La loro fortezza si costruisce sulla vitalità
della vita intima con lo Spirito. Nell’agonia nel Gethsemani, Gesù ci diede un
esempio di questa fortezza. Pregò perché la croce gli fosse tolta: non era
certo che ci fossero persone pronte ad accettare questo tipo di amore! Ma poi
disse: «Non la mia, ma la Tua volontà sia fatta». Perché scoprì che la volontà
del Padre era che tutti gli uomini ricevessero questo amore.
Ci fu qualcosa al di là della debolezza in questa
accettazione della volontà del Padre?
L’agonia e la crocefissione erano ciò che il Padre
aveva ordinato perché si compisse la sua volontà. L’unico ostacolo che restava
nell’orto dell’agonia era la crocefissione.
Per mezzo di essa tutti gli uomini sarebbero
stati convinti dell’amore del Padre per loro, e della bontà della sua decisione
di amarli.
Quindi il problema sulla croce era: «Riuscirò a
superare l’ultimo ostacolo che è la morte»? E la risposta del Padre fu un
chiaro sì. « Ho voluto che così fosse ». La domanda che ci poniamo noi, di
fronte agli ostacoli che troviamo nei nostri Fratelli e nelle Comunità, è la
stessa. La fortezza, come avvenne a Cristo sulla croce, ci rivela che i nostri
Fratelli hanno la capacità di accettare il nostro amore. Riscopriamo che essi
sono figli di Dio attraverso la fede, che dobbiamo crescere insieme per mezzo
della speranza, che raggiungeremo l’unione per mezzo della carità.
Capitolo Terzo
I QUATTRO VOTI
Per rendere il nostro essere figli di Dio qualche
cosa di più gioioso e di più facile, Cristo ci diede quattro doni quando abbiamo
fatto la nostra solenne professione davanti a lui.
Una tale professione non poteva essere fatta se
non nel contesto dei doni di cui abbiamo fino ad ora parlato.
Tutti questi doni ci liberano per per-metterci di
vivere «una vita più abbondante ». La nostra professione fu dunque il modo
migliore di dichiarare pubblicamente che noi accettavamo questa vita in tutta
la sua pienezza.
So che molti religiosi tendono a guardare ai voti
in modo restrittivo o negativo. E’ vero che, attraverso i voti, noi facciamo
grandi sacrifici, rinunciando a cose meravigliose, ma, mi domando, quanti dei
nostri Fratelli vedono i voti come un dono che ci comunica « la vita più
abbondante », anzi una vita più piena? Quante volte abbiamo constatato in casi
di «abbandono» che la unica giustificazione per un atto così grave era di
affermare l’impossibilità dell’osservanza dei voti.
Quanta povertà si scopre in una simile
giustificazione!
Non voglio in questa sede soffermarmi in
un’analisi dettagliata dei nostri voti, rimandandola ad altre propizie
circostanze: voglio solo dire che pensare seriamente ad un Rinnovamento, senza
fermarsi a riflettere e meditare sui nostri voti, sulle loro fonti ispiratrici
ed illuminanti, sarebbe una imperdonabile omissione.
La povertà
La povertà, come dono, controlla la possessività
e il desiderio smodato, che sono debolezza e peccato.
La povertà come dono apre il nostro cuore e la
nostra mente all’intero universo di Dio e alla sua presenza all’interno di
esso. La povertà aumenta la nostra gioia e ci fa scoprire Dio nell’universo
materiale. Ci rende più sensibili alla bontà e alla bellezza dell’universo
stesso, e più desiderosi di abbracciarlo.
Il religioso votato alla povertà non ha paura del
desiderio sfrenato e della possessività, né guarda al mondo materiale con
disprezzo.
La
castità
La castità, come dono, controlla la nostra
ingordigia e la nostra lussuria che pure sono debolezza e peccato.
La castità espande i nostri cuori e le nostre
menti fino ad abbracciare tutto il popolo di Dio.
Attraverso la potenza di questo dono amiamo gli
altri con maggiore facilità e con gioia più intensa. La castità rende il nostro
amore più simile a quello di Cristo, proprio perché introduce in questo nostro
amore per gli altri una nota di trascendenza.
La castità intensifica le intimità proprie della
vita di ogni uomo, le espande fino ad abbracciare tutti i fratelli e tutti
coloro che serviamo col nostro lavoro.
La nostra castità, come tante altre virtù, ha
assunto un aspetto piuttosto restrittivo nel passato: ragione di più per un suo
Rinnovamento.
L’obbedienza
L’obbedienza, come dono, controlla la nostra
tendenza a preoccuparci di troppe cose, ignorando «l’unum necessarium». L’obbedienza
ci rende capaci di accettare la potenza liberatrice dell’autorità autentica,
aiutandoci a realizzare più intensamente la unione con i Fratelli.
Per mezzo dell’obbedienza noi non sacrifichiamo
la nostra volontà e la nostra libertà! Ciò significherebbe privarci della
nostra stessa umanità. E’ la libertà che distingue l’uomo dalle bestie, e
l’obbedienza vera non ci rende certo simili alle bestie! Essendo già figli di
Dio, dobbiamo vivere in unione con i nostri Fratelli che pure sono figli di
Dio.
La nostra obbedienza-dono ci facilita la vita.
Tutto il resto è schiavitù e disobbedienza.
L’ospitalità
Con l’ospitalità-dono apriamo il nostro cuore a
ricevere coloro che si trovano nella necessità e nella malattia. L’ospitalità è
un dono ricevuto più che un dono dato. Pochi al mondo sanno scoprire la bontà e
la bellezza di coloro che all’apparenza sono poco gradevoli o ripugnanti.
Attraverso la potenza di questo dono penetriamo al di là della facciata per
intravvedere la ricchezza interiore dei bisognosi, la salute spirituale degli
ammalati, l’unione con Dio mediante gli abbandonati.
Attraverso l’ospitalità ci arricchiamo di tutte
queste cose e ci sforziamo con la nostra disponibilità di rendere coloro che
serviamo consapevoli di essere veramente loro i nostri primi e veri benefattori.
Dobbiamo impegnarci a « rinnovare » il nostro Voto di ospitalità per rendere
sempre più vivo, sempre più giovane, il nostro Ordine ed il nostro spirito.
Evidentemente non escludo che si debbano
urgentemente e seriamente promuovere studi e rilievi socio-ecclesiali
dell’area in cui realizzeremo la nostra Missione Ospedaliera ed i principi
teologici ispiratori di questa discussione apostolica; ma affinché da questi
studi derivino la capacità ed il coraggio di autentici cambiamenti o di nuove
proiezioni, è indispensabile che contemporaneamente a queste ricerche
sociologiche si porti avanti un autentico Rinnovamento spirituale della
nostra Ospitalità.
CONCLUSIONE
Confratelli carissimi, avrei tante altre cose da
dirvi che mi affiorano alla mente ed al cuore, ma non voglio tediarvi oltre.
Non ho la presunzione di aver detto qualcosa di
nuovo o di trascendente: spero solo di avere fornito spunti che ritengo di
fondamentale importanza per un vero e profondo Rinnovamento del nostro vivere
cristiano e religioso.
Il mio desiderio è di portare un modesto ma
sincero e sofferto contributo perché i Confratelli tutti capiscano pienamente
il valore di una vita religiosa più consapevole, in cui sia il male che il
bene siano considerati come parte della nostra condizione umana, sempre però
nella certezza che il bene trionfa sul male, perché è il bene del Figlio di Dio
e della presenza dello Spirito Santo.
Tocca ora a ciascun confratello e a ciascuna
Provincia fare ogni sforzo per concretizzare tutte queste cose nella propria
vita e nel proprio ambiente. Ho parlato a livello di principi fondamentali.
Possa da questi principi fondamentali, scorrere la vita e ciascuno di noi
fiorire nella pienezza della bontà che gli è propria.
Se ognuno di noi riuscirà a rinnovarsi nelle sue
radici e nei principi cristiani, allora il nostro Rinnovamento troverà davvero
la sua sorgente nel fertile terreno del Vangelo, nella vita del nostro santo
Fondatore e in tutta la ricchezza che vediamo in ciascuno dei nostri Fratelli.
Ci benedica Dio, ed il nostro Santo Fondatore
faccia ardere nel nostro cuore quella fiamma che consumò il suo vivere umano.
[1] Seconda lettera ai Corinti 3:2-4.
[2] Vangelo secondo Giovanni 10:10.
[3] Vangelo secondo Matteo 11:30.
[4] Gaudium et Spes, introduzione.
[5] Vangelo secondo Giovanni 17:11, 20.
[6] Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio – Discernimento degli Spiriti
[7] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II – II Cap. 71 art. 6.
[8] Lumen Gentium.
[9] Gaudium et Spes Cap. 1, 16.
[10] Ibidem 6.
[11] Teilhard de Chardin: Inno dell’Universo.
[12] Ibidem.
[13] S. Tommaso d’Aquino, op. cit. I-II Cap. 1 art. 4.
[14] Gaudium et Spes Cap. I 12-13.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Evangelica Testificatio 5, 12.
[18] Vangelo secondo Giovanni 12:23.
[19] Vangelo secondo Luca 10:41.
[20] Prima lettera ai Corinti 9:12.
[21] Salmo 8:6.
[22] Lettera ai Romano 5:20, 7:7-12.
[23] Vangelo secondo Matteo 12:28.
[24] Prima lettera ai Corinti 12:31.
[25] Vangelo secondo Giovanni 13:15.
[26] Ibidem 15:20.
[27] Ibidem 13:5.
[28] Vangelo secondo Luca 10:38-42.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem 12:22-31.
[31] Ibidem 15:4.
[32] Gaudium et Spes Cap. II, 23, 27.
[33] Vangelo secondo matteo 19:29.
[34] S. Tommaso d’Aquino Op. Cit. II – II 162 art. 1.
[35] Romani 7:6.
[36] Vangelo secondo Matteo 23:27.
[37] Vangelo secondo Giovanni 8:32.
[38] Gaudium et Spes Cap. II 23:24.
[39] Vangelo secondo Matteo 5:22.
[40] Genesi 1:26 Libro della Sapienza 2:23.
[41] Ecclesiastico 17:3-10.
[42] Salmo 8:5-8.
[43] Gaudium et Spes I, 12.
[44] Vangelo secondo Matteo 5:15.
[45] Evangelica Testificatio Par. 2 e 13.