Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000
Documento di P. Pierluigi Marchesi
L'ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000
Carissimi confratelli, con questo documento, dal titolo «L'ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000», intendo continuare il cammino iniziato con le precedenti riflessioni: «Le basi del rinnovamento» e «L'umanizzazione».
PRESENTAZIONE
Rinnovamento, fonte di consolazione
l. La prima riflessione nasceva dal profondo bisogno di cambiamento interiore avvertito da tutti come urgente per mantenere profeticamente orientata la nostra vita spirituale. In quel documento era chiaramente espressa la finalità di rinnovarsi continuamente in modo da non perdere i contatti con Dio, la Chiesa e San Giovanni di Dio. Il nostro rinnovamento è così diventato qualcosa di tangibile, fonte di autentica consolazione.
2. Nel secondo documento, con l'apporto
prezioso del Consiglio Generale, ho cercato di richiamare l'attenzione di tutto
l'Ordine e dei collaboratori laici sullo scopo ultimo della nostra azione: il
rapporto, umano e umanizzante, con il malato; rapporto basato sulla
consapevolezza che la testimonianza del nostro carisma non si realizza se si
perde di vista la figura centrale del nostro operare quotidiano, cioè il
bisognoso, l'uomo che soffre, il povero: il nostro «essere» e «fare» per
lui, il nostro rapporto con lui personale, oltre che professionale,
rappresentano infatti un fattore terapeutico e allo stesso tempo una
testimonianza di amore misericordioso, una riedizione vivente dell'amore di
Cristo nel nostro tempo e della sua passione per i più bisognosi.
3. Il presente documento, che trae ispirazione dai fermenti che le Province dell'Ordine esprimono, si colloca dunque idealmente a metà strada tra i primi due in quanto cerca di colmare lo spazio esistente tra la nostra dimensione interiore di persone e di religiosi e l'atteggiamento di umanità che il malato oggi si aspetta da noi con sempre maggiore insistenza.
Porre mano al nostro futuro non per paura, ma per amore
4. Sono pagine, queste, scritte
guardando al 2000, con quel senso del futuro che noi dobbiamo coltivare per
offrire ai bisognosi di oggi e di domani l'essenza del nostro carisma
specifico: l'Ospitalità. Si tratta allora di rafforzare la nostra identità di
uomini, di religiosi, di operatori nel mondo della salute non solo per
mantenere viva la nostra istituzione, ma soprattutto per proiettarla nel
futuro, in modo da rispondere adeguatamente alle esigenze della società in cui
siamo e saremo chiamati ad operare, avendo di mira il bene supremo della vita
umana, alla quale sempre meno ci si riferisce secondo principi di rispetto, di
attenzione, di premura e di conforto. Inoltre, queste pagine contengono più di
una provocazione affinché, con il supporto delle nuove Costituzioni, ognuno di
noi si senta spinto ad assumere con coraggio ruoli e compiti più congeniali
alla nostra peculiare caratteristica di religiosi «ospitanti».
5. Nel continuare il dialogo con i
confratelli, non pretendo di fissare tali ruoli, piuttosto miro a stimolare
(ove occorra, in maniera radicale) l'analisi critica dei nostri comportamenti,
delle nostre collocazioni professionali, del nostro rapporto con la comunità in
cui l'obbedienza ci ha destinati, con le comunità delle singole province e con
il Governo centrale dell'Ordine; senza ovviamente trascurare il rapporto con i
collaboratori laici e con le complesse realtà in cui siamo immersi. E ciò con
spirito di fiducia, in una prospettiva di creatività dettata dall'amore del
prossimo, non dalla paura del futuro.
6. Ho cercato di dialogare con voi come
chi ha bisogno di reciprocità nel confronto delle opinioni, in un'atmosfera di
confidenza. Con tale animo vorrei ci preparassimo ad affrontare, sinceramente e
gioiosamente la ricerca, mai esaurita in noi stessi, del modo migliore di
essere e di agire; ricerca non fine a se stessa, ma orientata alla
valorizzazione ottimale di quel voto di Ospitalità che ci costringe a pensare,
sperimentare, comunicare fra di noi tutto ciò che serve per realizzarlo nel
modo più completo. In altre parole, ad ad
ammalarci della malattia dell'uomo, nostro fratello.
7. La domanda di fondo è questa: come
il Fatebenefratello può prepararsi a svolgere, in vista del 2000, la missione
misteriosa e storica di accogliere l'uomo
‑in particolare l'uomo bisognoso– di questa società?
Qui chiamiamo in causa i
nostri «giacimenti» interiori, le nostre Costituzioni, le nostre abitudini
professionali e religiose e la nostra fantasia per inventare, attingendo al
tesoro delle nostre tradizioni, le soluzioni adatte ai tempi, per riscoprire
quei compiti di «servizio» (non di potere, di prestigio o di pura e semplice
realizzazione personale) che soli ci consentono di chiamarci Fatebenefratelli,
ovvero fratelli che si preoccupano di
fare del bene al prossimo.
8. Il buon esito della ricerca dipende
da noi, dall'impegno che porremo nel guardare avanti senza negare il presente o
il passato, accettando il gravoso ma esaltante compito di interrogarci in modo
schietto e sincero su ciò che stiamo facendo e dovremo fare per essere coerenti
con la nostra identità di uomini e di religiosi.
Sono fermamente convinto che
il raggiungimento del nostro fine specifico (testimoniare l'amore
misericordioso) richieda una serie di impegni che sono sovente gravosi e
scomodi, ma che d'altra parte ci danno la misura dello spazio che si apre ai
Fatebenefratelli nel mondo contemporaneo, soprattutto in quello
industrializzato e tecnologizzato. Un campo smisurato ‑contrariamente a
quanto alcuni pensano‑ che, se addirittura a volte ci spaventa, ci fa
però toccare con mano l'attualità, anzi l'urgenza del nostro carisma e della
nostra Istituzione.
9. Cari confratelli, come vostro
Generale avverto in certi momenti le incognite del presente: non perché ci sia
poco da fare, ma perché non siamo
sempre adeguatamente preparati a dare le risposte che la Chiesa si aspetta da
noi. Mi preoccupa il nostro star fermi, il nostro ripiegarci talvolta su
posizioni di comodo, di sicurezza o di malintesa rassegnazione. Eppure sappiamo
che il messaggio evangelico mantiene intatta la sua forza suscitatrice, la sua
capacità di infiammare anime generose. E mai come oggi l'uomo ci interpella,
chiedendoci di occuparci della sua persona, di stare al suo fianco per
testimoniargli qualcosa che è tipico del nostro essere religiosi, cioè la
capacità di «ammalarci della sua malattia»,
di identificarci non solo coi suoi bisogni, ma soprattutto con le sue motivazioni
esistenziali, col suo desiderio inappagato di felicità (e quindi di Dio). Oltre
al tetto di un ospedale e alla nostra professionalità ‑che non devono
mancare ai livelli più dignitosi‑ questo dobbiamo saper dare al malato:
se non lo faremo, lo deluderemo definitivamente e irrimediabilmente.
I nostri ruoli, i nostri compiti, la nostra passione verso l'uomo, le
nostre tentazioni
10. Nel tentativo di mettere in
luce i ruoli e i compiti mediante i quali realizzare nel prossimo futuro
l'Ospitalità dei Fatebenefratelli, possiamo individuare due tentazioni
ricorrenti. La prima è quella di ritagliarci un posto, una nicchia, nella quale
svolgere un mestiere o una professione, magari in competizione con i
confratelli o (soprattutto) con i laici. La seconda, più sottile e maligna, ci
spinge a delegare al numeroso esercito dei nostri preziosi collaboratori laici
i compiti di assistenza al malato, a prendere cioè le distanze dalle
vicissitudini del nostro assistito. Questa tentazione è molto più evidente là
dove i progressi delle scienze e delle tecniche hanno raggiunto livelli
elevati, oppure dove, per ragioni di buon funzionamento del complesso sistema
delle nostre opere, il processo di delega e di razionalizzazione dei ruoli è
indispensabile. Ma ove delegare significasse abbandonare le strutture a se
stesse o addirittura abbandonare il malato, allora dovremmo rivedere con
estrema chiarezza i nostri modelli di comportamento, per impedire che i
mutamenti organizzativi e tecnologici si trasformino per il malato nella
trappola dell'anonimato, della efficienza pura e semplice, condannandolo
all'isolamento-abbandono in ambienti certamente razionali, ma freddi e scostati
dal punto di vista umano.
11. Non è certo questo che ci proponemmo
di realizzare nel giorno della nostra solenne professione, emettendo il voto
della Ospitalità. Nessuna garanzia ci fu sottoscritta allora circa la sicurezza
del posto di lavoro né circa il controllo a distanza del malato e dei nostri
collaboratori. Abbiamo promesso fedeltà
al nostro carisma che ci obbliga a mutare gli atti, i ruoli, gli atteggiamenti,
le strutture, ma non a rinunciare alla passione verso i nostri assistiti, verso
i familiari del malato, verso i collaboratori, nonché all'impegno per le
iniziative culturali, formative, religiose e sociali atte a favorire la
crescita personale, religiosa, professionale in noi, nei nostri collaboratori e
nel mondo della sanità.
Come Padre Generale –lo
ripeto– non ho la ricetta per definire i ruoli presenti e futuri, anche perché
questi si possono precisare solo mediante un attento esame di noi stessi, alla
luce dei fini ultimi del carisma ospedaliero. Ma tutti noi dobbiamo dedicare
tempo e impegno per una verifica dei nostri attuali comportamenti.
12. Ho parlato di due principali
tentazioni. Ma ce ne sono altre. Quella, ad esempio di mantenere o di
desiderare incarichi per i quali non possediamo la competenza; o quella di
puntare ad un alto livello organizzativo e tecnologico dei nostri ospedali non
avendo sempre ben chiari i nostri fini specifici. La gente ci guarda con occhio
attento, ci scruta, vuol capire per quale motivo ci siamo fatti religiosi. Non
sempre riusciamo a dar loro una risposta convincente. Talvolta non siamo esemplari
perché eseguiamo male i nostri compiti, facciamo solo le cose che ci piacciono,
blocchiamo la crescita dei collaboratori, oppure restiamo lontani dal malato,
ci chiudiamo in ruoli rigidi e ripetitivi, cerchiamo «fuori» spazi che,
dovremmo trovare «dentro» o evitiamo l'arduo ma necessario lavoro di ricerca di
ruoli più utili al malato. Siamo più spesso capaci di cogliere il male del
mondo (a volte lo troviamo anche nel progresso, in cose di per sé neutre o
buone) che di individuarlo dentro di noi, non già per deprimerci o per
colpevolizzarci, ma per risollevarci dal torpore e dalle abitudini dannose.
13. Nessuno ovviamente nasce santo. Il
cammino della perfezione spirituale è esaltante ma lungo, faticoso, costellato
di deviazioni che toccano la nostra realizzazione umana, professionale e
religiosa. Occorre correggere tali deviazioni e riconoscere i propri errori, da
uomini forti, coraggiosi, autenticamente aperti al mistero. Questo
atteggiamento di sana autocritica ci spinge da un lato ad attingere alle nostre
risorse, dall'altro a chiedere aiuto a tutti, a Dio e agli uomini che ci sono
vicini, per riequilibrare il rapporto col mondo che noi vogliamo e dobbiamo
servire, per crescere nella nostra vera identità.
I. IL CAMBIAMENTO DEL MONDO E LA NOSTRA CECITÀ
Un paradosso: non fare niente
14.
Cito da un noto volume di
padre Bartolomeo Sorge «Il futuro della
vita religiosa»: «La crisi attuale della vita religiosa ‑come del resto
la crisi più generale che la Chiesa attraversa‑ non è nata dall'interno,
come era avvenuto altre volte, ma è stata indotta dall'esterno, dal trapasso di
cultura e di civiltà che il mondo sta vivendo…
La crisi è arrivata all'improvviso da una rapida trasformazione sociale
e culturale... La nostra quindi non è una crisi da infermità, ma di sviluppo e
di crescenza... In questi ultimi anni è finita una civiltà, un certo tipo di
ideologia, sono cambiati totalmente i rapporti di autorità, si sono trasformati
ruoli e strutture consolidati da decenni, modi di comunicazione e di esercizio
del potere. L'uomo stesso ha un diverso atteggiamento verso il mondo, la
storia, i propri simili, l'organizzazione del sapere, verso la vita stessa. Noi
siamo stati travolti da questi mutamenti, il mondo sta diventando sempre più
piccolo, più dinamico, più socializzato».
La diagnosi è fedele. E noi
ci troviamo sovente costretti a decidere in un clima di delusione perché non
siamo riusciti a collegare il vecchio col nuovo, coi bisogni emergenti, con la
sete di libertà, di conoscenza e di solidarietà di molti strati della nostra
popolazione.
15. Il mondo odierno non è né migliore
né peggiore di quello di ieri: è solo cambiato, persino sconvolto. Se lo
vogliamo servire, è questo mondo che dobbiamo assumere e conoscere. In fondo la
crisi è salutare poiché ci permette di salvare ciò che va salvato e di gettar
via ciò che va scartato. Ma abbandonare vecchi ruoli è tanto più difficile
quanto più essi hanno preso posto nel nostro essere, impoverendo la nostra
personalità e la nostra dimensione di religiosi, cioè le sue radici dei nostri
modi d'agire.
16. Gettare il vecchio però non
significa correr dietro alle mode. Occorrono discernimento ed equilibrio,
perché può nascere una situazione di incertezza: ci si chiede infatti se
dobbiamo andar tutti in missione, intraprendere iniziative che facciano colpo
sulla società, o divenire tutti animatori magari senza sapere di che cosa, di
chi, come e perché. Spesso non troviamo la risposta ai nostri interrogativi. La
prima cosa da fare, quando ci troviamo in questa condizione di smarrimento, o
peggio ancora di rassegnazione o di apatia, paradossalmente è proprio quella di
«rinunciare a fare ». Ovvero sia: prima di agire e di assumere nuovi ruoli,
dobbiamo fermarci per riflettere a lungo sulle nostre paure, sui nostri
desideri, sulle nostre possibilità, sui motivi per i quali ci siamo fatti
religiosi, sugli insegnamenti del nostro Fondatore e della Chiesa, sulle
esperienze dei credenti laici. Fermarci per interiorizzare, per «rientrare in
noi stessi» secondo l'indicazione di S. Agostino.
Abbattere i campanili o comprenderne meglio il senso?
17. Il documento sulla «Umanizzazione»
incoraggiava a recuperare la «personalizzazione» del rapporto con l'assistito
in un contesto sociale profondamente mutato.
La storia del nostro Ordine
si identifica con l'immagine di S. Giovanni di Dio e dei suoi seguaci che si
prendono sulle spalle il malato, il derelitto, il bisognoso. Per secoli i
nostri predecessori hanno assistito, e in prima persona, chi si trovava nella
sofferenza. Allora non esistevano altre strutture di soccorso: l'Ospedale
religioso era una «sicurezza», perché vi si ottenevano un tetto, cibo, cure e
assistenza. Oggi ci troviamo di fronte a una situazione profondamente cambiata,
che si caratterizza ‑come accennavo prima‑ per l'affievolirsi del
rapporto diretto ed esclusivo col malato. Se pensiamo a come era un nostro
Ospedale appena 40 anni fa, vengono subito alla memoria i malati (tanti e riconoscenti)
quasi timorosi di chiedere il nostro intervento; comunità di religiosi dal
numero oggi impensabile, con i confratelli impegnati nelle mansioni più varie:
farmacista, cuoco, infermiere giardiniere. Somigliavano, le nostre opere, ai
villaggi di un tempo, autosufficienti grazie ai ruoli ben distribuiti. I medici
erano scarsi, ma la gente si fidava di noi: interi reparti erano gestiti da noi
o da religiose. Il mondo dell'Ospedale, diciamolo, era nelle nostre mani. Il
personale esterno aveva sì un proprio ruolo, ma subalterno e non interferiva
nella nostra attività. Il mondo della sofferenza e della miseria era quasi
completamente staccato dalla comunità civile; e in questo mondo molti di noi si
sono formati da giovani, lavorando duramente, in condizioni di estrema
precarietà di mezzi, ma con la grande soddisfazione di toccare, «odorare», sentire
ogni giorno il malato, dal quale nessuna barriera li separava.
18. Così accadeva per altre categorie
professionali. Pensiamo al medico di quegli anni. Era un professionista di
prestigio, dotato di un ascendente sulle famiglie impensabile al giorno d'oggi;
tant'è vero che c'è della nostalgia per quel tipo di medico, che esercitava il
suo ruolo senza filtri, con l'aiuto semmai di qualche specialista. La gioia e
la sofferenza della famiglia assistita erano le sue, in un clima di profonda
fiducia e di reciproca comunicazione. Così era anche per il parroco, la cui
autorità era indiscussa: deteneva il sapere religioso, spesso la cultura più
avanzata, e non era quasi mai messo in discussione nel suo ambito di
apostolato. Il campanile, a fianco della chiesa, chiamava i fedeli alle sacre
funzioni, ritmava gli eventi gioiosi e tristi del villaggio... fungeva da
parafulmine, da osservatorio, era in ogni caso un sicuro punto di riferimento.
19. I tempi oggi sono cambiati. Dovremo
allora abbattere i campanili perché oggi la gente ha l'orologio al polso?
Oppure dobbiamo toglierci gli orologi per permettere al campanile di continuare
a svolgere le antiche funzioni?
Non è questa la domanda che
dobbiamo porci. Chiediamoci piuttosto quale sia il ruolo autentico del campanile,
quello per il quale l'uomo di fede l'ha eretto accanto alla chiesa: farsi
vedere da lontano, più che farsi sentire. Il campanile esprime il desiderio dell'uomo di unire la terra al
cielo, l'uomo a Dio, la natura al Creatore. È per l'uomo il più originale
richiamo, alla sua origine, al suo
destino, a Colui che è nei cieli. Anche se non è più l'edificio più alto,
sorpassato com'è spesso da orgogliosi grattacieli, esso rimane e rimarrà sempre
simbolo di un annuncio, di una presenza
che rimanda alla «Presenza».
Stare in ascolto dell'uomo
20.
Per tornare a noi, cari
confratelli, è vero che abbiamo seguito in parallelo il destino del medico, del
prete e del campanile, perdendo numerose funzioni che qualche anno fa ci
sembravano indispensabili, ma ciò non significa che dobbiamo scomparire. Noi
possiamo, anzi dobbiamo vivere e testimoniare il nostro carisma, con modalità
diverse rispetto al passato. Il medico, il prete, il campanile hanno ancora
molto da dire e da fare, purché esprimano qualcosa di perenne e di fondamentale
per l'umanità, cioè il valore della sacralità
dell'uomo. Dice Giovanni Paolo II: «È
la disponibilità a servire l'uomo che ci apre verso Dio e verso gli uomini,
verso il Creatore e verso le creature. Il Concilio ci insegna proprio questo,
nello spirito del Vangelo e insieme nella dimensione dei tempi in cui viviamo»
(21 ottobre 1985).
21. Nel nostro tempo, e ancor più nel
futuro, i nostri compiti saranno sottoposti a verifiche e a mutamenti anche
radicali. Ma resterà l'essenza del carisma. Il compito più congeniale a noi e
più gratificante è quello di stare vicino al malato e di assisterlo, con una
vigilanza intensa e diretta. Ciò va ancora oggi assicurato al malato, nello
spirito del nostro Fondatore: solo che questa assistenza, che noi chiamiamo
integrata, non può più essere svolta compiutamente da singole persone, mediante
il ricorso a singole professioni. Il concetto
stesso di assistenza integrale ed integrata richiama una pluralità di funzioni
perché, col passare dei secoli, dai bisogni elementari dell'uomo si è passati a
bisogni molto più articolati, esigenti uno stragrande numero di risposte, e
quindi di figure professionali. Il risultato è che noi non abbiamo più l'esclusiva del malato, né il diritto di imporgli
dall'esterno la nostra concezione religiosa della vita. Ma c'è di più: il
malato di oggi ha a sua disposizione una gamma di risposte terapeutiche ed
assistenziali impensabili fino qualche decennio fa. In alcuni Fatebenefratelli
questo progresso ha generato delle frustrazioni, addirittura la sensazione di
sentirsi inutili. È doloroso constatare come
alcuni di noi reputino non più interessante lavorare con l'uomo di oggi, come
se quest'uomo fosse meno angosciato, meno solo, meno bisognoso, meno meritevole
del nostro impegno che quello di ieri. Al contrario, arrivo a dire che anche se
il Fatebenefratello dovesse abdicare a tutti i suoi compiti professionali, egli
svolgerebbe ugualmente con la sua
presenza, la sua bontà e letizia e con il suo stile di vita la propria
missione, testimoniando la sacralità dell'uomo e l'amore di Dio per l'uomo,
secondo il suo carisma specifico, nelle forme adeguate ai tempi.
22. Ha detto recentemente Giovanni Paolo
II: «San Tommaso, commentando il trattato
aristotelico sull'anima afferma nettamente: l'uomo è totalità dell'essere (De
Anima, III, Lez. 13), racchiude in sé un'infinita profondità dell’essere,
immagine dell'Infinito per essenza che è Dio stesso. Vorrei imprimere
profondamente nell'anima e nel cuore di tutti questa grandiosa concezione dell'uomo,
pensando alla quale fin dal primo giorno del mio ministero pontificale ho
esclamato: con quale venerazione dobbiamo pronunciare questa parola: uomo».
E non è, il nostro, il tempo
dell'attenzione, dell'ascolto, del rispetto, della promozione della libertà degli
uomini, della loro identità, delle loro motivazioni?
23. Star vicino al malato di oggi
richiede comportamenti tecnici, morali, umani, sociali, religiosi che nessuno
di noi può svolgere da solo. Ciò implica
una nostra crescita, vorrei dire una dilatazione, nel nostro modo di
vivere, di operare, di servire il mondo: è
l'uomo che si rivolge a noi, per chiederci qualcosa di più, quel qualcosa
che ha modificato totalmente non solo i nostri ospedali, ma anche la quantità e
la qualità dei collaboratori laici. Questo stesso uomo ci costringe a delegare
compiti, a lavorare in gruppo, a studiare, ad approfondire, a uscire dalla routine, dai nostri schemi mentali. Egli
non ci chiede di essere più bravi come infermieri, come amministratori, ma ci
chiede di essere attenti totalmente disponibili ad «ospitare» la sua intera
umanità, la persona nel suo insieme, a capire e saziare la sua sete di premura,
perché mai come oggi l'uomo ‑ricco di soldi‑ è povero di rapporti
umani, sinceri, disinteressati.
Trasmettere il profumo della sacralità dell'uomo
24. Miei cari confratelli,
quando sento alcuni di noi lamentarsi a causa della perdita del rapporto
diretto ed esclusivo col malato mi domando cosa penserebbe il nostro Fondatore
nel vedere il nostro malato seguito da più persone, fornito di medicine, di
spazi decorosi, di strutture accoglienti... Certamente sarebbe soddisfatto
constatando la presenza di tutto ciò che, in fondo, egli stesso già cercava
secoli fa, quando bussava alle porte dei ricchi e dei potenti per ottenere
aiuto da distribuire ai malati di allora bisognosi di tutto. Giovanni di Dio ci
stimolerebbe però a identificare i diseredati di oggi negli handicappati, negli
anziani, nei tossicodipendenti e nei poveri. Ed eventualmente ci rimprovererebbe
non per il nostro essere meno vicini al malato, ma perché accanto ad una
«vicinanza tecnica» talvolta non esiste in noi e nei nostri collaboratori che
ruotano intorno al malato la «vicinanza umana». S. Giovanni di Dio ci ha lasciato in eredità la passione per il bisognoso,
che si esprime non solo standogli vicino fisicamente, ma ispirando,
sorreggendo, illuminando quanti (collaboratori laici, familiari ecc.) operano
attorno a lui, perché a loro volta, con l'intelligenza del cuore oltre che
della mente, sappiano testimoniare la
speranza, la fiducia, l'amore verso il prossimo.
25.
L'ospitalità del futuro potrà
cambiare ancora molto, nelle sue forme esteriori, ma non dovrà mai venir meno
la nostra capacità di testimoniare il messaggio evangelico dell'amore, definito
nuovo dal Signore Gesù (cf. Gv 13,
34). La prima sua novità è l'unione dei due comandamenti. «La carità affonda le sue radici in una dedizione senza riserve a Dio:
tutta la persona con le sue doti, i suoi progetti, le sue capacità operative
deve affidarsi alla volontà di Dio, al progetto di amore che Dio ha sugli
uomini. La manifestazione visibile e dinamica di questo affidamento è la
dedizione a ogni uomo, considerato come un fratello, un prossimo, un altro se
stesso» (Card. C.M. Martini).
Non si possono separare o
ridurre i diversi aspetti di quell'atto unitario che è la carità. Se dovessimo
privilegiare qualche nostra prospettiva ristretta, perderemmo di vista gli
immensi orizzonti dischiusi dallo sguardo di Gesù.
26.
La seconda novità del
messaggio è la sorprendente e rivoluzionaria concezione del prossimo (cf. Lc 10,29‑37). Per Gesù Cristo il
prossimo non è colui che ha già con noi rapporti di sangue, di affinità
psicologica o di bisogni che noi possiamo soddisfare. Prossimo diventiamo noi
stessi nell'atto in cui, davanti a un uomo ‑anche davanti al malato o al
bisognoso che non si conosce‑ decidiamo di fare un passo che ci avvicina,
ci «approssima» a Lui.
Perciò tutto consiste nel
«farsi prossimo», come afferma il Cardinal Martini nella sua bella lettera
pastorale (1985-1986). Il nostro Riccardo Pampuri non è ricordato perché
strappava denti piuttosto che curare handicappati, ma perché ‑pur
svolgendo lavori semplici ed umili‑ la sua persona emanava il profumo di
Dio. Profumo che egli aveva saputo coltivare dentro di sé con lo studio, con la
preghiera, la capacità di ascolto dell'uomo del suo tempo, nel luogo in cui
viveva, mai dimenticandosi di essere prima di tutto un testimone, un portatore
di luce, oltre che un operatore e un tecnico.
27.
Miei cari confratelli, dal
Pampuri impariamo la lezione che il primo
e autentico nostro ruolo è quello di puntare alla nostra santificazione
personale, indipendentemente dal fatto di esercitare questa o quella
professione. Il ruolo professionale, se ci sarà, manifesterà e darà pienezza all'umanità
della nostra persona. Se coltiveremo in noi ‑attraverso un lungo lavoro
di elaborazione interiore‑ questa dimensione del divino e la diffonderemo
intorno a noi per la salute dei nostri malati, riuscendo a «contagiare» dello stesso
spirito i nostri collaboratori, i familiari e la gente che vive intorno alle
nostre opere, allora avremo assolto il compito che ci spetta, quello di testimoni e quello di guide morali prima
ancora che tecniche.
II. APRIRSI ALLO SPIRITO
SANTO
28. «La nostra apertura allo Spirito, ai segni dei tempi e
alle necessità degli uomini ci indicherà come dobbiamo incarnarlo creativamente
in ogni momento e situazione».
La citazione tratta dalle
nuove Costituzioni ci aiuta non solo a comprendere su quali basi compiere le
nostre scelte di ruolo, ma anche a delinearne le conseguenze «pratiche» per
essere aperti al Tempo, all'Uomo.
Aprirsi all'energia dello Spirito
29. Durante una meditazione, mi
ha colpito il pensiero di uno psicanalista che annota: «Io sono sempre stato toccato,
nella lettura della Bibbia, dalla figura dello Spirito Santo». Questo slancio,
questa forza vitale ‑se vogliamo definirla così‑ è l'eredità
lasciata da Cristo agli apostoli, è la vita trasmessa agli uomini dalla Vita
stessa. Prima di riceverla, i discepoli hanno dovuto percorrere numerose tappe:
una lunga dipendenza dal Maestro, accompagnata da tutta la gamma dei sentimenti
umani (ammirazione, risentimento, gelosia, ecc ... ); la caduta delle illusioni
narcisistiche lungo il cammino, unita alla perdita della sicurezza del potere;
la separazione finale, vissuta nei suoi aspetti dolorosi (la morte di Cristo)
come in quelli esaltanti (la resurrezione e l'ascensione).
E solo alla fine di un
simile percorso ‑mi preme sottolinearlo‑ che l'uomo si appropria di
se stesso, diventa davvero persona, e
riconosce la divinità «dentro» di sé sviluppando senza timore tutti i suoi
talenti. «Tutti furono pieni di Spirito
Santo e cominciarono ad esprimersi in altre lingue come lo Spirito dava loro il
potere di esprimersi»(At 2, 4).
30.
Se dall'interessante approccio
psicologico passiamo a quello biblico e teologico, la meditazione sullo Spirito
si arricchisce a dismisura. Piace qui riportare un brano dell'eminente teologo
Y.M.J. Corgar che, ormai al termine della sua vita, sembrò lasciarci in eredità
per i nostri tempi la contemplazione dello Spirito.
«Oggi abbondano le testimonianze dei Padri, dei teologi, dei mistici,
del concilio Vaticano II, che riconoscono una presenza attiva dello spirito nel
mondo e nelle ricerche che lo travagliano. Questo non significa che tutto, in
questa storia, venga dallo Spirito Santo. Il male vi ritaglia la sua parte.
L'uomo resta "incurvatus in se", incessantemente tentato di
ripiegarsi su se stesso, di ricercarsi e farsi autosufficiente nella
dimenticanza e nel disprezzo di Dio. Lo Spirito Santo, avvocato di Gesù e dei
discepoli, è anche colui che “convince il mondo di peccato” (Gv 16, 9) e che
anima la lotta contro la "carne "».
31. L'azione dello Spirito nella storia
del nostro mondo mira a costituire un corpo di figli di Dio e un tempio di
adorazione «in spirito e verità» che non può essere soltanto il corpo di Cristo
(cf. Gv 2, 21).
Gli uomini, come i giudei e
Salomone, e come i costruttori delle nostre cattedrali, hanno voluto esprimere
simbolicamente tutto il cosmo materiale e
umano nei loro templi. Il Corpo della comunione con Cristo ha certamente
una sua forma visibile e designabile, la Chiesa; ma, come dice Paolo Evdokimov,
se si può dire dove la Chiesa è, non si
può dire dove essa non è. I limiti e i modi dell'Azione dello Spirito nel
mondo ci sfuggono.
32. Cercando di precisare le ragioni che
chiamano la Chiesa all'attività missionaria, il decreto conciliare «Ad Gentes»
afferma che «finalmente si compie il
disegno del Creatore, nell'aver fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza,
quando tutti coloro che partecipano della natura umana, dopo essere stati
rigenerati in Cristo mediante lo Spirito Santo, riflettendo insieme la gloria
di Dio (cf. 2 Cor 3, 18) potranno
dire: “Padre Nostro (n. 7‑3)”».
E il concetto viene
documentato con molte citazioni dei Padri della Chiesa, tra i quali la seguente
di sant'Ippolito: «Egli non rifiuta
nessuno dei suoi servitori... volendo e desiderando salvare tutti, volendo
rendere tutti dei figli di Dio, e chiamando tutti i santi a costituire un solo
uomo perfetto. C'è infatti un solo Figlio (Servo) di Dio: per mezzo suo noi
otteniamo pure la rigenerazione (la nuova nascita) mediante lo Spirito Santo,
aspirando a formare insieme un unico uomo celeste e perfetto».
È uno solo, in definitiva,
colui che dice “Padre Nostro”. E noi, sua Chiesa, formiamo, in seno alla
vastità del mondo, ciò che san Paolo chiama “le primizie”.
33. Noi conosciamo e invochiamo Cristo e
lo Spirito. Abbiamo la Parola ispirata, i sacramenti, i ministeri istituiti. Se
lo Spirito agisce al di là dei limiti visibili della Chiesa, questa è, per il
mondo, il sacramento di Cristo e del suo Spirito.
Noi assumiamo questo vasto
mondo nella nostra preghiera, rendendo gloria per lui al Padre mediante Cristo
nello Spirito.
34. Lo Spirito, infatti, è colui che
segretamente raccoglie e annota tutto ciò che, nel mondo, cerca di balbettare
“Padre Nostro”. Questo è il senso che personalmente, diamo ogni giorno alla
dossologia che termina l'Anafora e introduce il "Padre Nostro!". Solo
per mezzo suo noi gridiamo, e lui grida per noi, Abbà, Padre (Rm 8, 15; Gal 4,
6)». (Cit. da La parola e il soffio, Borla, Roma 1985, pp. 157-159).
35. Questi rapidi richiami all'azione
dello Spirito del Signore approdano a una conclusione che mi sta a cuore:
dobbiamo aprirci allo Spirito. Incessantemente e con urgenza. Essere spirituali non è una scelta facoltativa
tra altre, ma è il nostro dover essere, il nostro destino.
Per una cultura dell'attenzione
36. Solo nello Spirito Santo siamo in
grado di comprendere e assimilare il Vangelo –fondamento perenne del
Cristianesimo– e il suo messaggio.
Ricorro ancora una volta a
una citazione per chiarire il senso delle mie parole. G. Prezzolini, scettico,
ma tormentato in pari tempo dalla ricerca di Dio tanto da essere indotto a una
preziosa corrispondenza con Paolo VI, scrive: «Il Vangelo non contiene un messaggio sociale o politico... Il cristianesimo
ricerca la trasformazione dell'uomo in nuovo Adamo: è, quello evangelico, un
messaggio puramente interiore... Questi cristiani, questi viaggiatori
passeggeri per il mondo, ma non appartenenti a questo mondo, devono occuparsi
delle cose di questo mondo in modo da essere indifferenti alle loro forme. Ciò
che temo oggi nei cambiamenti che la Chiesa giustamente si propone è che essa
segua una linea politica... ossia la tendenza a seguire i più forti … ».
E ancora: «Ma un campo è rimasto alla Chiesa. Né la
scienza né lo Stato hanno mai potuto toccarlo: il cuore umano che è inquieto...
In questo campo, il quale non guarda ricchi o poveri, giovani o vecchi, maschi
o femmine, schiavi o padroni, bianchi o neri, destri o sinistri, la Chiesa ha
un potere assoluto sulle coscienze di tutti coloro che sentono la
insoddisfazione dei beni terreni e non hanno il coraggio disperato di accettare
il mondo arido, indifferente alla sorte dell'uomo, puro urto di forze senza
alcun scopo... La Chiesa dovrebbe... ricordarsi... che vive per difendere
valori contrari all'onore, alla ricchezza, alla potenza, al fasto, al piacere
dei sensi, all'apatia, alla conquista... Ma nessun Stato e nessun partito mai
si propose e ha la possibilità di scegliere e di fare degli uomini buoni: ecco
il campo per la Chiesa... Un santo, un religioso caritatevole, un poeta
ispirato dalla coscienza religiosa sono più importanti di molte affermazioni,
riduzioni, modificazioni del culto, dell'abito, della dottrina ecclesiastica» (dall'«Ombra
di Dio»).
37. Cari confratelli, la nostra apertura
allo Spirito è cominciata quando noi, inquieti, abbiamo sentito insoddisfazione
dei beni terreni e giudicato l'aridità del mondo e l'indifferenza verso il male
come situazioni da modificare prima di tutto dentro di noi; così, toccati dal
soffio dello Spirito, noi abbiamo incontrato S. Giovanni di Dio che ci ha
invitati ad occuparci del cuore umano col nostro cuore aperto a Lui. Noi siamo
in linea col Vangelo quando testimoniamo il valore-carità: non ci spinge altro
che l'interesse per quanti, poveri nella carne e negli affetti, si rivolgono a
noi. Noi, quando siamo aperti allo Spirito, siamo portatori più che della
prestazione tecnica, di una cultura dell'attenzione verso l'animo umano, verso
l’Io essenziale ed immortale, mediante l'accoglimento della persona nella sua
interezza. Ma per mantenere questa apertura integrale all'uomo, dobbiamo
ricercare la nostra continua trasformazione interiore. Questa è, del resto, la
condizione necessaria di altre trasformazioni, riguardanti le nostre Comunità,
le Province, le nostre opere, i rapporti con i collaboratori laici e i nostri
stessi malati.
Il suono della Parola si fa eco nello Spirito
38. Questa dunque è la prima rivoluzione
che noi dobbiamo fare. Essa ci eviterà di imbalsamare il Vangelo, il nostro
Carisma, l'Uomo che soffre, il Tempo e il Mondo in cui viviamo. Ma essa
richiede un impegno non ordinario, che ha il suo punto focale nell'ascolto
della Parola unito alla totale contemplazione nello Spirito. Nel congiungere
tra loro la Parola e lo Spirito, troveremo anche il senso unitario da dare alla
nostra vita. Quando siamo disturbati nelle nostre abitudini e nella nostra
sicurezza operativa, ci chiediamo quali sono le cose pratiche da fare
dimenticando il primum movens di
tutte le nostre azioni: lo Spirito, il soffio vitale che deve ispirarle.
39. Miei cari confratelli: ciò che noi
realizzeremo in futuro, in termini di opere, di ruoli, di indirizzi, sarà
esattamente in rapporto al posto e alla dimensione che daremo allo Spirito,
cioè in definitiva alla nostra crescita personale, alla cura con cui sapremo
evitare di perderci in attività poco produttive e non collegate rispetto al
senso che noi vogliamo dare alla vita.
Noi abbiamo scelto di stare
dalla parte di chi ama di amore non misurato, e accoglie il debole, l'indifeso,
il trascurato; abbiamo scelto di vivere lunghi momenti di abbandono, di
deserto, di meditazione, di preghiera non «routinizzata», per acquisire tale
capacità di amore incondizionato. Il segreto della Parola attende di essere da
noi scoperto: «Essa è la perla preziosa,
il tesoro nascosto, per la cui conquista è necessario vendere tutto.
Nell'ascoltazione silenziosa, la parola... affiora alla coscienza e vi accende
l'irresistibile desiderio di ordinare sul suo ritmo, percepito come l'armonia
del destino personale, la propria realtà. Senza il risveglio di questo
desiderio, l'uomo è privo del suo passo, della sua qualità essenziale, e viene
a perdersi negli smarrimenti dell'ambiente in cui vive. La preghiera evangelica
è l'incontro, nel silenzio, del nostro mistero personale con quello divino, il
ritrovamento della nostra verità in Dio...
La critica che la gente ci rivolge è una sola: ci occupiamo troppo del
tempo, del mondo, e poco dello spirito, e perciò non siamo più distinguibili da
qualsiasi collaboratore laico, quando non lo teniamo stretto col nostro
guinzaglio. Noi che serviamo la vita, la creazione (cercando di liberarla dalle
deformazioni della povertà, della malattia, dello scetticismo e della
solitudine) dobbiamo possederla, la vita. Una vita completa che pulsa, corporea
e spirituale, ricca e disponibile, capace di prestazioni umane e religiose
utili all'altro, e non solo a noi stessi. Lo ripeterò fino all'esaurimento: la
vita pratica, attiva, il nostro ruolo sono importanti ma non salveranno l'anima
nostra e l'Ordine, se noi non impegneremo molto del nostro tempo per arricchire
la vita interiore, per coltivare le nostre capacità di amore, nella ricerca
dell'unione personale col principio della vita» (P.G. Vannucci O.S.M.)
40. Il nostro Ordine ha avuto in eredità
una grande e preziosa cultura del lavoro:
conosciamo tutti il valore e l’utilità del lavoro per il nostro equilibrio
biopersonale. Oggi, la nostra attività ci sta spostando verso funzioni più
manageriali, di guida: ci mette, se siamo capaci, nella condizioni di stabilire
rapporti umani, oltre che professionali, che sono di grande aiuto alla nostra
psiche e a quella dei malati. A volte in
noi sono carenti il lavoro intellettuale e quello spirituale: se li trascuriamo,
finiremo per svuotare di significato le nostre attività manuali e
professionali.
Non mentire, non tradire
41. La mia vi sembrerà una provocazione;
ma dobbiamo centrare di più la nostra giornata sulla coltivazione dello spirito
e della persona, rivedendo in modo spregiudicato le nostre attuali mansioni, in
modo da garantire attraverso di esse la realizzazione del nostro carisma.
Infatti, come uomini è attraverso il lavoro che noi doniamo al mondo la nostra
umanità e dimostriamo la nostra capacità di amore. Come religiosi dobbiamo
esprimere al mondo indicazioni e anche critiche, se necessario; ma per far
questo dobbiamo conoscere «gli impulsi della umanità attuale, per affermarli e
per purificarli ». E dobbiamo ravvivare in noi la preghiera, portandola a un
livello di maturità. Ciò è possibile se alla cultura del lavoro manuale e
professionale sapremo affiancare quella dell'uomo e della nostra civiltà, oltre
a quella fondamentale dello Spirito.
Solo a questa condizione le
nostre comunità si animeranno e ciascun religioso, secondo le proprie
esperienze ed attitudini, potrà capire il mondo nella sua autenticità,
interpretare il profondo anelito dell'uomo a dare un senso alla vita,
rifiutando ogni modello, secondo il famoso detto: imparare da tutti, ma non
imitare nessuno. Anche noi dunque, in spirito di ricerca, di verità e amore, di
autenticità e libertà, dobbiamo reinventare i nostri modelli di vita religiosa,
operativa, comunitaria, sociale. Facciamo
insieme questo lavoro evitando le tentazioni di ripetere moduli ormai
sorpassati (che è mentire) o di imitare questo o quell'Ordine (che è tradire la
coerenza con le nostre origini).
L'apertura allo Spirito nelle nostre comunità
42. Il nostro aprirsi allo Spirito –si è
detto– presuppone un lavoro individuale di crescita umana, intellettuale,
religiosa e una azione coerente nella realtà specifica delle nostre opere. La nostra
crescita comincia dagli anni di noviziato assieme ai nostri confratelli, ai
nostri collaboratori e ai malati, coi quali noi siamo (o dovremmo essere) in
perenne comunione.
Comincia dunque nella
comunità religiosa, che oggi ci dà forse più angustie che soddisfazioni. Questo
era meno vero un tempo quando la comunità, come un grande grembo materno, ci
proteggeva, ci dava sicurezza, pur mostrandosi molto severa in termini di
prescrizioni, divieti, e persino di ostacoli alla nostra personale
realizzazione. Oggi qualcosa è cambiato: la comunità dei religiosi non è più
una entità totalizzante, c'è più spazio per le libertà personali, il ruolo
gerarchico è vissuto in modo meno oppressivo. Tuttavia, persiste una certa
delusione in tutti noi; ogni tanto ci aspettiamo che la comunità debba
corrispondere meglio ai nostri bisogni, forse coltiviamo l'infantile desiderio
di essere amati dagli altri, magari senza meritarlo, forse la nostra idea della
comunità religiosa è rimasta bloccata a metà strada tra la nostalgia del
passato (o il suo totale rifiuto) e la spinta ad aprirla allo Spirito oltre che
a ciascuno dei nostri confratelli.
43. Credo che a noi tocchi reinventare le nostre comunità, che non ci vengono
regalate da questa o quella Casa. Noi
siamo rimasti vittime di un errore: quello di pretendere che l'amore sia un
dono e non una conquista. È ben vero che nei primi anni della nostra vita,
in famiglia e in convento, i nostri genitori, come i nostri superiori, ci hanno
mostrato spesso un volto sorridente, benevolo, accogliente: in fondo ogni
bambino deve ricevere l'amore gratuito degli adulti. Ma con il passare degli
anni noi abbiamo sperimentato che amare
ed essere amati è una cosa incredibilmente complessa, impegnativa, sempre
meno spontanea, sempre in bilico, ricca di esperienze contraddittorie, quando
non portatrice di vere e proprie sofferenze. La comunità si è trasformata prima
o poi per ognuno di noi, in qualche modo, fonte di sofferenza. Possiamo sentirci
imbarazzati ad ammettere la pesantezza, la quasi impossibilità di creare una
comunità ricca di comprensione, di azione di fiducia. Ma abbiamo il dovere di
cercare delle soluzioni. Nella comunità di oggi sono più evidenti i segni di
logorio, di sfiducia, di incomprensione, anche perché è possibile più che in
passato la fuga dalla comunità-comunione, in svariate forme: lavorando di più,
frequentando gli studi, intraprendendo attività sociali, viaggiando, riunendosi
a discutere, ecc...
44. In termini umani, la comunità
potrebbe essere paragonata ad un gruppo che si costituisce per raggiungere una
certa meta. Tipica è l'équipe professionale che ‑una volta realizzato
l'obiettivo‑ si scioglie ed ognuno torna alle sue occupazioni. Noi siamo
un gruppo anche in questo senso, ma non soltanto in questo. Anche noi ci
mettiamo insieme per pregare, per lavorare, per studiare; ma ciò non fa ancora
comunità-comunione: spesso, infatti, noi desideriamo la comunità ma allo stesso
tempo la fuggiamo, forse per evitare dei rischi. Credo che ciò avvenga non per
cattiveria, paura o scarso senso della religiosità, bensì per volontà di
impedire lo schiacciamento dell'Io personale nella vita comunitaria, di evitare
lo sfruttamento affettivo da parte di alcuni confratelli non sufficientemente
maturi come persone e come religiosi; in altre parole, si è convinti che in
comunità non sia possibile sviluppare se stessi, crescere come persone e come
religiosi, e che in comunità avvenga soltanto l'impoverimento dell'Io e il suo
sfruttamento.
45. Cari confratelli, tutto questo in
parte è vero; quando in comunità non si ha la sensazione di essere rispettati,
di camminare insieme pur nella diversità delle persone, allora si ritiene inutile
parteciparvi.
Ma la comunità religiosa è
qualcosa di più di un gruppo, in quanto i suoi membri stanno insieme nel nome
di Qualcuno che li ha fatti incontrare
per realizzare l'ideale di testimoniare il loro amore verso il prossimo. Questo
ideale unisce persone con una forte identità personale e religiosa, interessate
non ad elemosinare adulazioni e riconoscimenti, ma ad offrire la loro persona al dialogo reale con l'altro. Noi ‑come
uomini, come cristiani e come religiosi‑ siamo chiamati alla comunione.
Come afferma il Vaticano II, «la ragione più alta della dignità dell'uomo
consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio » (GS. 19). Non si
tratta di una semplice attitudine umana al dialogo e alla disponibilità, bensì
di un dono che ci è svelato e
comunicato nella parola di Dio. La comunione è mistero, la cui partecipazione è offerta all'uomo; è «il progetto di Dio che si attua nella storia
con l'annuncio della fede, fondato sulla comunione trinitaria» (CEI,
Comunione e comunità, documento 1981 n. 16) ne segue che tanto la Chiesa nel
suo essere comunità, quanto le comunità di Chiesa ‑come è la nostra
comunità religiosa‑ sono sempre un'icona della Santissima Trinità, una
manifestazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La comunione
testimonia l'amore stesso di Dio, un amore puro ed esigente.
46. Cari confratelli, dobbiamo
riconoscerci per quel che siamo, con le nostre luci e le nostre ombre, per ciò
che vogliamo ottenere attraverso la nostra vita, e poi interrogarci se siamo «autentici»,
oltre che con noi stessi, anche con i nostri confratelli. Diversamente, la
comunità non diventa comunione, luogo di crescita e di scambio, dove si
incontrano persone vive, in carne e ossa, unite nella varietà dei caratteri,
dei carismi e della formazione, per dialogare rispettandosi sempre, camminando
insieme, sia pure con mansioni e compiti differenziati. La comunità non è il paradiso terrestre, ma un luogo necessario per la
crescita di tutti attraverso l'incontro realmente fraterno nelle intenzioni
e nelle forme, non accecato dalle illusioni o dai nostri desideri narcisistici.
47. L'incomprensione e il conflitto
nelle comunità molto spesso manifestano il desiderio di uscire dalla
immaturità, dal conformismo, dalla ipocrisia di certe riunioni celebrate solo
per dovere e non perché funzionali alla nostra vita. Ma come possiamo parlare
di amore se non possediamo la consapevolezza dei nostri e degli altrui limiti,
se non ci rispettiamo e se non rispettiamo l'altro?
Siamo esseri umani, viviamo in comunità non per ripiegarci su
noi stessi, ma per crescere con quanti tendono ai nostri stessi obiettivi.
48. La nostra principale preoccupazione
deve quindi essere rivolta a questa non più eludibile situazione di malessere
della comunità religiosa; situazione che va affrontata non rinforzando
meccanismi illusori, bensì riscoprendo la passione originaria ed originale del crescere insieme mediante l'amore con
cui ci ha amato Cristo (Gv 12, 14).
Noi possiamo dare in cambio
il nostro impegno per crescere cristiani e religiosi sempre più autentici,
indipendentemente dalle deviazioni e dagli errori inevitabili; con l'occhio
dunque a noi stessi, e senza giudicare gli altri. Dice un poeta: «Giudicare una persona per la sua azione più
meschina è come calcolare la potenza dell'oceano dalla sua leggera schiuma». Ben
più autorevoli il Vangelo e San Paolo, di cui vi invito a leggere i toccanti
richiami (cfr. Lc 6, 37-38; Gal 5, 13-15).
49. Da quanto ho detto, emerge
l'importanza che assume per l'identità e l'efficacia del nostro carisma la
formazione di comunità in cui operino persone autentiche, coscienti del fatto
che tali comunità si costruiscono giorno per giorno entrandovi con le proprie
energie e con le proprie debolezze, con la propria esperienza e col desiderio
di restare uniti nel nome di Gesù, perché in tal caso Lui è presente (Matteo, 18, 20).
La nostra ospitalità potrà
cambiare, nuove opere sorgeranno, altre potranno e dovranno estinguersi. Non è
questo che preoccupa, bensì il fatto che protagoniste del futuro siano delle
comunità davvero rinnovate.
III. APRIRSI AL TEMPO E ALL'UOMO
50.
Se dovessi esprimervi
compiutamente il mio pensiero su questo tema, ci vorrebbe bel altro spazio. I
cambiamenti avvenuti in questi ultimi decenni nel campo della salute e, più in
generale, in quelli dei bisogni e dei disagi dell'umanità, con innegabili
progressi ma anche con imprevedibili arresti e cambi di rotta, sono talmente
numerosi e sconvolgenti che richiederebbero una riflessione a sé. Qui possono
bastare alcuni richiami, uniti a qualche proposta, che ci stimolino alle
necessarie aperture al Tempo e all'Uomo senza
mai abbandonare l'apertura (centrale)
allo Spirito.
Un Tempo diverso, un Uomo diverso.
51. Una prima riflessione riguarda
l'umanità di oggi: siamo tutti consapevoli che essa è stata colta di sorpresa
dalla rapidità delle trasformazioni e dalle sollecitazioni che hanno
interessato le ideologie, l'economia e la politica, provocando delle vere e
proprie «rivoluzioni» all'interno dell'animo umano.
«Un mondo diverso invade il mondo conosciuto, e questo mondo è tanto
imprevedibile da rendere le previsioni della vita ordinaria del tutto
insignificanti. In questo mondo diverso c'è il mistero di tutti i fondamenti
della vita».
(B. Kristensen).
In questo mondo diverso
nasce l'uomo diverso del nostro tempo, ancora una volta combattuto tra le
esigenze divine e quelle del male, come ci insegna la storia. In questo mondo
diverso noi dobbiamo-vogliamo vivere, noi dobbiamo-possiamo operare. Ma la
nostra azione risulterà efficace solo se possederemo la forza interiore e la
consapevolezza che l'umanità ha bisogno di testimoni
della verità, di guide morali
oltre che operative, dotate di coscienza critica, di anticipatori coraggiosi. Ce lo ricorda Paolo VI con ineguagliabile
forza: «L'uomo contemporaneo ascolta più
volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono
testimoni. S. Pietro esprimeva bene ciò quando descriveva (1Pt 3,1) lo
spettacolo di una vita rispettosa che conquistava senza bisogno di parole
coloro che si rifiutano di credere alla Parola» (Evangelii nuntiandi, n.
41).
52. Questo impegno personale che fa
progredire l'umanità, pone l'uomo del nostro tempo in una condizione nuova,
forse la più nuova e sconvolgente dal suo apparire sulla faccia della terra: la solitudine, il trovarsi
quotidianamente a confronto con realtà che lo manipolano e lo allontanano dal
«centro» vitale dello spirito, da quel Dio di cui egli è stato creato «a
immagine e somiglianza». Chi non riesce a raccogliere la sfida di questa
solitudine, diventa preda delle mode del tempo, si immerge in attività
frenetiche, si contorce, si disperde, offuscando la sua identità, perdendo
definitiva la sua libertà.
Custodi e artefici del benessere della gente.
53. Oggi più di ieri sono dunque
necessarie all'uomo la libertà di pensiero personale, la ricchezza del cuore ed
una nuova e più coerente operatività.
E tutto questo che rapporto
ha con la nostra vita di religiosi ospedalieri? Un rapporto strettissimo in
quanto anche noi dobbiamo attingere molto maggiormente al nostro Io interiore,
alla nostra libertà, alla forza dei nostri sentimenti se vogliamo operare in
modo coerente a favore della umanità del nostro tempo.
In noi si è sovente
alimentato un vizio mentale, anticristiano: l'abitudine a vivere con la malattia,
il disagio, la sofferenza dei nostri pazienti ci ha fatto dimenticare il vero
obiettivo che è quello di garantire loro, anche attraverso l’attività sanitaria
in senso stretto, il massimo di benessere possibile. Noi non siamo solo
distributori di farmaci, o riparatori di corpi, ma anche e soprattutto custodi
e, per la nostra parte, artefici in molti casi del benessere della gente che si
rivolge a noi carica di bisogni e motivazioni nuovi e persino sconvolgenti per
noi, abituati ad una visione schematica e riduttiva nella nostra azione.
54. La nostra apertura al Tempo e
all'Uomo ci deve coinvolgere non solo professionalmente, ma anche personalmente
e culturalmente alla ricerca di questo
Uomo di oggi, diverso da quello di ieri. È proprio da questo Uomo che noi
vogliamo fuggire quando diciamo che nella ricca società capitalistica non c'è
più spazio per i Fatebenefratelli. Come se essere ricchi equivalga ad avere la
chiave della felicità, della salute, del benessere. Il benessere non va confuso
con il ben-avere. Avvertiamo la grande tentazione di abbandonare a se stesso
questo uomo occidentale che con grande sforzo cerca di emanciparsi dalla
povertà, dalla superstizione, dalle tradizioni assurdamente vincolanti per
trovare un suo nuovo equilibrio da proporre al resto dell'Umanità; e di
abbandonarlo proprio mentre vive la vulnerabilità della sua condizione di
ricercatore di nuove strade. Non è forse anch'egli figlio di Dio, chiamato alla
salvezza, e spesso coinvolto nel dare aiuto ai fratelli che soffrono per
mancanza di cibo, medicine, abitazioni?
55. L'odierno uomo tecnologico non ha
certo risolto del tutto i suoi problemi: è più libero, più responsabile, più
attivo, ma paga tutto questo con una maggiore fragilità dei legami affettivi,
mentre la stessa innovazione tecnologica lo espone maggiormente ai rischi della
disoccupazione, della mobilità lavorativa, della perdita del rango sociale,
della solitudine e dell'anonimato soprattutto all'interno dei grandi
agglomerati urbani. Paga in definitiva questo progresso con un diffuso malessere
della persona che si manifesta nella ricerca frenetica di divertimento, di
evasione, di psicofarmaci, per ritrovare un minimo di serenità.
56. Una delle aspirazioni prevalenti
dell'uomo, almeno nella cultura occidentale ed industriale, è l'aspirazione
alla autonomia, cioè ad una
condizione in cui sempre meno condizionato dalla tradizione, egli possa fare
esperienza di se stesso, vivere in pienezza le sue dimensioni, essere sempre
più libero. Questa sete di autonomia, di verità su se stesso e sugli altri, in
altre parole di autenticità, rappresenta, soprattutto per noi religiosi,
l'aspetto più traumaticamente più duro da accettare. Siamo infatti portati a
condannarlo anche perché il suo comportamento è accompagnato a volte da spinte
amorali, da sete di piacere, da negazione del trascendente, da sconvolgimenti
nei rapporti familiari e sociali. Tuttavia la
spinta alla emancipazione, alla ricerca e alla assunzione di responsabilità
personali da parte dell'uomo del nostro tempo non è solo espressione di
ribellione, ma anche di autenticità, di impegno. Dopo secoli in cui pochi
uomini potenti hanno dominato le coscienze e le espressioni delle masse,
l'umanità cerca di configurarsi il proprio destino secondo modelli interni più
che esterni: è ciò di per sé è un bene, non un male. L'uomo che vuole diventare
libero, autentico, responsabile, cerca dentro di sé, oltre che fuori, le
risorse principali per realizzarsi in queste direzioni. E non tollera molto
facilmente le imposizioni, i codici morali astratti e non sufficientemente
motivati, i ceppi della consuetudine e della tradizione.
Nello stesso tempo,
l'esercizio della propria autonomia lo espone inevitabilmente ad errori e
deviazioni, a momenti di angoscia nonostante le conquiste ottenute sul piano
materiale. E questo perché l'uomo non è solo ciò che ha ma è soprattutto ciò che
è.
57. Dice un proverbio cinese: «l'uomo ricco ha sempre paura». E ne ha
soprattutto quando si ammala. Forse l'uomo maggiormente in crisi oggi è quello
che entra nei nostri ospedali. Da questa crisi egli può risorgere, col nostro
aiuto e quello di Dio, a una vita nuova, più integrata, più orientata al bene
della famiglia e dei fratelli, più cristiana ed umana.
Mi viene in mente il
pensiero di un noto sacerdote-scrittore, don Pronzato, a proposito della parabola
del seminatore: «Il seminatore non
sceglie il terreno, non decide quale è il terreno buono e quello sfavorevole,
quello adatto e quello meno adatto, quello da cui ci si può aspettare qualcosa e quello per cui non vale
la pena di darsi da fare. Il terreno si rivela per quello che è dopo la semina,
non prima. Se tutti gli annunciatori della Parola ricordassero questo... Il
nostro compito non sta nel classificare i vari tipi di terreno, nel tracciare
la mappa delle possibilità (una tentazione sempre presente). Noi dobbiamo
mettere alla prova tutti i terreni. Dobbiamo rischiare la parola dovunque. Vorrei
dire che dobbiamo imparare a sprecare la semente. Imparare a compiere numerosi
gesti inutili». Senza dimenticare che il seme può trasformare il terreno.
Entrare nel tempio del Tempo e dell'Uomo contemporaneo.
58. Dedicarsi ai nostri fratelli e
all'Uomo contemporaneo non è perder tempo se abbiamo la cultura e la forza
necessarie.
Aiutare gli affamati e
vestire gli ignudi, sono opere meritevoli, come assistere chi ‑chiuso nel
suo egoismo‑ è incapace di mettere in comunione con gli altri i beni
materiali e morali. Povero è ogni uomo che ha perso l'equilibrio psico-fisico e
la speranza in una vita più ricca in ogni senso; chi si avvicina al mistero
della morte, o anche solo temporaneamente è costretto a separarsi dagli affetti
familiari, dai compiti lavorativi, dai rapporti sociali. Se è nobile la scelta
missionaria, non lo è meno quella di chi decide di stare con l'Uomo del
«progresso» e con le sue opere, in queste realtà «Avanzate» dove più diffuse
sono l'indifferenza e la insensibilità, umana e spirituale, verso l'uomo. Un affamato,
un ignudo, un handicappato è molto più visibile di chi, benestante, non ha
bisogno tanto di cibo, di vestiti o di custodia, quanto di speranza, di
attenzione, di rispetto, di identificazione. Il pane psichico e spirituale è un
pane meno visibile, ma ugualmente utile al malato, anche se è più difficile da
somministrare.
59. Cari confratelli, guardiamoci dai
complessi di superiorità o di inferiorità indotti in noi dal colore della pelle
o dalla grandezza del portafoglio dei nostri assistiti. Guardiamoci dal pregiudizio
secondo il quale le necessità dell'uomo sono solamente di carattere economico-materiale-scientifico,
da affrontare in modo tecnicistico e basta.
Così non si rende giustizia
alla complessità e alla ricchezza dell'Uomo contemporaneo, né alla sostanza
della nostra vocazione; può anzi essere un pretesto per sottrarci alla
assunzione di nuovi, impegnativi atteggiamenti orientati non alle nostre
necessità (di potere, di prestigio, di rapida risposta del malato ai nostri
interventi materiali) ma a quelle della persona affidateci. A tale persona, più
libera, più emancipata, più attenta e più sola deve essere rivolta
un'attenzione diversa, se vogliamo realmente rispondere ai suoi bisogni e
rispettare i significati più profondi del suo stile di vita. Il nostro carisma,
che ha una ricchezza incredibile, non soffre e non soffrirà mai di mancanza di
utenti: può essere esercitato in ogni luogo abitato dall'uomo, il quale avrà
sempre nell'animo il desiderio di un alimento non solo biologico. Il nostro
Carisma ci invita dunque ad entrare nel tempio
dell'Uomo concreto di oggi. Ci avverte anche che dobbiamo mutare a seconda
del Tempo e dell'Uomo, senza garantirci che tale mutamento sia indolore. Forse
è più facile affrontare i rischi della savana o del deserto che annunciare il
nostro Carisma a gente istruita, con facoltà critiche notevoli, ma con bisogni
nuovi da soddisfare.
60. «Nell'ambiente
tecnicizzato e consumista della società moderna nella quale si scoprono ogni
giorno nuove forme di emarginazione e di sofferenza, il nostro apostolato
ospedaliero è pienamente attuale». Lo leggiamo nelle nostre Costituzioni.
Siamo noi, cari confratelli,
che rischiamo di non essere attuali se non fissiamo lo sguardo sulle
emarginazioni e sulle sofferenze dell'Uomo contemporaneo. Alleiamoci dunque con
quanti ‑anche collaboratori laici‑ vogliono crescere accanto a noi
e spesso camminano davanti a noi. Insieme risponderemo meglio alla nostra
chiamata, alla nuova cultura dell'Uomo,
del Tempo e della Vita, uno sforzo di ricerca e di sperimentazione che mai
forse il nostro Ordine ha dovuto così urgentemente affrontare.
Questa visione dell'Uomo può
sembrare troppo spirituale e poco tecnicistica, ma è sicuramente in linea con
le Costituzioni e con lo Spirito che le anima. Vi troviamo, infatti, la spinta
a realizzare il nostro apostolato da religiosi «nuovi», attuali, veri, a favore
dell'uomo al quale sempre dobbiamo guardare. «L'Himalaia è ovunque, il nostro vero maestro è ogni uomo e ogni donna
che soffre» (Gandhi).
IV. IL NOSTRO RUOLO NELL’ORDINE
61. Ciò che ho detto a proposito del
religioso singolo e della comunità, si può applicare anche al nostro Ordine. La
ricerca dei bisogni dell'uomo contemporaneo, la collocazione delle nostre
Opere, la capacità di progettare attività sempre più rispondenti alle esigenze
della società interessano il tessuto connettivo della istituzione. Anch'essa
deve cambiare per vivere nella attualità e nel futuro. E deve cambiare ‑come
sta in parte già avvenendo‑ in direzione di una sempre maggiore
colleganza tra case e Province, tra Province e Governo Centrale, tra
quest'ultimo e la periferia.
Unità nell'autonomia.
62. Spesso, a livello singolo e di
comunità, viviamo con un certo fastidio i richiami del Consiglio Generalizio
che, ormai da tempo, sollecitano ad una connessione sempre più stretta fra le
varie componenti della nostra Istituzione. La mancanza o l'insufficienza di
tale connessione, controproducente per noi e per i rapporti coi collaboratori
laici, non dipende dalla distanza geografica fra le singole case e la
Provincia, o tra questa e il Centro, ma piuttosto da una scarsa percezione
della complessità e della ricchezza della nostra stessa Istituzione.
Sembra strano come in
un'epoca in cui si viaggia con estrema facilità da un continente all'altro e si
dispone di informazioni in tempi molto rapidi, facciamo ancora fatica a
comportarci come un corpo unico, ben articolato nelle sue strutture.
Non possiamo, non dobbiamo
accogliere con sospetto le iniziative che mirano a favorire la nostra
colleganza. È anzi assurdo pensare di risolvere i nostri problemi di governo,
di vita interiore, di risposta ai bisogni del malato, di gestione economica e
di progettazione senza un forte spirito di comunanza sia a livello orizzontale
che verticale.
63. In questi ultimi anni, l'Ordine ha
prodotto uno sforzo notevole in tale direzione: ma ciò ancora non basta, non
siamo ancora ad un punto soddisfacente. Tutti noi dobbiamo sentirci obbligati a
pensare a soluzioni nuove al problema in un clima di maggiore fiducia reciproca
e di collaborazione da parte di tutti. La distanza e le differenze sociali e
culturali che ci caratterizzano non debbono diventare un alibi al nostro
disinteresse, come se il Centro non facesse parte dell'Ordine!
Cari confratelli, quando il
Priore Generale vi invita a vivere intensamente il vostro ruolo, quando insiste
sulla necessità della sintonia tra ognuno di voi e la Provincia, tra le singole
Province nonché fra voi e il Centro, non mira a sottrarvi autonomia, tempo,
risorse, bensì a realizzare quello scambio, fra l'altro previsto dalle Nuove
Costituzioni, che permette di crescere a tutti i livelli, di favorire decisioni
più sagge. L'autonomia non deve diventare autarchia, per nessun motivo; l'unità nella autonomia è quindi un
progetto che non può essere trascurato. Il compito più sgradevole per un
Superiore Generale è quello di dover obbligare uno dei suoi confratelli a fare
ciò che va fatto. È veramente doloroso constatare la pigrizia di certe Province
non solo di fronte alle indicazioni del Governo Centrale, ma anche di fronte a
risoluzioni prese in casa propria: a parole ci dichiariamo disponibili e poi
nei fatti, o non operiamo, oppure operiamo disuniti, quando non addirittura in
antagonismo. Al Priore Generale non reca disturbo la diversità delle opinioni:
una inestimabile ricchezza scaturisce dal considerare in modo diverso un
problema.
Quello che impoverisce è invece la
mancanza di dibattito, la falsa obbedienza, lo spirito di prevaricazione, la
paura di perdere autonomia.
64. Se vogliamo prepararci al 2000 in piena coerenza col nostro
carisma dell'Ospitalità, non possiamo rinunciare ad un maggiore avvicinamento,
umano e spirituale, fra di noi, fra Periferia e Centro, fra vicini e lontani.
Nessuno di noi può ritenersi superiore ad un altro, nessuno può sentirsi più a
posto di un altro. Nell'esercizio delle nostre funzioni tutti siamo importanti,
tutti siamo utili, indipendentemente dal ruolo odierno, dall'età, dalla
nazionalità di provenienza o da quella in cui operiamo.
E saremo ancora più utili,
più testimoni, più coscienza critica, più guida, più innovatori se le nostre
risorse, i nostri cuori, le nostre intelligenze, la nostra spiritualità
confluiranno verso progetti di vita condivisi, trasparenti, partecipati.
65. Il nostro Ordine deve caratterizzarsi per una visione
veramente comunitaria, per legami più franchi e schietti, per programmi ispirati da un genuino senso di appartenenza. Il mondo
si stupisce quando vede confratelli disuniti, bloccati nella reale comunione da
gelosie ed invidie infantili, perché si attende da noi, oltre che la
testimonianza autentica dell'amore cristiano, una attitudine al perdono, alla
tolleranza, alla alleanza fra di noi. Una delle grandi paure del nostro tempo, la paura atomica, è generata dalla
furbizia, dalla prepotenza, dalla convinzione di essere dalla parte giusta,
dalla discordia alimentata in continuazione e mai risolta di uno spirito di
dialogo. Noi dobbiamo trovare al nostro interno, tutti insieme, il modo per
testimoniare al Mondo la capacità di trovare l'intesa, di sopportare le
differenze, di mettere una pietra sopra le offese ricevute. Saper perdonare è
indispensabile per costruire l'unità, per dare spazio alla critica non
distruttiva, nel rispetto nell'amore reciproco. Come Vostro Priore Generale vi
chiedo di essere generosi, verso le inevitabili debolezze umane, per
contribuire alla costruzione di un Ordine più unito e più aperto.
Testimoni e guide morali per i nostri collaboratori.
66. Su questo aspetto della nostra vita
religiosa ho già detto molto in questi ultimi anni. Tuttavia preferisco
ripetermi, perché il nostro futuro dipenderà molto da quello che noi riusciremo
a fare nei confronti dei nostri sempre più numerosi collaboratori. Il nostro
ruolo ha subito e subirà ulteriori cambiamenti radicali: sta a noi anticiparli,
inventarli alla luce del nostro carisma e dei segni dei tempi.
Su un punto voglio essere
subito chiaro: chi entra nei
Fatebenefratelli non lo fa per una scelta professionale, ma per una vocazione
interiore. E anche se le nostre Opere prevedono, all'interno della scelta
spirituale, una collocazione professionale, per i nostri futuri religiosi la
destinazione manageriale è secondaria: essi
non sono entrati nell'Ordine per dirigere. Anche se la conoscenza dell'arte
direttiva va acquisita, la preparazione culturale, religiosa, professionale non
deve essere quella di chi occuperà posti di comando, perché abbiamo la fortuna
di avere collaboratori laici specializzati in questi compiti specifici, cui
hanno dedicato un investimento maggiore di tempo e di intelligenza. Qualche
religioso, in particolari luoghi e momenti, potrà anche assumere ruoli
direttivi-gestionali, ma questa non è la nostra meta finale, è una fase
transitoria e contingente. Abbiamo perso troppo tempo nel contrastare la
crescita e l'inserimento in funzioni direttive dei nostri collaboratori laici:
è giunto il momento di cambiare.
67. Sono convinto che S. Giovanni di
Dio, oggi non creerebbe nuovi Ospedali, né si metterebbe a dirigerli, ma
dedicherebbe il suo impegno a formare
uomini, a creare nel laicato menti e cuori in grado di assicurare alle
nostre Opere quel clima professionale, umano e gestionale che spesso fa
difetto. Lo ripeto: noi non diventiamo frati, priori, Provinciali, Generali per
essere dei managers, bensì per testimoniare,
per orientare, per formare i nostri collaboratori alla missione di assistere in
modo integrale il malato, il bisognoso. Già in alcune Province dell'Ordine
il ruolo di coordinatore della comunità è stato separato da quello di direttore
amministrativo dell'Ospedale. Su questa strada dobbiamo continuare, cambiando
innanzitutto il nostro animo. È certo più gratificante, in un'ottica puramente
umana, gestire il potere per il potere, che non dirigere un servizio in una
posizione di guida morale, lasciando
la guida tecnica a collaboratori
laici ‑che quasi sempre sanno fare meglio– opportunamente scelti e
permanentemente formati. Il grande
compito che ci attende nel prossimo futuro è proprio questo: essere
all'interno delle nostre, Opere guida morale, cioè coscienza vigile e, se
necessario, critica, affinché i nostri collaboratori si alleino a noi nel
servizio al malato. È una scelta decisiva non più rimandabile che ci costerà
notevole fatica, forse anche la perdita di prestigio in qualche caso, ma
permetterà alle nostre Opere di funzionare meglio anche sotto il profilo
gestionale. Più concretamente, il nostro collaboratore deve diventare
oggetto-soggetto delle nostre attenzioni, così come lo è il malato; dobbiamo
individuarne e capirne i bisogni e i disagi, magari provocati da noi. In tale
modo creeremo nell'Ospedale quella «ecclesia» che a parole tutti vogliamo, ma
che nella realtà temiamo.
68.
Il ruolo di guida morale non si improvvisa. Esso va progettato,
programmato ed attuato secondo criteri di onestà e in armonia con le
caratteristiche delle nostre Opere. Per comunicare la nostra umanità e la
nostra passione verso il malato ai collaboratori, dobbiamo possedere tale passione,
non quella per le poltrone di comando. Assumere un ruolo di guida comporta una
crisi di identità per molti di noi, abituati soprattutto al «fare» in prima
persona. Il tempo dei «fac-totum» è finito, occorre concentrarsi sui compiti
primari che la nostra scelta vocazionale ci impone. Da qui la necessità di uno studio e di una ricerca continui per
tradurre in indicazioni concrete gli ambiti di comportamento in cui esplicare
le funzioni di guida morale, di animazione
e di coscienza critica nei confronti
di noi stessi, dei collaboratori e del mondo. Questo ci consentirà di
valorizzare meglio il nostro rapporto con gli altri, di arrivare ad una
alleanza autentica, di eliminare ogni ombra di contrapposizione, di sospetto,
di sfiducia.
69. I nostri collaboratori sono
in grande maggioranza dei laici. Dal Vaticano II ad oggi è stato riscoperto e
valorizzato il singolare ruolo dei laici nella Chiesa e lo «specifico» che li
contraddistingue: la secolarità.
Dal documento preparatorio
al Sinodo dei Vescovi del 1987 sul tema: Identità
e missione dei laici nella Chiesa, proporrei qualche sottolineatura
particolarmente utile per un nostro corretto rapporto con i collaboratori.
Secondo il concilio Vaticano
II, il ruolo ecclesiale dei laici è inscindibilmente legato alla loro vocazione
battesimale e alla loro condizione secolare.
In quanto battezzati, essi
sono a pieno titolo fedeli incorporati a Cristo e alla Chiesa. E il loro
inserimento nelle realtà temporali e terrene, ossia la loro «secolarità», è un
dato teologico, è la modalità caratteristica secondo la quale essi vivono la
vocazione cristiana.
70. I laici posseggono un'unica ed
indivisa «identità», in quanto insieme sono membri della Chiesa e membri della
società. Dalla loro peculiare condizione, essi derivano coerentemente la loro
partecipazione alla missione salvifica della Chiesa; in quanto battezzati,
possono e devono vivere la loro responsabilità apostolica non solo nelle realtà
temporali e terrene, ma anche in quelle propriamente ecclesiali; in forza della
loro specifica condizione secolare, sono abilitati e impegnati come cristiani
non solo nell'ambito della chiesa, ma anche e propriamente in quello del mondo
e delle sue strutture e realtà.
Il Concilio Vaticano II lo
afferma chiaramente nella «Apostolicam Actuositatem»: «L'opera della Redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine
la salvezza degli uomini, abbraccia pure l'instaurazione di tutto l'ordine
temporale. Per cui la missione della chiesa non è soltanto portare il messaggio
di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche animare e perfezionare l'ordine
temporale con lo spirito evangelico. I laici dunque, svolgendo la missione
della chiesa, esercitano il loro apostolato nella chiesa e nel mondo, nell'ordine
spirituale e in quello temporale: questi ordini, sebbene siano distinti,
tuttavia nell'unico disegno divino sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare
in Cristo tutto il mondo per formare una creazione novella, in modo iniziale
sulla terra, in modo perfetto nell'ultimo giorno.
Nell'uno e nell'altro ordine laico, che è simultaneamente fedele e
cittadino, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana»
(AA, 5).
71. Nella missione salvifica che la
chiesa ha nei riguardi delle realtà temporali e terrene ‑missione che è
di tutta la chiesa e quindi anche dei pastori‑ i laici, in forza della
loro tipica secolarità, hanno un posto originale e insostituibile: «Ai laici tocca assumere la instaurazione
dell'ordine temporale come compito proprio e, in esso, guidati dalla luce del
Vangelo e dal pensiero della chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare
direttamente e in modo concreto; come cittadini cooperare con gli altri
cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità;
cercare dappertutto e in ogni cosa la giustizia del regno di Dio».
Paolo VI nell'esortazione apostolica «Evangelii
nuntiandi» scrive dei laici: «Il campo
proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato
della politica, della realtà sociale, dell'economia, così pure della cultura,
delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della
comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte
all'evangelizzazione, quali l'amore, la famiglia, l'educazione dei bambini e
degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici
penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed
esplicitamente impegnati in esse, competenti, nel promuoverle e consapevoli di
dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e
soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro
coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso
sconosciuta, si troveranno al servizio dell'edificazione del regno di Dio, e
quindi della salvezza in Gesù Cristo» (EN,70).
72. La presenza dei laici cristiani nel
mondo deve essere coraggiosa e profetica e
potrà assumere varie forme di testimonianza accompagnata sempre dal
discernimento evangelico. Infatti, come avvertono S. Giovanni e S. Paolo, il
mondo è una realtà in cui coesistono il bene e il male, e che richiede un'opera
di discernimento e di libera scelta.
Dev'essere allora
riconosciuta e promossa dentro e per il popolo di Dio la responsabilità di tutti e di ciascuno, quindi
anche quella dei fedeli laici.
Per definire in modo preciso
sia la legittimità, sia la determinazione concreta dei ministeri affidati ai
laici, Paolo VI invitava a rileggere la storia della Chiesa e ad essere attenti
alle necessità presenti: « Uno sguardo
alle origini della chiesa è molto illuminante e permette di usufruire di
un'antica esperienza in materia di ministeri, esperienza tanto più valida in
quanto ha permesso alla chiesa di consolidarsi, di crescere e di espandersi. Ma
questa attenzione alle fonti dev'essere completata da quella dovuta alle
necessità presenti nell'umanità e della chiesa. Dissetarsi a queste sorgenti
sempre ispiratrici, nulla sacrificare di questi valori e sapersi adattare alle
esigenze e ai bisogni attuali: queste sono le linee maestre che permetteranno
di ricercare con saggezza e di valorizzare i ministeri, di cui la chiesa ha
bisogno e che molti suoi membri saranno lieti di abbracciare per la maggior
vitalità della comunità ecclesiale» (EN, 73).
73. Ognuna di queste espressioni
meriterebbe un commento e una puntualizzazione, in relazione al nostro ruolo di
lavoro» di guida morale e di compagni di lavoro nell'edificare la
Chiesa e, in essa, il regno di Dio.
È subito evidente che i
laici, con i quali abbiamo un rapporto di collaborazione, non solo sono
professionalmente caratterizzati, ma portano con sé una valenza apostolica:
anch'essi sono, «edificatori della Chiesa», nel senso che la Chiesa cresce ogni
giorno anche grazie al nostro carisma di religiosi e grazie ai doni-ministeri
propri dei laici.
L'ideale traguardo per noi sarebbe vedere i nostri
40.000 collaboratori sintonizzati sulla nostra lunghezza d'onda, pur nella
diversità del compito professionale. I nostri Ospedali cambierebbero d'incanto:
non ci sarebbero più ruoli o poltrone da difendere a denti stretti, né
sarebbero più necessari certi controlli faticosi e pedanti, sostituiti
dall'autocontrollo. Dobbiamo anche riconoscere che, in molte Opere, i nostri
collaboratori sono molto più avanti di noi, e non solo professionalmente. Pertanto,
ad essi dobbiamo aprire il nostro cuore, prospettare le nostre difficoltà, i
nostri problemi e le nostre speranze. Con loro noi possiamo-dobbiamo
collegarci: molti di essi aspettano solo un cenno da parte nostra per darci una
mano, per aiutarci, per allearsi con noi e non per interesse personale o per
ottenere favori, ma perché si rendono conto che assieme si può fare molto di
più e meglio.
74. Impariamo dunque dai collaboratori
più vicini al nostro carisma, dialoghiamo con loro, scambiamo con essi
l'esperienza delle vicende professionali e personali: solo così insieme potremo
lavorare nell'esclusivo interesse dei malati. Nell'impegno di formazione a
questo nuovo ruolo di sostegno e di
guida, saranno di sostegno e lume il Consiglio Generalizio e i Provinciali; ma
lasciamoci anche ispirare e aiutare dai collaboratori laici «puri di cuore»,
interessati alla creazione dell'Hospitium pietatis di cui si è parlato.
Miei cari confratelli, so
che ad alcuni di voi sto chiedendo un grosso sacrificio. Non essendo dei
contemplativi, noi siamo in un certo senso costretti a dividerci nello stesso
giorno in ruoli attivi e in ruoli contemplativi. Se vogliamo non soltanto
rimanere negli ospedali, ma portare la luce del divino al malato, dobbiamo
preoccuparci di far accendere altre luci, quelle che i nostri collaboratori possiedono,
magari offuscate da un velo di pigrizia, di assuefazione, di fatalismo. Saper
togliere questi veli, con discrezione ma con fiducia nei collaboratori ed in
noi stessi, rientra in quel ruolo di guida morale che noi dobbiamo assumere per
restare in linea con la nostra scelta di vita.
Questione etica e ruolo di coscienza critica dei Fatebenefratelli
75. La fine del sec. XX ci sorprende con
una richiesta responsabilità di etica che proviene proprio dagli ambienti
culturali che sembravano ormai irrimediabilmente sganciati dal riferimento a
valori e norme. Si fa strada l'acuta consapevolezza che la tecnica non basta.
Proprio il successo di quest'ultima, mettendo in mano all'uomo potenzialità
prima impensate (divisione dell'atomo e intervento sulla struttura genetica
della cellula vivente), ha aperto il nuovo fronte di domanda.
La struttura intima della
richiesta contemporanea di etica è familiare al credente, perché ha un ritmo
identico a quello della morale, che deriva dalla Parola rivelata. Quest'ultima
converge strutturalmente sui due poli della fedeltà
e della responsabilità. Il
cristiano, nel suo agire morale, vuol essere essenzialmente fedele al Cristo,
in quanto nella sua persona riconosce il Figlio di Dio e il Fratello
universale, e responsabile nei confronti delle richieste concrete che la storia
rivolge alla sua vocazione. Anche l'etica, di cui si sente oggi una diffusa nostalgia,
nasce intorno alla fedeltà e alla responsabilità. Ci si domanda, infatti, a
quali condizioni l'uomo resta ancora uomo. Gli interrogativi antropologici sono
particolarmente forti nel campo bio-medico; nel prolungamento artificiale della
vita, nelle tecnologie applicate alla riproduzione, nella manipolazione
farmacologica del comportamento e nella prassi psichiatrica, nell'uso degli
individui per la ricerca e la sperimentazione, nelle manipolazioni genetiche.
Si avverte un senso del limite, oltre il quale si tradisce l'uomo.
76. Sul fronte della responsabilità, la
questione etica esige che ci si interroghi sulla qualità morale dell'azione,
riferendola non solo al modello dell'uomo a cui si vuol restare fedeli, ma
anche alla progettazione di un futuro. La prima
esigenza è ovviamente che, per quanto sta nell'uomo, ci sia futuro. Il filosofo
Hans Jonas ha riformulato l'imperativo kantiano per l'agire morale in questi
termini: «Agisci in modo tale che le
conseguenze del tuo agire siano componibili con la sopravvivenza di una vita
veramente umana sulla terra». Oggi siamo in grado di distruggere sia la
vita, sia la qualità umana della vita. La richiesta etica si identifica con
l'assunzione della propria responsabilità, rinunciando alle deleghe e al ruolo
di spettatori marginali del processo storico. Essere soggetto ed essere
protagonista sono due esigenze equivalenti.
La duplice esigenze di
fedeltà e di responsabilità rende la ricerca etica dell'uomo contemporaneo
affine, pur nella diversità, a quella di chi nel proprio agire morale si ispira
alla fede in Gesù di Nazareth.
77.
La fede non fornisce al
cristiano o al religioso un territorio privilegiato o protetto, al riparo dalle
aggressioni che tutti gli uomini subiscono per il fatto di vivere nel tempo e
nello spazio. Lo sperimentiamo nel campo della sanità nel quale si svolge in
modo privilegiato il nostro impegno evangelico e umanitario. Ci rallegriamo
certamente per la domanda di etica, che mette in crisi il modello di medicina
«scientifica», cioè positivistica, che si pretendeva dispensata dal compito di
porsi problemi di ordine antropologico ed etico. Soprattutto là dove è in gioco
la salute, come coagulo di valori che investono l'uomo nella sua totalità, il
semplice rispetto delle regole di procedimento non basta (si potrebbe, riprendere l'esempio fornito da Kant, del medico
e dell'avvelenatore: le prescrizioni per il medico, al fine di guarire il
paziente, e per l'avvelenatore, al fine di uccidere un uomo, sono le stesse...
Il saper come fare ‑to know how‑ non risponde alla domanda
dell'etica, che ha a che fare con il «regno dei fini».
78. Mentre i nostri contemporanei
rivalutano l'etica nell'ambito delle scienze della vita e della salute, ci
rendiamo conto che noi, in quanto credenti e religiosi, non siamo in grado di
fornire «la» risposta. Siamo fieramente consapevoli che la fede in Cristo a cui
aderiamo ci fornisce uno stimolo creativo per cercare, insieme agli altri
uomini, credenti e no, regole di condotta fedele e responsabile. Ma, proprio
per la trascendenza della fede, non abbiamo un modello storico concreto da proporre
(tanto meno da imporre).
Il passato può essersi
deposto su di noi come polvere, o magari anche come una crosta. Per il Vaticano
II, i credenti hanno una certa responsabilità per l'ateismo, causato da una
presentazione fallace della dottrina o dai difetti della propria vita
religiosa, morale e sociale (cfr. Gaudium et spes, 19). Qualcosa di analogo può
essersi verificato per quanto riguarda la «controtestimonianza» sul piano
dell'etica (mancanza di rispetto per la coscienza dell'altro,
strumentalizzazione delle cure del corpo in vista delle preoccupazioni
spirituali, preferenza data alla “legge del sabato" ‑regole morali‑
piuttosto che all'uomo concreto).
Una nuova situazione di
dialogo si è creata nel campo dell'etica: l'umanista è chiamato a parteciparvi
con la sua «fede» (che è quanto meno fede nell'uomo; fede che l'uomo è la
medicina per l'uomo ... ); il religioso è chiamato a parteciparvi con la «buona
volontà». Questa inversione dei ruoli tradizionalmente attribuiti all'uno e
all'altro è indice del rivoluzionamento avvenuto nell'etica, ma anche del
cammino all'interno della coscienza cristiana, soprattutto a seguito della
riflessione conciliare sulla teologia della Chiesa e della Storia.
79. Ho già accennato nelle parti
iniziali del documento che oltre ad
essere testimoni e guide morali, noi dobbiamo anche intervenire criticamente
nel mondo della Sanità. Non basta infatti lavorare duramente nei nostri
Ospedali, occorre dedicare tempo allo studio dei fenomeni legati al progresso
sanitario, per orientarli verso il massimo benessere della persona. Nel precedente documento sulla Umanizzazione ho
cercato di esprimere alcuni concetti al riguardo. Qui vorrei insistere
piuttosto sul fatto che oggi si tende ad avere una eccessiva fiducia nelle
risorse tecniche che (e non sempre per motivi umanitari) vengono messe a
disposizione del mondo sanitario. Ciò spiega anche la facilità con la quale da
parte di alcuni governi e parlamenti, sono state varate leggi in materia di
aborto, di eutanasia, di interventi manipolatori sulle strutture genetiche.
Tali tendenze vanno contrastate. Ma per farlo in maniera efficace occorre
essere al passo, conoscere a fondo i vari problemi, evitando sterili accuse o
posizioni astrattamente rigide di difesa.
Per svolgere seriamente un
ruolo non solo critico, ma anche propositivo, dobbiamo collegarci maggiormente
con i nostri collaboratori laici, col mondo della Chiesa, con la scienza.
Spesso, mancandoci tale consapevolezza, ci limitiamo a constatare, senza
intervenire, mentre dovremmo essere in grado di offrire al mondo sanitario idee
e progetti, aperti a quanto di positivo ci viene dalla scienza e dalla tecnica.
80. E soprattutto, quando vediamo
minacciata la sacralità dell'uomo, da qualsiasi parte venga la minaccia,
dobbiamo avere il coraggio umano e religioso di intervenire.
Non possiamo tacere di
fronte a ingiustizie, tradimenti, pigrizie, a soluzioni difformi da ciò che
umanità e fede ci suggeriscono. Ne va di mezzo la nostra vocazione, il nostro
impegno di alleati dell'umanità che soffre. Tacere in simili casi equivale ad
acconsentire. Ma ancora una volta per parlare, per
indicare strade nuove e giuste, dobbiamo possedere una preparazione adeguata,
essere all'altezza del compito. Purtroppo, non è sempre così. E torniamo
alla indispensabile collaborazione dei laici. Per raccogliere vittoriosamente
le sfide del tempo, ci serve un collegamento, uno scambio assiduo con esperti
delle varie materie: professionisti delle scienze mediche, biologiche, umane,
in grado di garantirci quella preparazione di cui oggi non si può fare a meno.
Come vostro Priore Generale
ha sempre, praticato questo scambio, ricevendone spesso critiche, quasi che il
Carisma dell'Ordine venisse contaminato o snaturato per il fatto stesso che
collaboratori laici, interni ed esterni all'Ordine, erano stati da me
interpellati. Sono più che mai convinto del contrario: il nostro carisma
sprigionerà tutta la sua forza allorché ci saremo aperti al carisma, umano e
scientifico, dei collaboratori laici.
81. Nessuno detiene tutto il sapere
sanitario, come non dei laici esiste quasi mai un approccio esclusivo verso il
malato. Sono perciò necessari i contributi di persone che operano nel mondo
della salute; molti di essi hanno un grande rispetto, a volte ammirazione per
il nostro Ordine. Esso non potrà che trarne vantaggio se, con determinazione,
noi saremo capaci di costruire rapporti di stima, di amicizia, di mutuo
sostegno con i nostri collaboratori e con quanti, all'esterno dell'Ordine,
possono offrirci il loro contributo. Ne guadagneranno in efficacia e in
incisività la nostra azione e il nostro ruolo di coscienza critica verso i
misfatti compiuti, magari in nome della scienza, contro il debole, il malato,
il bisognoso.
Il nostro ruolo di anticipatori
82. Oltre al compito di testimoni, di guide morali e di coscienza
critica, ci attende quello di anticipatori,
di innovatori. Primo grande anticipatore è stato il nostro Santo Fondatore,
e dopo di Lui quanti, nonostante l'indifferenza, il disprezzo e l'ostilità dei
più hanno saputo percorrere, nel campo del nostro Carisma, nuove strade. Altre
ne restano da scoprire, miei cari confratelli! Non è vero che tutto ormai sia
stato scoperto e realizzato: i bisogni materiali e spirituali dell'uomo sono minacciati
anche nelle nostre Opere, quando certi bisogni vengono ignorati, sottovalutati,
o addirittura manipolati a nostro uso.
Per convincersi che esistono
molte necessità non soddisfatte nel campo della assistenza al malato del nostro
tempo, basta scorrere l'elenco delle Associazioni di Volontari che pullulano in
tutto il mondo. Esse si occupano degli handicappati, dei cardiopatici, dei
drogati, degli alcolizzati, dei malati di cancro, degli spastici, dei
diabetici, dei laringectomizzati, degli psicotici, degli epilettici e così via.
È impressionante notare l'ingente numero di persone che si dedicano con
passione e in modo gratuito alla soddisfazione di bisogni materiali, sanitari,
psicologici che il nostro trionfante mondo della Sanità non riesce spesso
neppure a sfiorare.
83. Alle volte noi crediamo di avere
esaurito il nostro compito, convinti che non esistano più necessità da cogliere
e da soddisfare! Quanta supponenza e ingenuità in questo nostro atteggiamento!
Il mondo del volontariato, splendida realtà del nostro tempo che testimonia
quante persone generose operino al di fuori degli ordini religiosi, è lì a
dimostrarci che nella nostra società cosiddetta avanzata c'è tanto da fare per
noi nei prossimi anni al di là del nostro mondo ospedaliero. A fondare queste
associazioni di Volontariato sono di frequente persone che hanno vissuto la
malattia in prima persona o nei loro familiari; e dopo aver compreso che le
strutture sociali e sanitarie non sono in grado di sostenere patologie così
vistose e così poco gratificanti dal punto di vista del prestigio professionale,
hanno deciso di far da sé, realizzando una catena di solidarietà da far
arrossire di vergogna qualcuno di noi, quanto a spirito di dedizione, di
sacrificio, di gratuità. Miei cari confratelli, queste persone svolgono un
ruolo di primissimo ordine, sono
esemplari anche per noi e soprattutto stanno anticipando nella società del
benessere, a prezzo di enormi sforzi, le
nuove frontiere della salute.
84.
L'uomo del prossimo futuro non
potrà affrontare da solo le sfide e i disagi che comporterà, paradossalmente,
il progresso scientifico. Tale progresso ha allungato la durata della nostra
vita e ciò è molto positivo; ma non ha fatto molto per la qualità della vita
dell'anziano, del malato cronico, del disabile. Ed è facile prevedere che
aumenteranno sempre più le forme delle patologie croniche e il disagio dei
giovani che, di fronte alle seduzioni della società dei consumi e del benessere,
cercano vie traverse ‑droga, violenza, indifferenza‑ per affermarsi
o per dare in qualche modo un senso alla loro esistenza. Dunque noi dobbiamo
cercarlo, quest'uomo del nostro tempo, studiarlo, amarlo, sforzarci di
comprenderne i bisogni e i disagi, e soprattutto le motivazioni vitali. Noi che
abbiamo il compito di restituire la salute, non possiamo limitarci ed essere
dei semplici riparatori di corpi. Dobbiamo seguire quest'uomo che, lasciato
l'ospedale, si trova a volte senza lavoro, senza un sostegno con molti problemi
anche di ordine psichico. Dobbiamo avere per lui una autentica capacità di
comprensione, utilizzando non solo la cartella clinica, ma anche la scheda
invisibile del disagio emotivo del nostro paziente ospedalizzato. La paura che il malato avverte (di
morire, di perdere il lavoro, affetti e vita di relazione) è tremenda in molti
casi, e non va mai ignorata. Diversamente noi restituiamo al mondo un uomo
ferito e incompreso, e ciò offende Dio, l'uomo, la nostra fede, la carità. Il
nostro ruolo di anticipazione passa attraverso il riconoscimento di questi
bisogni: queste iniziative nuove e meritorie possono nascere, col risultato di
eliminare l'antica scissione fra anima e corpo, fra natura e cultura, fra
bisogno corporale e bisogno spirituale; una scissione per comodità operata da
noi, dalla medicina cosiddetta scientifica, dall'ospedale trasformato in
officina di riparazione, se, parando ciò che è, intimamente unito nella persona
umana.
85.
Nell'ospedale dunque si apre
un campo inedito al nostro futuro operare, che richiede il coinvolgimento di
molte persone, compreso lo stesso malato; un operare che coinvolge in misura
molto maggiore la nostra professionalità la nostra umanità. Ho già avuto
occasione di dirlo, ma lo ripeto ancora qui con una profonda convinzione che
vorrei partecipare a tutti voi: il malato
è la nostra Università, il nostro datore di lavoro, colui che ci guida nelle
nostre scelte professionali. Dobbiamo captarne e interpretarne i messaggi,
le proteste, i drammi, le esigenze. Ascoltando il malato, noi potremo
modificare radicalmente il nostro modo di essere uomini e religiosi, le nostre
strutture, i nostri organigrammi. Chi di noi fosse tentato di lasciare le
nostre Opere per testimoniare altrove la buona novella, è invitato a restare
anche solo mezz'ora al giorno accanto ad un malato: cambierà presto idea. Anche
l'ospedale è terra di missione, forse anche più che il Terzo Mondo, dove c'è
miseria ma ancora tanta umanità!
86.
Questo esercizio di ascoltare
un malato al giorno lo raccomando ad ognuno di voi. Dopo un po' di tempo
scoprirete che essere anticipatori, oggi, nelle nostre Opere significa saper ascoltare il malato e agire di conseguenza.
Dall'ascolto scaturiranno
progetti di studio, di ricerca, di sperimentazione, di cambiamento delle nostre
abitudini vecchie e improduttive.
All'inizio questo potrà
essere particolarmente faticoso per chi ha perduto la capacità di sintonizzarsi
con la lunghezza d'onda degli altri o ha eretto barriere protettive che
impediscono al malato di aprirsi a noi. Ma se avremo la forza di continuare, i
risultati non si faranno attendere. Intanto, prepariamoci a sconvolgere il
nostro Io interiore: se «sapremo ammalarci» col malato, il nostro Ordine non
solo si rinnoverà ma andrà ben oltre il 2000.
Il nostro rapporto con la Chiesa
87. La Chiesa, finalmente, ha affermato
in modo concreto il suo interesse verso le Opere ospedaliere dei religiosi,
attraverso l'istituzione della Commissione Pontificia per i problemi della
Sanità. È un riconoscimento importante che colloca la nostra vocazione e la
nostra azione al posto giusto. Per quanto ci riguarda, dobbiamo sentirci
orgogliosi per questo evento e insieme stimolati a condividere sempre più la
missione della Chiesa, cioè l'evangelizzazione che è sempre connessa con la
promozione umana.
88. Dobbiamo trarne motivi di impulso
per la crescita della nostra fede, per la pratica evangelica nella nostra vita
quotidiana, e per una più incisiva presenza nel mondo ecclesiale. Si tratta
cioè non solo di saper fare, ma anche di
far sapere alla Chiesa ciò che noi stiamo compiendo e intendiamo compiere
per il benessere dell'uomo e per la sua anima. Forse, talvolta ci accompagna ancora
un antico sentimento di inferiorità, un atteggiamento di modestia che tuttavia
non ha senso: noi siamo, a pieno titolo, testimoni e operatori concreti di quel
messaggio evangelico che la parabola del buon Samaritano riassume in modo cosi
significativo. La nostra ricerca, il nostro aggiornarci, i nostri progetti per
il futuro non possono rimanere nel solo ambito delle nostre case, ma debbono
arrivare, anche per ottenerne risposte e conferme, a tutti gli uomini di
Chiesa, clero e comunità ecclesiali.
89. La Chiesa ha bisogno di noi come noi
abbiamo bisogno di Lei, e ciò sarà sempre più vero nei prossimi anni. È
indispensabile comunicare all'interno della Chiesa. La nostra vocazione e il
carisma del nostro Ordine nella loro identità e nei loro programmi, debbono
essere ben presenti al mondo dei credenti, per diventare per essi uno stimolo e
che un modello, una strada per realizzare la comune vocazione battesimale alla
santità. Le beatificazioni di Fra Riccardo Pampuri (1981) e di Padre Benedetto
Menni (1984) ci confermano tutto questo: anche il nostro carisma fa parte del
patrimonio della Chiesa.
Contribuiamo dunque a creare
una vera Comunità ecclesiale, manifestando il significato profondo delle nostre
attività e facendoci conoscere per quello che siamo. I credenti, i giovani
soprattutto, devono capire che il nostro operare è meritevole non solo agli
occhi del mondo, ma anche e soprattutto agli occhi di Dio; questo può far sì
che uomini coraggiosi scelgano di unirsi a noi e al nostro Ordine per
continuare a testimoniare la sacralità dell'uomo bisognoso.
90.
In questi ultimi anni si è notato un confortante risveglio di
vocazioni; ciò deve impegnarci ancor più e responsabilizzarci verso una
maggiore e migliore divulgazione, nel mondo della Chiesa e dei credenti, della
nostra immagine e del nostro operare. Spalanchiamo le porte di casa nostra,
utilizzando i mezzi di comunicazione più congeniali, perché l'Ordine di S.
Giovanni di Dio mostri al mondo tutta la carica attuale e moderna di amore per
il prossimo.
V. LA COMPRENSIONE DELLE NUOVE CATEGORIE DI BISOGNOSI
Nello spirito delle nuove Costituzioni
91.
In questa parte cercherò di illustrare,
rifacendomi alla tradizione di S. Giovanni di Dio, ai segni del Tempo e alle
Nuove Costituzioni, le categorie dei nuovi bisognosi per una ricerca che
impegni le Comunità e le Province ad una costante revisione del nostro operato,
confrontato con l'evoluzione delle problematiche e delle situazioni
particolari, come ci invitano a fare le Nuovissime Costituzioni. Certo, non
possiamo esaurire le risposte nell'indicare la pur ardua strada della rottura
delle abitudini e del cambio dei ruoli professionali. Occorre proporre
l'alternativa di una autentica esperienza religiosa a salvaguardia dei valori
umani come modello e indirizzo delle nostre Opere. Ancora, è opportuno ampliare
il nostro concetto di bisognoso proiettandoci nel nostro tempo e nelle sue problematiche.
Già nei capitoli precedenti,
questo concetto è stato ridefinito per evitare i pericoli di appiattimento;
l'animo nel bisogno ‑si è detto‑ si trova dovunque, anche nell'uomo
all'apparenza potente e ricco di mezzi materiali.
L'umanità è offesa in varie
forme. Incredibilmente, come mostro invincibile, il male si trasforma con
sembianze diverse, si presenta nelle più svariate situazioni anche quando
sembra quasi debellato. Sta a noi individuare i nuovi bisogni del malato e, soprattutto, le nuove categorie di bisognosi.
92.
In certe regioni della terra
ancora troviamo, come ai tempi di S. Giovanni di Dio, malati e poveri inermi,
esposti crudamente alle intemperie, senza cura, per le vie della città; ma in
altre aree queste situazioni di dolore sono quasi del tutto scomparse: nei
paesi economicamente progrediti il male non si manifesta in modo così evidente;
è più subdolo, legato talora alle ideologie e alle mode culturali. V'è dunque
la necessità di un accorto giudizio e di un'attenta revisione di atteggiamenti
che non si risolvino in imitazione pura e semplice, ma siano costantemente
riferiti ai valori morali. È compito delle nostre comunità affrontare
seriamente questi problemi; le nostre Province devono individuare, nel loro
territorio, le nuove situazioni di bisogno e diversificare gli interventi, con
gli opportuni mezzi terapeutici. Nelle pagine successive toccheremo alcuni
argomenti fondamentali dell'esperienza terrena dell'uomo: in particolare la
vecchiaia e la morte, momenti dell'esistenza che oggi vanno assumendo valenze
diverse e sono stati ridefiniti culturalmente e socialmente. Cercheremo anche
di esemplificare maggiormente il tema delle «nuove categorie» di bisognosi,
intendendo con questo termine non solo il povero, il malato. Ma chiunque lotta
per riacquistare la sua identità di persona.
Il pianeta giovani
93. Una casistica quanto mai varia e
abbondante, che conferma ancora una volta una realtà: l'uomo bisognoso, senza
assistenza, esiste tuttora e si presenta, sotto vari aspetti, in tutte le
società contemporanee. Nella sua vasta gamma notiamo oggi la triste, sempre più
massiccia presenza dei giovani. Non possiamo restare indifferenti davanti ai
moltissimi tossicodipendenti, malati nell'anima, colpiti nell'età più
vulnerabile più ingenua. Di fronte ad essi diventa imperativa una nostra
risposta che raccolga la sfida del male, anche superando la normale struttura
dei nostri centri di cura organizzando presidi terapeutici di nuova concezione
in grado di affrontare e di contrastare con interventi efficaci, riducendola,
la progressività del fenomeno.
Se osserviamo più
attentamente, li potremo vedere, questi nuovi bisognosi, come S. Giovanni di
Dio li vedeva per le vie di Granada: sono oggi gli anziani, i
tossicodipendenti, gli uomini spiritualmente fragili.
San Giovanni di Dio diede
l'esempio, indicò la via da seguire quando ancora in pochi capivano: confortò i
poveri, gli emarginati di ogni specie, recò sollievo ai malati senza nessuna
distinzione. Il suo esempio, oggi come ieri, ovunque è denso di frutti: la sua
intuizione si è tradotta in realtà concreta, in una reale conquista civile.
Spetta a noi imitarlo,
ricchi del suo insegnamento, non solo percorrendo il cammino già noto, ma
soprattutto interpretandone la perenne novità: cercare il bisognoso dovunque si
trovi anche nei palazzi della grande città, confortarlo, aiutarlo, rispettarlo,
nel contesto dei nostri tempi. In questo senso intendiamo oggi il compito
fondamentale, nella continuità della nostra tradizione carismatica, sapendo discernere
tra gli aspetti contingenti e i valori immutabili.
94.
Ho parlato di continuità: ma
essa non risiede nel mantenimento di ruoli, bensì nell'esercitare veramente il
nostro carisma, nell'individuare i nuovi campi nei quali intervenire con rinnovato
slancio.
La diversità dei nostri
tempi, se da un lato ci consiglia di adeguarci alle nuove metodologie e all'uso
di quegli strumenti che l'intelligenza umana ha saputo offrire per riscattare
dalle miserie e dai mali della vita l'uomo, dall'altro soprattutto ci impone di
riscoprire nella sua freschezza il messaggio imperituro del Vangelo e di S.
Giovanni dì Dio, che ha saputo essere un interprete formidabile dei bisogni
della sua epoca. Continuità non conservazione dello «status quo». E ancora: una
continuità che non è conservazione dello «status quo», ma attenzione alla
sostanza oltre le mode effimere e i luoghi comuni, che si propone come valore
innovatore, realmente rivoluzionario in una società che gratifica la
massificazione, il consumo, il successo, l'efficienza produttivistica, la
potenza, trascurando l'uomo nella sua irriducibile individualità e solitudine,
quale si manifesta problematicamente nella dimensione della malattia.
95. Dobbiamo infine ricordare che
un'autentica missione di guida spirituale non si esaurisce nell'ambito delle
nostre strutture, ma si espande in un più vasto raggio alimentata dall'eco che
le nostre azioni suscitano, presentandosi. come modelli d'intervento
autenticamente umani, innovativi, espressione di una cultura «dell'uomo» e «per
l’uomo». Non diversamente a suo tempo San Giovanni di Dio, con il suo umile
magistero, richiamò l'attenzione del sovrano, il quale fu talmente convinto del
suo esempio che finanziò la costruzione di nuovi ospizi per i poveri in una
dimensione completamente diversa dal passato.
VI. LA RICERCA COME
MOMENTO
DI RINNOVAMENTO DELLA NOSTRA OSPITALITA’
L'esempio del Fondatore
96. Correva l'anno 1495. Da poco
Cristoforo Colombo aveva visitato alcune isole dei continente americano. Ancora
non si potevano prevedere le grandiose conseguenze culturali ed umane di
queste scoperte, anche perché Colombo non sapeva, quando intraprese il suo
viaggio, che non avrebbe raggiunto l'Oriente, ma avrebbe incontrato sulla sua
rotta, inaspettatamente, ignote terre, uno sconosciuto e grandioso continente.
Egli però desiderava allargare le conoscenze, provare nuove strade, da
sostituire o da affiancare a quelle vecchie. Colombo, partecipe di quello
spirito di ricerca e di avventura tanto frequente negli ingegni della civiltà umanistica,
i quali credevano fermamente nella centralità dell'uomo e intendevano
l'intelligenza come dono divino per conoscere, comprendere, governare la natura
circostante, si lasciò guidare da questo spirito di ricerca e affidandosi alla
protezione di Dio osò sfidare l'ignoto Oceano. Ma non fu un temerario
irresponsabile. Prima di affrontare i pericoli della navigazione in alto mare
aveva studiato, analizzato, discusso e sofferto il suo progetto.
97.
Ebbene, in quell'anno 1495
mentre l'Europa ancora stupiva per i meravigliosi racconti dei navigatori,
Giovanni Ciudade nasceva nella provincia di Evora, in Portogallo, in una
località non molto distante dal porto da cui aveva salpato Colombo. Giovanni,
spinto da inquietudine interiore e da sete di avventura, girò varie terre,
finché vedendo come venivano trattati i malati, soprattutto quelli mentali e i
poveri infermi abbandonati lungo i portici delle vie cittadine, intuì la via da
seguire e osò dedicarsi con tutte le sue forze alla costruzione di un ospizio
per aiutarli, ma con ben altri metodi e spirito rispetto a quelli comuni ai
suoi tempi.
E quando, uscendo dalla
Cattedrale di Granada, vide nella Calle Lucena un edificio adatto alle sue
esigenze, non esitò a seguire la voce del cuore attuando il piano a lungo
meditato, pur consapevole dei limitati mezzi di cui disponeva. Era l'anno 1537.
Egli in quel momento, non sapeva né forse pensava, che il suo gesto ‑di
carità, di dedizione alla causa dell'umanità dolente‑ un gesto che in,
quel momento poteva apparire temerario, isolato, economicamente insostenibile ‑
avrebbe spinto gli animi più generosi ad aiutarlo nelle fatiche quotidiane e a
condividere la sua passione di carità; egli nemmeno sapeva che il suo esempio
sarebbe stato ripreso e perpetuato da tanti generosi che avrebbero speso la
vita per mantenere vivo lo stesso spirito di carità cristiana.
98.
Giovanni di Dio osò pensare e
progettare. Inventò dal nulla ‑se ci riferiamo ai criteri di assistenza
ai malati in uso a quei tempi‑ il suo modello, suddividendo in modo
razionale i locali, distinguendo gruppi di malattie per reparti, diversificando
le terapie, trasformando anche e soprattutto spiritualmente l'approccio con gli
infermi. San Giovanni di Dio, però, non improvvisava senza logica: traduceva in
pratica la lezione del Vangelo, le sue
esperienze interiori di conversione, la sua meditazione religiosa, che gli
faceva intuire la rotta, illuminante da indicare agli altri. Così il nostro
Ordine ha portato quel modello di spiritualità in tanti paesi del mondo.
Viaggio di ricerca
99.
Se ho accostato Giovanni di
Dio a Colombo, è stato non per metterli a paragone, bensì per presentarli sotto
metafora. Le metafore spesso sono più utili del microscopio per vedere l'infinitamente
piccolo e più potenti del telescopio per osservare gli astri. Esse, più che i
ragionamenti razionali, possono stimolare la nostra fantasia e il nostro
spirito, aiutandoci a vedere in modo diverso ciò che magari è già di fronte a
noi, ma che noi non riusciamo a mettere a fuoco. Perciò, vorrei approfondire
alcuni concetti. Il viaggio di ricerca non
è un motivo nuovo per noi cristiani. È anzi una esigenza vitale. Non possiamo
continuare a percorrere strade già abusate, talora insoddisfacenti, tortuose;
strade che, se nel passato hanno avuto il pregio di intuizioni pionieristiche,
oggi appaiono univoche e limitanti.
L'inerzia è nemica della
fede. Cristo si è incarnato per rivelarci la via del Regno dei Cieli, sulla
quale ha voluto precederci col Suo esempio e la Sua morte redentrice. Possiamo
noi religiosi restare ancorati nei nostri tranquilli porti, timorosi di
intraprendere un nuovo viaggio verso l'uomo, quando la nostra stessa esistenza
è un viaggio, tormentato e faticoso, verso la salvezza? Il nostro dovere è di ricercare l'uomo, il bisognoso.
100. Non incontreremo sulla nostra rotta
continenti ignoti; San Giovanni di Dio ha già indicato alla coscienza
individuale e sociale l'universo dei poveri e la loro umanità offesa. Durante
la nostra navigazione scopriremo quasi certamente altre anime tormentate da
nuove forme di bisogno.
Oggi gli Stati civili
riconoscono il diritto insopprimibile di ogni individuo alla salute; la malattia
non è solo un malessere personale, ma un fatto sociale collettivo di cui lo
Stato si fa carico garantendo anche ai poveri la necessaria assistenza.
Quando San Giovanni di Dio
iniziò la sua impresa con la temerarietà dei giusti, le cose non andavano in
questo modo. Ma egli aveva assimilato bene la lezione evangelica, e da essa
prese l'avvio il progetto di riscatto del sofferente emarginato. Un progetto
che avrebbe trovato, nei secoli, solidale tutta la Chiesa.
101.
Il nostro Santo Padre, Giovanni Paolo II, nel discorso di chiusura del Sinodo,
ha ricordato infatti che la Chiesa desidera con tutte le sue forze servire l'umanità
affinché la vita dell'uomo sia sempre più degna, e desidera anche difendere i
diritti inalienabili della persona, fedele allo Spirito Santo generatore di
vita e all'insegnamento di Gesù Cristo, che si è sacrificato per noi, per
persuaderci a cercare nel bene, nell'amore, la vera vita, rivoluzionando la
gerarchia dei valori.
Dobbiamo raccogliere questo
pressante invito ‑ lavorare al servizio dell'umanità, lottando per
affermare il rispetto dell'uomo e rifiutando e rivoluzionando, dove possibile
certi modelli culturali che non tengono conto dell'autentica dignità umana.
102. Ogni cristiano, ogni religioso dove essere
come un pioniere in cammino verso la Terra Promessa. Dobbiamo dunque
comportarci come intrepidi naviganti che credono sia possibile giungere alla
comunicazione con le anime, e per questo non si stancano di indagare l'animo
umano, di rivelarne la grandezza, di conoscerne i bisogni per portargli
sollievo. Queste sono le nostre mete.
Nella prima parte del
documento sono stati individuati alcuni particolari ruoli del nostro ministero.
In primo luogo quello di testimoni, poi quelli
di guida morale, e di coscienza critica, infine il ruolo di anticipatori. Successivamente, ho
richiamato alla vostra attenzione la necessità di comprendere nuove categorie
di bisognosi, mentre nell'appendice indicherò alcune di tali categorie, che
fanno parte di quell'Oceano che è l'«uomo che soffre». Ma per dare chiarezza di
motivazioni ed efficacia concreta ai nostri interventi, è necessario che ci
incamminiamo verso una autentica ricerca religiosa,
professionale, umana, individuale e collettiva. Proprio questo spirito di ricerca, da realizzare e da
potenziare in tutte le comunità, mi sono sforzato di infondervi e di alimentare
attraverso questo documento, aiutato soprattutto dalle Nuove Costituzioni.
Al passo coi tempi
103. Mi sia concesso insistere
sull'argomento, non rimaniamo insensibili ai progressi della conoscenza medica;
e per quanto siano esemplari l'impegno e lo spirito di solidarietà dei nostri
confratelli, corriamo il rischio di trovarci impreparati culturalmente,
professionalmente e spiritualmente di fronte alle domande dell'Uomo e della
Chiesa dal nostro tempo, alle istanze della tecnologia avanzata che toccano da
vicino la possibilità di sopravvivenza e di sviluppo del nostro Ordine.
104.
Noi siamo chiamati a lavorare
su questa terra per la salute-salvezza nostra e del malato. La nostra fede e la
nostra coscienza di religiosi devono spingerci ad intervenire in tutte quelle
situazioni in cui, a causa di pigrizie, abitudini, incoltura e scarsi
collegamenti, la salute e la salvezza del malato, (e quindi anche nostra) sono
in pericolo.
Tutto questo ci obbliga ad
ascoltare, a capire, a cercare di imparare, a coordinare, a prevenire, a
riflettere in ultima analisi, sempre aperti e pronti a mettere in discussione i
nostri atteggiamenti. Senza lasciarci prendere dallo scoramento se ‑ad
esempio‑ in alcune Province i confratelli sono in diminuzione o se i
collaboratori sono più preparati di noi. Dalla nostra crisi possiamo trarre un
frutto più grande perché i nostri sforzi, invece di esaurirsi in interventi
particolari e limitati avranno un respiro maggiore inserendosi in un programma
di lavoro ben più ampio e costruttivo.
105. Occorrono sicuramente energia e sacrificio, ma noi, cari
confratelli, abbiamo scelto proprio di servire Dio e l'uomo, con pazienza e
devozione, allorché abbiamo deciso di entrare nell'Ordine.
La chiusa dimensione
specialistica non è per noi, anche se potrebbe apparire gratificante a prima vista
e immediatamente valida e operante; finirebbe per chiuderci in una gabbia,
impedendoci la visione dei fatti nella loro dimensione spirituale e universale,
inaridendoci con una tecnica spinta all'esasperazione. Del resto, se
decidessimo di seguire questa strada, disperderemmo energie, ruberemmo tempo
prezioso al nostro lavoro perdendoci nel labirinto di conoscenze tecniche
particolarmente sofisticate. Noi non possiamo limitarci al ruolo di tecnici
addetti a macchine e a monitors, non è per questo che abbiamo emesso i voti. In
questi ruoli ‑lo ripeto ancora una volta‑ meglio di noi e con
maggiore efficacia possono agire i nostri collaboratori laici. Non priviamoci
dunque di tempo prezioso da dedicare alla salvezza delle anime e alla salute
dell'uomo. Il nostro bagaglio di conoscenze va orientato in un ambito molto più
vasto, per finalizzare la nostra azione ad un disegno complessivo in cui
prevalga una cultura a dimensione umana, volta alla salvezza spirituale, al
recupero dell'armonia psicofisica e del benessere, come testimonianza attiva e
militante e la carità, dell'amore, del servizio umile e disinteressato verso il
bisognoso.
106.
In tal modo, aperti al mondo,
curiosi intellettualmente, attenti alle trasformazioni, forti nella fede e
generosi nell'impegno, come singoli religiosi e come comunità continueremo il
carisma della nostra tradizione adeguando la nostra azione ai nuovi bisogni umani.
APPENDICE
Introduzione
Nella parte che segue ho
pensato di scendere al concreto, individuando tre categorie di bisognosi del
nostro tempo tra i quali noi possiamo mettere alla prova la nostra «stoffa» di
religiosi nei ruoli di testimoni, di guide morali, di coscienza critica e di
anticipatori. Avrei potuto ampliare il ventaglio delle situazioni, ma ho
tralasciato di farlo mantenendolo aperto ad ogni suggerimento o integrazione,
al contributo di esperienze nuove e singolari che ciascuna Provincia o singola
Comunità può già avere affrontato in questa stessa ottica. Ciò che mi
interessava era comunicarvi lo spirito che ha dettato queste pagine, e che si
rifà alle nuove Costituzioni, cioè il testo sul quale ho lungamente riflettuto
e pregato prima di mettermi al lavoro.
L'anziano, il moribondo, il
drogato: tre gruppi di persone umane che più di altre risentono della emarginazione,
della solitudine e dell'abbandono. In un mondo dove conta soltanto produrre e
consumare, chi non è giovane e sano perde totalmente di rilievo sociale. Ecco
dunque un campo in cui ‑nell'indifferenza e nell'abbandono di cui spesso
sono responsabili anche le istante politiche ‑ il messaggio e la
testimonianza dei moderni samaritani (e noi siamo e vogliamo essere tra quelli,
come autentici seguaci di Cristo e di Giovanni di Dio) possono veramente
«salvare» l'uomo e ridargli serenità e fiducia. Sono le nuove frontiere del
nostro apostolato, i «segni dei tempi» che devono guidare l'Ordine ospedaliero
nella costruzione del proprio futuro stabile.
I) LA VECCHIAIA
Un fenomeno in esplosione
Una delle realtà nuove del nostro tempo è rappresentata dall'invecchiamento
della popolazione, tanto più accentuato quanto più l'uomo partecipa agli enormi
benefici del progresso economico, sociale, culturale, sanitario. Il fenomeno
non si manifesta solo nell'aumento della durata media della vita, ma anche
nella percentuale assoluta di anziani nella società: la contrazione delle
nascite, modificando i rapporti, determina infatti un aumento relativo degli anziani.
Nel recente convegno di Milano Medicina sono state ipotizzate
alcune cifre per il Duemila: in Italia ‑ad esempio‑ avremo 131
anziani ogni 100 bambini. Ci troviamo dunque di fronte ad una vera esplosione
demografica della «terza età» se si pensa che all'inizio del secolo in Italia
vi erano appena 28 ultrasessantenni ogni 100 bambini. La situazione si ripresenta
identica in tutti gli Stati tecnologicamente sviluppati.
La scienza, che si era proposta il grande compito di aiutare
l'umanità a vivere di più, ora si è prefissa il traguardo di vivere meglio la
stagione della vecchiaia.
Il problema dell'anziano, dunque, di fronte a queste cifre,
assume nella società attuale, un'evidenza anche quantitativa. Finora le società
occidentali si erano interrogate soprattutto sul peso economico di milioni di
pensionati, il che ha provocato ripensamenti e dubbi sul concetto di stato assistenziale.
Sembra ora che, all'improvviso, i progressi scientifici e l’«esplosione
demografica» abbiano suscitato una maggiore attenzione verso questo problema,
cogliendo quasi di sorpresa gli interessati e i responsabili.
La cultura del giovanilismo
La cultura del nostro tempo
non è molto preparata per affrontare questo fenomeno. Infatti, se osserviamo i
comportamenti degli stati nazionali, noi riscontriamo un investimento elevato
in asili, scuole, università, cioè rivolto ai giovani, mentre si verifica un
brusco calo di attenzione pubblica verso la stessa persona quanto arriva ad una
certa età. Ciò, naturalmente, è vero entro certi limiti, in quanto i politici
dei nostri paesi si sono dati da fare per organizzare qualcosa per gli anziani,
soprattutto per quelli che si ritrovano emarginati nella solitudine. Questo
qualcosa si muove secondo due direzioni: assistendo i più poveri tra essi in
centri specializzati, che spesso sono l'anticamera del cimitero, cercando di
coinvolgerli in qualche attività che li mantenga in contatto coi giovani.
Tuttavia non possiamo
ignorare, con occhio critico verso i modelli culturali della nostra epoca, che
molto spesso questi interventi sono parziali o risentono della mentalità
dominante, alla cosiddetta «Young culture», centrata sul giovanilismo,
sull'efficienza fisica e sull'edonismo, a spese di altri valori.
Il modello paradigmatico è
costituito dall'individuo giovane: e gioventù significa bellezza, salute,
vitalità, efficienza. Queste sembrano essere le categorie per giudicare la vita
degna o non degna dell'uomo, i parametri della vivibilità dell'esistenza.
L'uomo giovane, quindi, nel pieno della possibilità psicofisica e produttiva
rappresenta l'uomo «tout court».
Questo modello spiega tante
cose. Ad esempio quella moda per cui tanti volonterosi animatori sociali
inducono molti ultrassessantenni a sgambettare in feste da ballo o a praticare
jogging, e footing con la sicurezza di compiere un'opera apprezzabile e nobile.
Ma questa è solo una parziale risposta e per giunta con aspetti insidiosi, in
quanto l'anziano posto in questa dimensione è spinto a rifiutare la sua età e
recuperare la giovanilità perduta nella speranza di essere accettato.
La società può anche accettare il vecchio, ma a patto che faccia il giovane,
che
scimmiotti un'età che non ha più. Quale tristezza di fronte a queste
situazioni, che costituiscono una barbarie bella e buona, non giustificabile
nemmeno da un presunto amore per la gioventù. È una barbarie perché si limita
ancora una volta la vita nella sua interezza, la si scinde in epoche,
riducendola, forzando chi non ha più la «fortuna» di essere giovane ad assumere
atteggiamenti incoerenti con la propria età psico-fisica, che rendono
incongruente e perciò ridicola la persona stessa.
Questo tipo di atteggiamento
può generare processi patologici di rifiuto della propria età, del proprio
aspetto e del proprio ruolo, nonché di sofferenza psichica, poiché si spezza
l'unità corpo-spirito il tempo cronologico e il tempo psicofisico del nostro Io
più profondo. Questo processo collettivo di rimozione culturale della vecchiaia
richiama quello analogo della morte.
Sulla donna, sull'uomo, sul
bambino, sull'adolescente esiste un'abbondante letteratura, sulla vecchiaia no.
Siamo di fronte ad un altro tabù della società civile odierna, secondo cui la
vecchiaia coincide col preludio della morte, con l'età grigia, con l'affanno e
il dolore, il crollo fisico, l'emancipazione dalle gioie della vita. Quanti
giovani dicono superficialmente che non desiderano diventare vecchi. E questo
perché si immaginano la vecchiaia come paralisi fisica, sofferenza, angosce,
limiti, arteriosclerosi, artrosi ecc.
Il linguaggio riflette
queste resistenze psichiche: «i meno giovani», la «terza età», la «quarta età»,
sono termini che quasi sempre sostituiscono «vecchio», «vecchiaia», «anziani».
Come se questo nominalismo come se le parole potessero cambiare la sostanza
delle cose. «La vecchiaia non esiste, è solo psichica» esclamano gli assertori
del giovanilismo.
La società, dunque di fronte
a questo problema si comporta da ipocrita. Gli economisti discutono sul peso
sociale dei «non attivi» (ancora il nominalismo, con connotazioni
economico-produttive). Ma ci domandiamo: e gli «attivi», mantenendo i «non
attivi» non assicurano anche per sé una «terza età» migliore?
Enfatizzare l'età giovanile
può anche essere operazione facile quando giovani non si è più: tale enfasi
nasconde la volontà di non ricordare che anche la gioventù ha i suoi problemi.
La visione dell'età dell'oro contrapposta all'età grigia manifesta pienamente
la sua infedeltà alla realtà, i suoi limiti. L'uomo, ancora una volta,
angosciato dalla morte, per la mancanza di una cultura globale della vita, e
quindi della morte, cerca di superarla, di esorcizzarla, di allontanarla,
facendo ricorso alla favola della meravigliosa età giovanile, in una sorta di
collettiva e fantastica evasione dalla realtà, ricreando il mito di una moderna
Arcadia. Questa dimensione culturale carica di ingiuste ed esasperate attese,
che inevitabilmente conducono a drammatiche delusioni la vita dei giovani,
rendendola ancora più ingiusta verso l'anziano, perché lo mortifica, non gli
permette di invecchiare.
Dimensione
della vecchiaia
Come tutte le situazioni
umane, la vecchiaia ha una dimensione esistenziale: modifica il rapporto
dell'individuo col tempo, e quindi il rapporto col suo mondo e con la propria
storia: ma se questa situazione viene colpevolizzata, negata socialmente,
accade che il rapporto si spezzi producendo effetti perversi fino alla
negazione di sé. In altre parole: se la vecchiaia biologica è un fattore che
non può essere condizionato, né dalla storia né dalla società, il destino e la
situazione individuale del vecchio sono invece un fatto sociale e storico,
quindi determinato dalla cultura umana. E ancora, i dati fisiologici e
psicologici si possono influenzare reciprocamente determinando fenomeni
psicosomatici.
L'anziano è oggetto di
manipolazione sociale anche con la suggestione pubblicitaria, che mantenendolo
all'interno del circuito produzione-consumo, lo modella come consumatore di
illusioni giovanilistiche ed estetiche.
Qualche studioso ha voluto
assimilare la vecchiaia ad una malattia e, orre individuare il bisogno del
malato, risalire alle partendo da questa ipotesi, ha creato una geriatria
fisico-ricostruttiva. Ma ecco, sempre e comunque ci troviamo davanti ad un
errore: vecchiaia non è malattia, cioè
fatto accidentale, ma norma
dell'evoluzione fisica, così come ricostruzione del fisico richiama
l'illusione della gioventù. Certo, il miglioramento del tono fisico
dell'anziano agisce positivamente sulla sua psiche, crea un benessere maggiore
e ritarda la comparsa di alcuni processi degenerativi ossei. Ma ciò a cui
dobbiamo opporci non è la terapia fisica, sono i modelli sottostanti di tipo
estetico, non morale.
È stato Ippocrate il primo a
paragonare le tappe della vita umana al susseguirsi delle stagioni della
natura.
Questo
riferimento ci fa meglio comprendere il tipo di negazione e di rimozione
operata dal modello culturale che abbiamo analizzato: è come se un albero
dovesse far finta di non entrare nella spoliazione invernale, coprendosi di
finte foglie, prese a prestito… Ci si illude di inibire il «processo di
crescita», di evoluzione biologica, in modo artificioso e indecoroso, mettendo
in moto un meccanismo di rifiuto che finisce col produrre maggior sofferenze e
mutilazioni, strutturando una personalità patologia, in crisi di valori, e
senza coscienza di sé.
Una volta il vecchio era saggio. Conosceva cose che spesso
risultavano indispensabili per la vita e per la sopravvivenza; deteneva un
sapere che veniva tramandato alle successive generazioni. In Africa, ancora
oggi, quando muore un vecchio, i sopravvissuti esclamano: «Oggi un libro si è
chiuso!». Un tempo il vecchio godeva di grande rispetto e c'era addirittura
chi, per questo, come nota lo storico P. Laslett, «esagerava la propria età».
Ma era un contesto sociale diverso. Come nota lo storico
Cipolla. «Una società industriale è caratterizzata dal continuo e rapido progresso
tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli
uomini non sfuggono alla regola. L'agricoltore poteva vivere beneficiando di
poche nozioni apprese nell'adolescenza.
L'uomo dell'era industriale è sottoposto ad un continuo sforzo
di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella
società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto».
Si capisce allora perché oggi molti vecchi finiscono la vita
senza ruolo e paradossalmente, come se si fosse realizzata una nemesi, vi è la
vendetta dell'antico sul nuovo: perde il ruolo nella società chi ha goduto del
privilegio di produrre e di vivere nella società industriale, mentre chi, come
gli artigiani e gli agricoltori, ha vissuto in attività autonome, conserva a
vari livelli (mentale, familiare e sociale) una migliore capacità di avere un
ruolo anche nella vecchiaia.
È un altro fatto paradossale della nostra società tecnologica:
«peso» sociale e percentuale più alta di anziani creano contraddizioni, a cui
si aggiunge l'incertezza sull'identità e sui ruoli.
Vi sembra, cari confratelli che in questa tanto decantata età
tecnologica non sia tutto oro ciò che riluce? Che abbia ragione non chi sa
utilizzare i ritrovati tecnici, ma chi comprende la cultura dell'uomo
integrale, per l'intero arco dell'umana esistenza, con i suoi bisogni
materiali, culturali e spirituali?
Cultura umanistica e fede religiosa
La cultura dominante permette l'emargínazione perché è una
cultura incompleta, parziale, riduttiva. Per uscire indenni dalla trappola del
mito tecnologico ci sono di aiuto una cultura umanistica e la fede religiosa.
La prima, con l'appoggio di tutte le scienze, denuncia quanto sia illusorio
pensare di poter salvare l'universo uomo. La seconda. la fede in Dio, ci
richiama alla dignità dell'uomo, alla sua sacralità in ogni tempo, in ogni
luogo. Sacralità che viene sancita dalla speranza della resurrezione; infatti
«Il Risorto ha liberato l'uomo dalle tre forze antidivine: il peccato, la
legge, la morte... credere nella Resurrezione di Cristo è affermazione della
vita sulla morte, dello Spirito sulla legge, della Grazia che è verità,
bellezza, amore, sul peccato che è chiusura, immeschinimento, bruttura... viviamo
senza paura» (Vannucci).
La cultura umanista e la
fede assegnano all'uomo un ruolo in ogni momento, ritenendolo capace di essere
se stesso: in ogni epoca o tappa dell'esistenza, anche dopo la morte fisica.
Come possiamo noi, religiosi ospedalieri, rispondere in modo concreto a questi
problemi, dopo aver indagato le ragioni di questa nuova forma di emarginazione?
Certamente non possiamo
pensare di cambiare integralmente la società. La risposta, molto semplice, è
già implicita nelle precedenti considerazioni. La vecchiaia propone tre aspetti
distinti e collegati tra loro: aspetti biologici, psicologici e sociali.
In campo biologico vi sono
interessanti interventi da operare: dalla ginnastica educativa, preventiva e
rieducativa, alla cura specialistica delle malattie e dei fenomeni tipici
dell'età; interventi che richiedono collaborazione e aiuto di esperti
qualificati in vari settori. Tuttavia, sappiamo che nemmeno essi sono in grado
di ridare completamente la salute, perché non esiste la possibilità di alterare
l'evento biologico e quindi il destino dell'individuo verso la vecchiaia.
Un campo d'azione certo meno
spettacolare rispetto al conclamato trionfo della medicina o dei ritrovati
terapeutici, ma che permette una cura più efficace dell'anziano, è quello
psicologico e sociale, centrato sulla disassuefazione ai modelli introiettati
dalla cultura dominante.
In altre parole noi tutti
insieme, Fatebenefratelli e laici, dobbiamo cercare risposte adeguate, soluzioni
idonee a ridare un senso alla vecchiaia, un'identità e un ruolo all'anziano.
Se questo è il fine a cui
mirare, dobbiamo concentrare l'attenzione sui modi e sui mezzi per raggiungerlo.
Innanzitutto, occcause e trovare le terapie adeguate, che
garantiscano un'assistenza integrale, secondo il sistema di valori ispirato al
Cristianesimo. Non possiamo permettere che i nostri centri diventino parcheggi
per anziani disadattati.
Essere
all'altezza del compito
Per essere all'altezza del
compito, necessitano due elementi fondamentali.
In primo luogo il
Fatebenefratello deve assimilare una
cultura della vita, riaffermare in modo deciso la propria visione religiosa
dell'esistenza. In secondo luogo, deve preoccuparsi di ascoltare pazientemente
l'anziano, di entrare in contatto con lui, giorno per giorno, senza
preconcetti.
Lo scambio reciproco di informazioni,
favorito da questa quotidiana esperienza con il malato, renderà più costruttivo
il rapporto con gli esperti laici delle varie discipline. Non dobbiamo inoltre
temere di affrontare nuove conoscenze, anche mediante la lettura, per poter
meglio comprendere delicati e complessi meccanismi psicologici dell'anziano.
Liberiamoci, a questo
proposito, del complesso dell'umile Fatebenefratello che si cimenta in un
impari, scontro con la cultura contemporanea. Un nostro religioso armato di carità, di fede, di umiltà, svolge un
prezioso servizio di amore, lasciandosi guidare dal cuore e dalla sua cultura
religiosa. In questo viaggio verso nuove terre, è vero, egli non conosce con
certezza le acque in cui gli toccherà navigare, né gli ostacoli che incontrerà.
Tuttavia dispone delle strumentazioni per non perdere l'orientamento. Sa che,
se non può combattere la vecchiaia nel suo processo fisico, biologico, egli può
agire efficacemente sul terreno psichico, mediante quelle piccole attenzioni al
soggetto che lo mettono a suo agio, favorendo in lui la serena accettazione del
suo stato. Dipende molto da noi se i nostri ospiti vivranno la loro condizione
in pace con se stessi e con gli altri, e non come una larvata prigionia.
Un autentico benessere, che può perfino far passare in secondo piano i
frequenti disturbi fisici della vecchiaia, passa
attraverso il recupero del senso della propria età.
Negli anziani il calo del
morale può provocare un brusco declino. È anche questo un fenomeno
psico-somatico.
Nonostante la maturità
raggiunta, la psiche degli anziani si rivela molto fragile; può bastare una
delusione, un cambiamento di abitudini, un abbassamento di certe funzioni per
provocare un trauma che origina il declino fisico. A volte, e conviene
ricordarsene sempre, il trauma ha origine proprio dal passaggio alla vita in
ospedale, nell'ospizio, nella casa di cura: sono momenti vissuti spesso dagli anziani
come l'effettivo chiudersi della loro vitalità, come la scomparsa della
dimensione sociale, cioè come l'inizio del declino definitivo, preludio di
imminente morte. Queste cadute di morale creano una indifferenza e una apatia
che vanno contrastate.
Se noi, esseri mortali, non
possiamo alterare la fisiologia umana, né illuderci che esistano ricette
miracolistiche, possiamo però ricorrere alle discipline psicologiche per
interpretare le debolezze e le richieste degli anziani, per dare loro risposte
soddisfacenti e stimolanti
Non si tratta certo di
ridonare loro gli anni perduti, bensì di collaborare per una migliore qualità della
loro vita, rispettandone il «background» socio-culturale, tenendo presente però
che la sindrome che abbiamo descritta colpisce indifferentemente le persone
agiate e quelle povere. Piuttosto, se una distinzione può avere un valore, è
quella legata al sesso dell'anziano.
La donna infatti, finché sta
in famiglia, mantiene certi suoi ruoli legati alla precedente condizione di
madre, mantiene il rapporto affettivo con i figli e nipoti, si rende utile e
sovente è responsabile dell'andamento domestico.
Per l'uomo, invece, l'età
della pensione è un gravissimo trauma: egli perde il ruolo di supporto attivo
della famiglia senza acquisire quello tipico del passato, allorché il vecchio
era riconosciuto come il saggio, il patriarca, la guida autorevole. Egli si sente
inutile, colui che non produce, la bocca in più da sfamare: siamo di fronte ad
un fenomeno culturale e sociale,e su questo piano dobbiamo intervenire.
A questi fattori di
carattere psicologico si aggiungono gli effetti delle malattie croniche più
diffuse: ipertensione, diabete, artrite e altre. E qui sono chiamate in causa
le necessarie terapie suggerite dalla geriatria. Ma il grosso problema sul
quale noi ci dobbiamo concentrare con attenzione è quello psicologico.
Restituire un
ruolo all'anziano
Il compito del
Fatebenefratelli è quello di restituire il ruolo al vecchio. Occorre esserne
consapevoli innanzitutto in prima persona, poiché molti di noi sono anziani o sul punto di diventarlo. E allora
dobbiamo chiederci: come viviamo la
nostra terza stagione? Sappiamo invecchiare?
Dalla auscultazione di noi
stessi dobbiamo trarre conseguenze importanti e conoscenze da trasmettere.
All'anziano dobbiamo partecipare le nostre consapevolezze, in modo che impari
ad accettare il suo stato. Ciò può dargli serenità e fiducia: spesso l'anziano
ha paura di non essere amato e ascoltato; teme perfino che si scambino certe
sue idee come degenerazioni psichiche dovute all'invecchiamento. Può subentrare
in lui la tristezza di vedere che nella propria vita non c'è più spazio per i
progetti e per i sogni, ma solo per i rimpianti, per il fardello dei ricordi
che pesa come un macigno nella sua progressiva lontananza e mitizzazione. Sta a
noi convincerlo che la vecchiaia è anche
la stagione nella quale vengono esaltati valori come l'amicizia, l'amore e la
saggezza.
L'anziano ha molto tempo
libero, non essendo più gravato dalle occupazioni della routine produttiva;
egli può dunque dare molto, proprio nel
momento in cui crede di valere poco. L'età della vecchiaia potrebbe veramente essere
l'età dei valori umani, più che dei bisogni materiali. Ma a condizione che
lo spirito si mantenga giovane, accettando la vita per quella che è. Senza
fughe all'indietro o in avanti.
Diceva a questo proposito Papa Giovanni XXIII: «A volte vedo affacciarsi la tentazione di
considerarmi vecchio. Bisogna reagire: ad onta delle apparenze esteriori,
bisogna conservare vivida la giovinezza dello spirito».
Noi possiamo aiutare
l'anziano, anche nel recuperare i ruoli giusti, se siamo capaci di vivere la
nostra età, se siamo in grado di convivere con la nostra vecchiaia.
A chi chiedesse «Cosa debbo fare per
aiutare il vecchio emarginato, fragile, indebolito, impoverito? », io
risponderei: dimmi come vivi o come pensi di vivere la tua futura vecchiaia e
ti dirò se e come sarai in grado di aiutare il tuo prossimo anziano.
In concreto la prima cosa da fare è avere un rapporto adulto,
maturo, verso la nostra stagione. L'Ordine vive dei doni spirituali e umani dei
suoi componenti: senza giovani esso non avrebbe futuro, senza anziani non
avrebbe guide esperte. Per questo è auspicabile che tra le diverse generazioni
non venga mai meno lo scambio di idee, esperienze, di progetti, in altre
parole, non venga meno la creatività.
Uno studio sulle persone centenarie ha messo a fuoco
interessanti situazioni di vitalità psichica. La maggior parte di esse fanno
piani precisi per il futuro, si dedicano ai passatempi preferiti, hanno
resistenza fisica; riempiono bene le loro giornate con, ticcupazioni e attività
e non dimostrano, almeno all'apparenza, paura della morte.
Un'altra interessante testimonianza è quella del gerontologo
inglese, Alex Confort, che ha detto: «Probabilmente è la nostra prospettiva
culturale, non il numero delle cellule cerebrali, che c'induce, in vecchiaia,
alla rigidità o, al contrario, alla disponibilità, al mutamento ».
Dunque l'attività intellettuale, la progettualità,
l'espressione della creatività personale, gli interessi in occupazioni
realizzanti, impediscono un precoce e brusco declino mentale. E le conseguenze
di ciò si riflettono nell'umore, nel gusto di vivere, in un rapporto con se
stessi e con la propria età sicuramente positivo.
L'anziano ha tempo libero per riappropriarsi dei suoi
interessi e per scoprirne di nuovi. Ma ancora una volta occorrerà valutare
queste riflessioni e queste esperienze in modo non riduttivo, cioè in una
visione integralmente umana, che non prescinda dall'insieme di valori e di
comportamenti necessari per risolvere il nodo dell'identità e del ruolo degli
anziani. In altri termini, le attività creative e ricreative, pur importanti e
necessarie, non possono essere pretesto per una evasione, una fuga dalla noia,
dalla crisi esistenziale. Chi volesse propinare questi modelli solo per
riempire i vuoti del tempo non coglierebbe il nocciolo del problema. Proprio
l'anziano sarebbe il primo ad accorgersi del sotterfugio e proverebbe un'intima
insoddisfazione.
Non dobbiamo poi nemmeno tentare impossibili ritorni al
passato, a quando l'anziano manteneva salde posizioni sociali; né pensare che
sia proponibile come soluzione per tutti un reinserimento dell'anziano nella
società produttiva. Tuttavia, non trascuriamo di «usare» la sua esperienza
chiamandolo a collaborare con noi allorché servono interventi, analisi,
giudizi.
Egli può sicuramente essere
utile nel rapporto con altri anziani, magari più bisognosi di assistenza di
lui.
Ogni anziano è un microcosmo, una persona, un insieme anche di
abitudini, di piccoli personali riti quotidiani che si sono sedimentati durante
un'intera esistenza. Ove sia possibile dobbiamo garantire queste forme
personali che allontanano la penosa immagine di chi si sente in casa d'altri,
privato dei propri oggetti con cui ha a lungo convissuto, propenso a ripensare
con nostalgia a tutte quelle cose che gli mancano. E ciò possiamo fare
ascoltandoli, colloquiando con loro, scoprendoli poco a poco, evitando di
colpevolizzare i loro gusti e i loro atteggiamenti (spesso si pretende che
siano seri, saggi, composti; ma anch'essi provano la stessa nostra gamma di sentimenti
e di situazioni), costringendoli forse ad assumere identità di «copertura» per
venire accettati.
Il recupero del ruolo
avverrà innanzitutto a partire dal rispetto per loro: non possiamo certo essere
noi ad imporre, a sovrapporre le nostre idee. E anche prima che l'obiettivo sia
raggiunto, essi quanto meno ritroveranno la coscienza della propria età, la
vivranno senza colpe o rimorsi, senza sentirsi emarginati. Forse quelle
situazioni penose di anziani perennemente seduti, depressi, che hanno poche
cose da comunicare se non l'esposizione reciproca degli « acciacchi » o
conversazioni acidule e pettegole, forse potranno essere definitivamente
evitate.
Le famiglie
devono collaborare
Ma l'intento di recuperare
l'anziano al suo ruolo, vincendone la solitudine non si ottiene completamente
se le famiglie non sono coinvolte in questo sforzo collettivo. La famiglia deve
essere disponibile al colloquio, anche per rivelarci abitudini, interessi,
piccoli fatti, che ci possono aiutare nel nostro operare; deve essere
disponibile alla collaborazione, all'incontro, per non estraneare l'anziano dai
suoi affetti che gli restano ben presenti nella memoria. Quale armonia potremo
ricreare se in lui prevarrà la malinconia? Se si sentirà emarginato, abbandonato
come un «relitto» inutile?
Quindi nei nostri compiti
rientra anche la sensibilizzazione.dei parenti, coi quali dobbiamo tenere
aperto un dialogo sia di ascolto interessato, sia di consiglio.
Ancora una volta si
manifesta qui la ricchezza del nostro carisma. Si tratta di sfruttarla in maniera
adeguata, con le necessarie aperture ai tempi, non insistendo sui vecchi metodi
che a volte sanno tanto di mero paternalismo assistenziale ma scegliendo di rapportarsi al vecchio, di inseguirlo, nei
suoi timori, nelle sue difese, nei suoi fallimenti, nelle sue speranze, nelle
sue possibilità: solo così il nostro ruolo sarà dì qualche valore.
Come amerei vedere i nostri
Fatebenefratelli, vecchi e giovani, discutere non sui casi clinici, ma sui casi
umani (e quindi anche clinici), all'interno di un gruppo di costante
riferimento nel quale le opinioni di tutti vengano confrontate per dare al
religioso che segue l'anziano tutti i suggerimenti che la scienza e il cuore
possono mettere a disposizione. Mi piacerebbe vedere i religiosi intrattenersi
con i parenti dei loro ospiti anziani, a lungo, non per dare ordini né per
redarguire, ma per acquisire informazioni e conoscenze utili ad una migliore
assistenza. E infine mi piacerebbe vedere il Fatebenefratelli in colloquio
costante con l'anziano, nella reciproca scoperta della propria umanità. Le nostre opere per anziani non sarebbero
case di riposo, ma luoghi di attività, di studio, di ricerca, di riflessione,
di rivelazione dell'animo umano e, fin dove possibile, di attivazione di
tutte le risorse disponibili.
Vorrei, insomma, che il
vecchio sul letto di morte potesse dire a noi: «Avete fatto tutto il possibile,
spesso più del necessario, a volte avete sbagliato, non avete capito, ma sempre
avete avuto l'orecchio attento e il cuore aperto verso di me».
Ho fondate speranze che ciò possa avvenire.
II.
IL MALATO TERMINALE
Un pietoso
eufemismo
Abbiamo osservato
precedentemente quanto sia sconvolgente il problema della perdita del rapporto
diretto col malato, e come il lavoro di umanizzazione all'interno delle nostre
strutture debba cominciare proprio dal recupero non tanto di un rapporto di
natura clinica ‑tra paziente e infermiere‑ quanto piuttosto di un
rapporto con l'anima del nostro malato: dobbiamo recuperare quel complesso
nucleo di affetti, di emotività, di atteggiamenti dello spirito che
interagiscono positivamente nell'incontro tra due persone molto più che il
rapporto tra un anonimo degente «numerato» e un asettico professionista addetto
alle sue cure. Sappiamo anche che questo incontro sollecita, stimola un reciproco
accrescimento spirituale. Il discorso si fa più arduo di fronte ad un
particolare tipo di malato, il morente, che con pietoso, quasi esorcizzante
eufemismo viene definito «malato terminale». Restiamo pensosi, non solo per lo
svanire della vita terrena nel mistero della morte nella speranza della
resurrezione futura, ma anche per la constatazione amara di quanto il nostro
operare sia impotente, non riuscendo ad intervenire in modo positivo in quel
momento, il più importante dell'esistenza umana.
Come cristiani sappiamo
quanto sia decisivo questo trapasso per ogni uomo, per ogni anima; sappiamo
quali travagli psichici, quanta pena provi il moribondo e in che modo dolce e
disperato si manifesti in lui l'amore per la luce, per la vita, per il mondo
che sta per lasciare.
Sappiamo pure che prepararsi
alla morte è condizione fondamentale per affrontare senza timori, senza
rimpianti o peccaminosi furori di rifiuto, la prova di questo ultimo attimo
fuggente. Davanti alla realtà della morte, mistero sovrumano, non possiamo che
imporci un grande, un devoto silenzio, e innalzare i nostri suffragi per
l'anima del defunto, inchinandoci alla volontà divina.
Ma prima, che cosa possiamo
fare? Oggi morire in ospedale è un fatto comunissimo e diffuso; incontriamo
sempre più spesso la morte nelle corsie, nei vari reparti in ogni momento del
nostro operare. P, un fenomeno a cui dobbiamo fare fronte, fedeli alla nostra
cultura dell'ospitalità; il nostro ospite soffre interiormente davanti a noi: ci
limitiamo a pregare per lui o dobbiamo in qualche modo aiutarlo a compiere
serenamente il grande passo? Anche in questo caso dobbiamo fissare l'attenzione
sugli inconsapevoli, ma non per questo meno erronei e pericolosi, comportamenti
che offuscano la dignità umana.
Un «tabù» da
rimuovere
Per un cristiano il problema della morte deve essere un argomento
fondamentale. Aiutare
l'uomo morente a mantenere la sua dignità,
il suo valore e accompagnarlo in
quegli ultimi momenti, spesso lunghi, deve
essere un nostro preciso dovere di assistenza e di buona ospitalità. Anche
perché, oggi la morte viene vista con ottiche falsate. Esisto no nella società
contemporanea due tendenze opposte: da una parte si rifiuta la morte come dato
oggettivo dell'esistenza umana, la si rimuove con un senso di terrore misto a
disgusto; dall'altra, si riscopre la morte come evento ineluttabile.
Sì, cari fratelli, si riscopre la morte, come se essa non
fosse stata sempre presente nel pensiero, negli atti, nella storia e nella
civiltà dell'uomo.
Ma soffermiamoci su alcuni
fenomeni che evidenziano la prima tendenza. L'uomo oggi rifiuta la morte: sa
che esiste, ma si comporta come se essa non dovesse mai sopraggiungere, evita
di considerarla come evento certo e con questo pretende di allontanarla, quasi
come in un rituale esorcistico. In sostanza, ne rimuove il pensiero. Eppure, la
morte è diventata un fenomeno abituale quotidiano. Pensiamo ai notiziari televisivi che spesso manifestamente
offrono la «morte a tavola», in diretta, fino al punto da farci dubitare sulla
liceità etica di simili spettacoli, giustificati con il «dovere di informare».
Se prendiamo in esame i comportamenti più consueti, ai quali nessuno dedica
attenzione, ci accorgiamo che la stessa cultura della vita è basata sulla certezza
della morte.
Ipotizziamo un paradosso:
l'immortalità della vita terrena. Se dovesse avverarsi, l'uomo non avrebbe più
gli stessi comportamenti, cambierebbe nei costumi, nella filosofia
esistenziale: l'età dell'apprendimento sarebbe costante e non relegata al
periodo dell'infanzia ‑ adolescenza ‑ gioventù; l'angoscia dello
scorrere del tempo non esisterebbe; il tempo e la voglia di ricostruire, di
cambiare attività, il coraggio delle
scelte e dei mutamenti, sarebbero prevalenti sulla tendenza all'accettazione,
alla professionalità definitiva e conservativa. La vita sarebbe vista in una
prospettiva totalmente diversa, si~ creerebbero nuove abitudini, nuove teorie e
nuovi modi di pensare.
Eppure, proprio perché è un
paradosso, ci accorgiamo della flagrante contraddizione insita nel rifiuto
della morte. È solo il terrore che fa negare la morte, oggi? Forse che prima
l'uomo non ne provava paura? Forse una spiegazione sta nel fatto che l'immagine
della morte è in netto contrasto con l'edonismo, con la vitalità
giovanilistica, con la stilizzazione della bellezza, cioè con i modelli di consumo
culturale ed economico oggi tanto in voga. Essa è vista come qualcosa di
sconveniente, come gli atti fisiologici: il moribondo, nel suo immiserimento
fisico, viene associato a fenomeni
dichiarati inammissibili dalla civiltà dei deodoranti. Non è più sublimata od
eroica, come accadeva ai personaggi letterari che amavano una morte bella,
virile, patriottica, degna. L'antieroe letterario contemporaneo è il borghese,
che si adatta alle pieghe della vita, mentre teme e sfugge la morte.
Dunque, anche la cultura più
nobile ha revisionato i modelli precedenti e li ha dichiarati inammissibili
nella realtà.
La fiducia nella scienza
medica porta le famiglie a ricoverare il malato grave in ospedale; talvolta
esse, pur di fronte a certezze negative, senza speranza, restano ancorate al
miraggio del «miracolo scientifico». Ma più spesso certi comportamenti celano l'incapacità di sapere accudire,
soffrire, assistere, vivere nella promiscuità con la morte. In alcuni casi
il malato grave diventa un peso non più sopportabile, scomodo per i cinici, e
così viene scaricato su altri, nell'intento-alibi di offrirgli un'assistenza
specialistica che, nella maggior parte dei casi, si rivela modesta ed inutile.
Cambiata l'immagine tradizionale del morente
Una caratteristica del
nostro tempo è che si muore sempre più raramente nel proprio letto; si preferisce
l'ospedale, sia per necessità di cure specializzate che spesso esigono
attrezzature non trasportabili a domicilio, sia per una disassuefazione al
rapporto diretto con la morte (quella vera, non quella televisiva, che può
essere guardata con distacco per la bravura degli attori che la fingono).
L'evoluzione subita dalla
famiglia rende praticamente impossibili certi compiti di assistenza. Nel
passato, le famiglie numerose erano in grado di suddividere meglio ‑rendendolo
sopportabile‑ il peso di una lunga presenza quotidiana a fianco del
degente; c'era anche in tutti i suoi componenti una preparazione psicologica ad
una tale evenienza.
16 cambiata poi l'immagine
tradizionale del morente: spesso è una specie di «mostro» prigioniero in un
groviglio di tubi di plastica, di flebo, di elettrodi, di cateteri, di sondini.
P‑ l'immagine di questa civiltà, la rappresentazione iconografica di
un'epoca che esprime una realtà di totale emarginazione e solitudine interiore.
È passato il tempo in cui il moribondo parlava alla famiglia dolente e
compunta, ma attenta a quella voce grave che raccomandava e spesso benediceva.
La morte era un rito di
dolore che aveva la cornice di una solida speranza. Oggi, tale cornice è quasi
del tutto scomparsa nella nostra cultura. Vale la pena di interrogarsi al
riguardo.
Nel libro delle «Meditazioni
cristiane» di Giovanni Vannucci, al capitolo «La Resurrezione» trovo questa
interessante citazione: «Scelgo per queste considerazioni (sulla morte
dell'uomo) due diverse correnti di esperienza di pensiero. Comincerò con un
testo indù della Katha Upannishad (1000 a.c.).
Nachiketas interroga Yama, il re dei morti, perché gli riveli il mistero della
morte, dell'immortalità. Yama; riluttante a rispondere, sottopone l'interrogante
ad alcune prove; trovato il giovane maturo, gli rivela il segreto dell'« Io »
profondo ed immortale dell'uomo.
Rispondendo alla domanda,
afferma che gli uomini si dividono in due categorie: quelli che si identificano
con la parte fisica e vitale del loro essere, e quelli che sono invece in
costante comunione con il loro «Io» profondo ed immortale.
Per i primi la morte è una
cessazione, una amara e indesiderata vicenda; per gli altri, è avanzamento e
ascesa verso una vita più vasta e più libera.
«Il bene supremo è una cosa, il piacevole un'altra,
ciascuno trascina l'uomo a una fine differente. Chi aderisce al bene, giunge a
un buon fine; chi sceglie il piacevole, fallisce lo scopo. Tanto il bene che il
piacevole si presentano all'uomo, il saggio li esamina e li discrimina».
Il saggio sceglie il bene,
non il piacevole, lo stolto, essendo avido e possessivo, preferisce il piacevole.
Il mondo spirituale non si manifesta all'immaturo e allo sciocco; illuso dal
fascino della ricchezza, egli afferma che solo questo mondo esiste e non ve n'è
un altro...
L'uomo che si concentra su
ciò che è oltre l'udito, oltre il tatto, oltre la vista, oltre il gusto e l'olfatto,
sull'indefettibile ed eterno, senza principio
né fine, più grande delle cose grandi, permanente,
si salva dalle fauci della
e morte».
Per l'altra corrente, quella
ebraica,, scelgo due brani tratti rispettivamente dall'antico Testamento e da
un racconto midrascico.
«Un cane vivo vale più di un
leone morto: i vivi sanno che morranno, ma i morti non sanno più nulla: per
essi non esiste più salario, poiché il loro ricordo è dimenticato. Il loro
amore come il loro odio e la loro bramosia sono da tempo periti. Non avranno
più parte a ciò che avviene sotto il sole». (Kohelet, 9, 4‑6).
Hillel disse al giovane
discepolo Jacob: «Mi sento vecchio e ho paura della morte. Quando sarò in
agonia, prega l'angelo della morte di essere pietoso con me».
Jacob rispose: «Accettò, a patto che una volta raggiunta
l'altra sponda tu mi venga a dire in sogno come sono le cose dell'aldilà». Un
mese dopo la morte, Hillel apparve a Jacob per dirgli: «Grazie, fratello,
l'angelo, della morte è stato gentile con me, mi ha sfiorato con la lievità di
un'ala di farfalla. Se tu sapessi quanto è buono Dio, Jacob! Mi potrebbe
domandare qualunque cosa, tuttavia se esigesse da me il ritorno sulla Terra, mi
rifiuterei».
Jacob si stupì. «L'angelo
della morte non è stato gentile con te? Non hai adesso la prova che la morte è
dolce?». «Ne ho la certezza, ma non vorrei tornare a vivere sulla Terra».
«Perché?» «A motivo dell'angoscia della morte ».
Le due tradizioni sono il
segno di due culture differenti. Per l'induismo, l'angoscia della morte è
frutto dell'ignoranza: il saggio ne è immune, avendo realizzato la natura
immortale del proprio Sé. Invece, nell'Ebraismo, la morte, presente dalle prime
pagine della Genesi fino agli scritti sapienzali, è il sommo dei mali...
Questa nota caratteristica
della religiosità ebraica penso derivi dal suo mito centrale: la «Giustizia».
L'ebreo è sulla terra per creare un popolo di giusti, che attui nel suo ambito
la grande giustizia divina; il popolo dei giusti sarà la guida di tutte le
altre genti che si orienteranno verso la città giusta, Gerusalemme.
Da questa spinta per la
creazione di un popolo di giusti deriva la grande importanza data alla famiglia,
alla terra, alla vita, alla rivelazione ebraica. In una simile ottica, la morte
non poteva apparire che una punizione, un'ammenda per le colpe commesse e
insieme come un angoscioso fallimento, per chi non poteva vedere i figli dei
figli né godere il compimento di tutte le attese della giustizia.
L'annuncio della
Resurrezione non poteva che avvenire nell'Ebraismo, come suo capovolgimento
risolutivo: «Chi crede in me, ha la Vita eterna. Chi mangia della mia carne, ha
la Vita eterna. Io sono la Resurrezione e la Vita». (Gv 6, 53; 11, 26)».
Eppure queste parole sono
rimaste sovente inerti nella vita della cristianità. Qualche raro santo ha
sorriso alla morte, chiamandola «sorella» o «il più grande sacramento».
Ordinariamente ha prevalso l'orrore della morte...
Oggi, invece, nella stessa
cultura laica, tra i pensatori più avveduti, si nota una ritrovata attenzione
per il problema della morte, dopo anni di disinteresse.
Riscoprire la
morte
La riscoperta della morte è
importante non solo nella prospettiva dell'aldilà, ma anche in quella del
presente. Si dice: se vuoi la vita,
prepara la morte. Oppure: si muore come si è vissuti. Ma non secondo la
logica dell'orrore e nemmeno seguendo il meccanismo del rifiuto, che fanno
presentire e sperimentare in modo drammatico e angoscioso il momento del
distacco. La medicalizzazione della morte, dove il malato diventa dominio della
medicina, è una forma di rifiuto del grande passo. Per questo oggi la morte
migliore è da molti ritenuta quella «repentina e improvvisa», che invece era
così temuta nel Medio Evo. E nemmeno «dopo» il defunto deve sembrare tale: nelle
« funeral homes » (obitori) americane lo si imbelletta per farlo apparire un
quasi vivente: «The patient looks lovely now» (ora ha di nuovo un bell'aspetto).
Anche il lutto è rifiutato,
venendo spesso meno un autentico dolore interiore e quindi non avendo senso il
segno esterno: anzi, chi si lascia andare ad una forte commozione è guardato
addirittura con sospetto.
Ma questi sono palliativi
che non cambiano la sostanza. È ora che la morte ‑la quale è una cosa
sola con la vita‑ esca dalla clandestinità e che l'uomo ritrovi il
cammino, per un certo tempo smarrito, verso una cultura della morte e, quindi,
della vita. E ciò è possibile seguendo la strada dell'uomo.
Da quanto si è detto,
infatti, vediamo emergere un nuovo tipo di bisognoso, di emarginato: il malato
terminale. Anche a lui dobbiamo garantire attenzione e assistenza.
Certo, di fronte ad una
persona che non ha speranze di sopravvivenza sorgono numerosi interrogativi.
Innanzitutto, fino a che punto si deve prolungare il trattamento terapeutico?
Si deve permettere che si tramuti in vero e proprio accanimento? Chi decide
durata e modalità di questa lotta contro la morte? Quali gli interventi
legittimi e quali no? Che atteggiamento deve tenere l'operatore sanitario verso
il morente? Chi collabora con lui in questa fase?
In sostanza, che fare per
mantenere il morente in una situazione di massima dignità e di minima
sofferenza salvaguardandone il diritto di vivere senza accanirsi in cure
inutilmente dolorose, né senza abbandonarlo a se stesso? E ancora: come, se e
quando avvertire il morente del suo stato? E chi lo deve fare?
Interrogativi
drammatici
Siamo di fronte a problemi drammatici.
Molti medici, molti
operatori, e ahimè talvolta anche qualche Fatebenefratello, non sanno che fare
e finiscono per abbandonare alla solitudine colui che sta affrontando il passo
più importante della vita. È la nefasta conseguenza di un'idea di assistenza
finalizzata solo al recupero dell'integrità e della efficienza fisica, è un
lasciar via libera in noi al rifiuto della morte.
Un primo fondamentale motivo
di riflessione riguarda determinati atteggiamenti in costante diffusione che
minacciano l'uomo proprio in nome dell'umanità. Tra questi, il più subdolo è
l'eutanasia, la cui pratica si insinua in modo strisciante nell'ospedale con
sempre maggior credito. Abili manipolazioni culturali, soprattutto attraverso i
mass-media, riescono a presentare l'eutanasia agli occhi della gente come la
risposta più semplice e più «umanitaria»: per eliminare la sofferenza di chi
non ha più speranza di guarigione, si elimina il sofferente. Ma questo falso
umanitarismo ad un'analisi attenta rivela il suo volto ambiguo.
1 «Molte volte le richieste
di uccisione pietosa ‑ricorda il teologo B. Háring‑ non sono
espressione di una vera volontà di morire, bensì un appello disperato per
ricevere più cure, più attenzione più solidarietà umana».
Secondo i sostenitori di
tale pratica, essa sarebbe una conquista umana, sancirebbe «il diritto a morire
con dignità». Ma, cari confratelli, la dignità della morte non consiste affatto
in questa «conquista», bensì nel modo di affrontare la morte.
Disumano è piuttosto quel
letto, disumani sono quei tubi, quel corpo e quell'anima abbandonati a se
stessi, quell'uomo solo con i suoi pensieri, le sue angosce e inquietudini. La
vera risposta sta nell'affrontare questo momento di sofferenza morale e
psichica, non nel sopprimere il sofferente.
Sappiamo che la scienza
medica può aiutare ad affrontare bene la morte evitando di degradare l'uomo ad
animale in preda al dolore. Il progresso nei procedimenti di rianimazione che
attenuano o sopprimono la sensibilità corporea mirano proprio a questo.
Tuttavia, cari confratelli,
occorre definire quella «Terra di nessuno» che separa la cura e il lenimento
del dolore dalla crudeltà, dall'inutile sperimentazione fatta unicamente per
orgoglio scientifico, che riduce l'uomo a cavia, in definitiva dall'accanimento
terapeutico.
Diciamo innanzitutto che non
è possibile tenere in vita una persona allo stato unicamente vegetativo se non
vi sono motivazioni precise che esulano dalla sperimentazione.
oggi, il tempo della morte
si è insieme allungato e suddiviso. C'è la morte cerebrale, biologica,
cellulare; gli antichi segni basati sull'arresto cardiaco e respiratorio non
bastano più; si misura l'attività cerebrale, si può mantenere artificialmente
pulsante un , si può stimolare forzatamente la respirazione. Il tempo della
morte può essere allungato a discrezione del medico: non si può eliminare la
morte; ma si può regolare la durata della fine. è possibile ritardare il
momento fatale sopprimendo anche il dolore.
Ma spesso questo
prolungamento da mezzo scientifico al servizio di quell'uomo sofferente si trasforma
in fine. Ed è appunto in questa oscura zona di confine tra la cura e la
crudeltà, tra diritto alla vita ed eutanasia che la nostra coscienza di
religiosi deve vigilare affinché si rispetti una misura che sia segno di
umanità e di etica, al di là delle norme che i singoli Stati predispongono.
La morte non può più essere
assegnata in dotazione esclusiva al medico, alla tecnica, alla sperimentazione,
perché essa rappresenta il più antico mistero dell'uomo, sul quale noi come
religiosi non possiamo esentarci dall'esercitare il nostro ruolo specifico di
missionari della salvezza e di guide spirituali.
Non
abbandonare il morente
Ma soffermiamoci su un terzo
aspetto, già accennato. Di fronte al malato grave, spesso perdiamo anche noi le
speranze, ci sentiamo inutili e lo abbandoniamo in attesa dell'inesorabile
momento.
Quale angusta visione della
vita e della morte, quale assuefazione ad un ruolo di operatori tecnici
dimentichi che il termine salute significa anche «salvezza», cioè vita
dell'anima!
Per questo oggi l'ospedale è
diventato il luogo della morte solitaria. Un cuore che si ferma non fa rumore;
eppure in noi dovrebbe suscitare una vasta eco. La morte, come la vita, non è
un atto esclusivamente individuale. Anche quella degli altri ci tocca in
qualche modo da vicino.
Spetta a noi, entro i nostri
limiti umani che non possono certo cambiare i destini, eliminare quel senso di
«selvaggio» nell'immagine della morte solitaria coi tubi di plastica, che
clamorosamente fa rivivere l'antico orrore del cadavere putrefatto abbandonato
nella campagna.
Quale civiltà sarebbe
altrimenti quella in cui cambiassero le forme dell'orrore, ma non la sostanza?
In un recente Convegno dei
medici cattolici svoltosi a Roma si sono discussi i problemi del dolore, della
vecchiaia, dell'eutanasia. Temi fondamentali, che, richiedono un'impostazione
filosofica generale per una seria critica del nostro modello di civiltà che
approdi ad una cultura e ad atteggiamenti nuovi in questo campo.
Durante il convegno, un
professore ha testualmente dichiarato: «È necessario
un nuovo impegno nell'assistenza ai morenti. Occorre intensificare la presenza
presso il malato, considerando che è il morente colui che ha da insegnare,
poiché vive un'esperienza che gli altri ignorano. È necessaria una specifica
preparazione in questo senso del personale sanitario, una preparazione che è
soprattutto umana. Un medico o un infermiere non potranno, a volto sereno e con
equilibrio, assistere un morente se nella propria coscienza non avranno
integrato una visione della vita e della morte, non avranno dato cioè per conto
proprio una risposta ai problemi essenziali della vita umana».
Miei cari confratelli, che
lezione ci proviene da questo laico! Noi a volte, bloccati dalle nostre paure
più che dai nostri impegni, fiaccati dai nostri fantasmi di impotenza, siamo
preceduti dai laici con suggerimenti ricchi di valore che dovrebbero essere
nostri e che invece non abbiamo saputo cogliere nell'alveo del nostro
ricchissimo carisma.
Dicevo prima che la «dignità
della morte» risiede anche nel modo sereno di affrontarla, in quel periodo
(lungo o breve, cosciente o semicosciente) di oblio della mente prima del trapasso
definitivo.
Ma i problemi nascono prima
del momento finale; fin da quando il decorso del male fa prevedere un sicuro
esito infausto; è in questa fase che la volontà razionale applicata alla
metodologia scientifica entra in crisi facendoci disperare e spingendoci a
rinunciare ad ogni ulteriore aiuto. Ma noi sappiamo che dove la conoscenza e il
metodo scientifico si arrestano, c'è ancora lo spazio per la superiore forza
dello Spirito.
Nella fase «terminale» il
malato si trova a risolvere delicatissimi enigmi, è tormentato da dubbi
angosciosi, scosso da qualche vaga speranza e distrutto dal decadimento. Lo
invade la paura, mentre si ritrova solo con se stesso, cosciente della sua
unicità. Nei momenti lucidi rivede la vita come in un film e col rischio di
perdersi definitivamente nell'incubo, sommerso da sensi di colpa, da rimpianti,
da aspre malinconie, dal disperato attaccamento alla vita, dal bisogno inevaso
di comunicazione e di affetto. In lui si innescano delicati meccanismi
psicologici che occorre saper riconoscere e dominare; perciò si rende
necessaria la collaborazione con esperti psicologi perché spesso la cultura
personale non basta; l'uomo morente è più bisognoso di chiunque altro, è un
malato «difficile», che richiede molto tempo e molte attenzioni. Raramente egli
può raggiungere da solo una accettazione e una maggiore serenità se non viene
aiutato da tutti coloro che lo assistono e dalla stessa famiglia. Al di là del
dibattito sulla necessità di rivelare o meno al malato grave il suo stato, è
assodato che chi si trova in una situazione simile la intuisce oltre le parole.
La sua assistenza deve
dunque essere fatta di attenzione, anche ai particolari. Non servono discorsi,
ma una presenza affettuosa; il malato deve percepire che non sarà solo ad
affrontare quel momento: basta una mano stretta, che nel contatto struggente
rivela un ancoraggio alla vita, dona una sicurezza protettiva, quasi materna,
consentendo al paziente anche di dire cose per lui urgenti e importanti, forse
le sue ultime parole.
Coinvolgere la famiglia
Ma per aiutarlo in modo
veramente significativo, è necessario coinvolgere la famiglia in questa
presenza.
Innanzitutto non è giusto
che sia la famiglia a decidere autonomamente se e come informare il malato del
suo stato. È sempre opportuno che i medici curanti incontrino i familiari per
uno scambio di informazioni, concernenti anche la psicologia del degente, in
modo da concordare insieme il da farsi.
Dalla famiglia possiamo
apprendere importanti informazioni sulla storia personale del malato che
aiutano a capirlo meglio.
A volte, il suo attaccamento
alla vita è dettato da «nobili preoccupazioni» per la sorte di chi resta: da
qui magari l'intenzione di affidare le sue raccomandazioni finali ai parenti,
di chiarire qualcosa del passato, di eliminare sensi di colpa. Dobbiamo
favorire questi momenti estremi di comunicazione, che un tempo facevano parte
del rituale domestico della morte‑ il malato aveva i familiari raccolti
intorno al suo letto ed egli conversava con loro quasi in un clima di calda
serenità, di accettazione; lasciava le sue ultime raccomandazioni, divideva
l'eredità. Gli astanti si sentivano come investiti di un carisma. Non è
impossibile ridare naturalezza, conforto, amore e cristiana accettazione a
queste anime che si appressano all'estremo passo. E c'è in tutto ciò un
arricchimento reciproco: anche il morente aiuta noi. Da lui apprendiamo
sensazioni che non conosciamo; standogli accanto verifichiamo la nostra
fortezza.
Un'attenzione speciale
dobbiamo avere in queste situazioni anche per i parenti del malato, che
soffrono momenti di ansia, di tensione; spesso, in mancanza di notizie, si
macerano nel dubbio e nell'angoscia, anche a causa dei medici che, per ragioni
professionali, sono talora evasivi e usano un linguaggio estremamente tecnico
nelle diagnosi e nelle prognosi. Una maggiore comprensione delle loro esigenze,
dettate spesso da ansia affettuosa, ci può aiutare a creare un clima di
reciproca cooperazione, di fiducia e di calda sincerità, a beneficio del
malato.
Ai familiari si dovrebbe
lasciare tempo per la visita, affinché questa non risulti troppo asettica e
spersonalizzata, soprattutto nelle camere di rianimazione, studiando nel
contempo i mezzi adatti per garantire il rispetto delle norme di prevenzione
igienica. Alla preghiera per l'anima, che è dovere di tutti i religiosi,
dobbiamo saper unire un profondo senso di pietà cristiana, attingendo alle
risorse del cuore. La nostra sensibilità ci guiderà nell'arduo compito di offrirci come spalla sulla quale
piangere, come forza nella quale confidare; il nostro esempio può convincere
più di mille parole a ritrovare il proprio cammino spirituale. In tal modo, superando la chiusa visione tecnica della
sconfitta della medicina di fronte alla morte, noi sviluppiamo un modello di assistenza superiore.
Il momento cruciale per i
familiari è comunque quello dell'imminenza del decesso del loro caro.
Immaginiamoci lo stato doloroso, la confusione delle scelte, la stanchezza
psichica di queste persone, spesso tormentate da un senso di colpa perché
vorrebbero non assistere al momento fatale. La nostra presenza al loro fianco è
più che mai preziosa e illuminante.
La stessa cosa va detta per
i familiari dei degenti ricoverati d'urgenza, passati cioè bruscamente dallo
stato di salute a quello di malattia per cause cardiovascolari, cerebrali,
traumatiche‑accidentali. Il sentimento di preoccupazione per la sorte
della persona cara è in essi altrettanto vivo anche se non in presenza di prognosi
infausta.,
Non ho prospettato traguardi
impossibili. Sono certo che, seguendo la strada che è più che mai la nostra, la
morte in ospedale potrà recuperare la dignità perduta. E l'ospedale potrà
davvero essere per il malato grave l'unico luogo dove gli sia garantita
un'assistenza continua, con metodologia e mezzi altrove improponibili, e
contemporaneamente un luogo di assistenza integrale, che allontani gli inquietanti
spettri della solitudine e dell'orrore, lasciando spazio alla rassegnazione
umana e alla speranza cristiana.
Vorrei fin d'ora invitarvi a
studiare mezzi e formule, a immaginare e
progettare, assieme ai medici e agli infermieri, una riscoperta profonda del
senso della vita e della morte.
Sono convinto, sulla base
anche di alcune splendide esperienze già in corso (per es. «Royal Hospital di
Montrèal» e alcune Fondazioni, tra cui una italiana) che al Fatebenefratello
desideroso di impegnarsi in modo nuovo nell'assistenza ai morenti, si apra uno
spazio enorme. Sfruttarlo è, oltre che un preciso dovere legato alla nostra
vocazione ospedaliera, condizione «sine qua non» per lo sviluppo del nostro
Ordine e per un degno servizio alla Chiesa.
III. I TOSSICODIPENDENTI
Il cancro dei
giovani
L'immagine di un cancro che
si diffonde con le sue metastasi in tutta la civiltà occidentale sarà forse fin
troppo sfruttata per indicare il problema della droga e della
tossicodipendenza; ma è sicuramente efficace per evidenziare questo nuovo
«male» della società che colpisce soprattutto i giovani. Tentare una analisi
esauriente del problema droga è arduo; non di meno è necessario darne almeno
una sommaria descrizione. La gravità e l'estensione del fenomeno sono evidenti,
al di là delle statistiche, le cui elaborazioni matematiche hanno comunque una
loro tragica evidenza.
L'Organizzazione Mondiale
della Sanità afferma che più di 4.000.000
di persone, negli USA, hanno fatto uso di vari tipi di droga. Ma il
fenomeno appare agghiacciante se indagato nelle percentuali relative. Il
Federal Bureau of Narcotics afferma che 1 giovane su 5 si droga e che, in ogni
caso, il 40% degli studenti di scuola media superiore ha assunto droga almeno
una volta; e addirittura il 60% degli studenti universitari.
Assumere la droga almeno una
volta non è ancora sintomo di tossicodipendenza, ma la realtà presenta contorni
più precisi: tra i tossicodipendenti riconosciuti, più del 50% ha una età tra i
20 e i 30 anni, e vi è una vasta percentuale, in aumento, per i giovani di età
inferiore. La loro estrazione sociale è indicativa: negri (52%), messicani
(6%), portoricani (13%); come dire che la maggior parte di essi appartiene a
gruppi etnici sociali emarginati. Osservando il fenomeno in Europa notiamo che
esso ha raggiunto dimensioni allarmanti in Olanda, Danimarca, Gran Bretagna,
Germania, Francia; per quanto riguarda l'Italia, ai grandi centri del Nord, si
è aggiunto ora il meridione con le sue principali città e anche con centri
minori dove però abbondano i disoccupati.
Chi è il
tossicodipendente
Per sgombrare il campo da
eventuali confusioni definiamo la situazione del tossicodipendente come quella
di chi si trova in uno stato di intossicazione, periodica o cronica, per l'uso
abituale e continuo, con sindromi di astinenza, di sostanze stupefacenti,
naturali o prodotte sinteticamente; una situazione pericolosa per lo «status»
psico-organico del soggetto che viene oppresso in vaste sfere della
personalità. La morfina, l'eroina, la cocaina, l'L.S.D., ma anche il metadone,
i barbiturici e le cosiddette «droghe leggere», tra cui la marijuana, sono le
principali sostanze stupefacenti che determinano stati definibili genericamente
come allucinogeni. Ovviamente con reazioni diverse da droga a droga e perfino
da individuo a individuo, ma caratterizzate prevalentemente da sonnolenza,
loquela impacciata, depressione del sistema nervoso centrale, stati di
beatitudine, eccitazione, iperattività, senso di allungamento del tempo
psichico, euforia, allucinazioni. Reazioni che, in ogni caso, comportano una
evidente pericolosità per se stessi e per gli altri. Per se stessi, poiché la
diminuita o alterata percezione della realtà esterna rappresenta un evidente
fattore di rischio per la sicurezza e l'incolumità; e inoltre l'abuso di droghe
provoca devastazione organica e un declino fisico che può condurre alla fatale
«over dose», cioè a collassi e insufficienze respiratorie spesso letali.
Si può affermare poi con
certezza che i tossicodipendenti presentano una patologia non irrilevante
riguardante le malattie croniche, le epatiti, la compromissione irreparabile di
alcuni organi, con comparsa di nuove malattie come l'A.I.D.S.
A questi problemi
bisognerebbe aggiungerne altri: il rischio derivante dalla droga «tagliata» con
sostanze nocive, ad esempio; oppure la mancanza di ogni preoccupazione igienica
nel rito degli eroinomani. Ma il discorso diventerebbe troppo vasto e
composito. Ma c'è anche un tasso di pericolosità che riguarda la società: si
comprende facilmente come lo stato allucinogeno, le percezioni alterate,
l'esaltazione psichica, la perdita dei freni inibitori, l'assenza di sensi di
colpa e di pudore, tutti questi fattori producano una personalità alterata, una
sorta di «molecola impazzita» della collettività. Le conseguenze sono note: la
tossicodipendenza genera bisogno economico per l'acquisto delle sostanze.
Bisogno a cui si legano migliaia di fenomeni delinquenziali, dal piccolo furto
con scasso, fino alle aggressioni violente, anche per pochi soldi. Queste
componenti clamorose hanno fatto salire la percentuale dei delitti provocando
uno stato di assoluta mancanza di sicurezza, perché il tossicodipendente è
spinto a colpire indiscriminatamente chiunque. Il criterio secondo cui il
comune delinquente non agisce quando «il gioco non vale la candela», in questo
caso non conta affatto.
L'intenzione di «criminalizzare»
il tossicodipendente è ben lontano dai miei pensieri, sia chiaro, ma certe
situazioni vanno conosciute senza eufemismi, nella loro realtà. Così come non
possiamo ignorare un nuovo sintomo di barbarie emergente da certi discorsi che
si stanno facendo strada cinicamente: partendo dal dato della pericolosità
sociale, si reclama la necessità di un «energico» intervento pubblico (o
privato) per «risanare» la situazione.
Fattori e
cause
Se poniamo l'attenzione sul
fenomeno è per coglierne la miseria, per indagarne le cause con l'occhio anche
alla vittima, che è il consumatore di droga. Certo, la richiesta di sicurezza
sociale è un fatto di dignità civile, di giustizia, ma non può essere il punto
di partenza per risolvere il problema.
La tossicodipendenza è un
problema dell'uomo, correlato a precise
dinamiche sociali, psicologiche, culturali, a carenze spirituali. Se non ci
si pone in questa ottica è difficile elaborare un'idea accettabile di
intervento terapeutico. Pensiamo soltanto al groviglio di fattori che
influiscono sulle scelte personali: gli elementi psicologici individuali, la
vita di relazione con la famiglia, gli amici, la collettività, la situazione
sociale, la posizione culturale. Pensiamo anche alla responsabilità enorme di
quei modelli culturali che, nell'ultimo decennio, hanno proposto la droga come
momento di libertà, di alternativa; modelli di stampo materialistico e
consumistico caratterizzati dalla caduta di antiche (e in alcuni casi ormai
inadeguate) ideologie, che spiegano la
tendenza contemporanea all'arrivismo, al successo da raggiungere con qualunque
mezzo. Il panorama spirituale dalla nostra epoca ci appare inaridito,
depauperato di valori etici, mentre non sembrano ancora emergere alternative
sufficientemente strutturate. È in questo vuoto che si inseriscono tali
tendenze deteriori.
La difficoltà di cogliere in
tempo la situazione si spiega d'altra parte con la rapidità e la complessità
delle mutazioni economiche, sociali, tecnologiche e culturali, in un mondo nel
quale anche i valori sembrano diventati oggetto di effimero consumo. Qui la
droga trova sicuramente la sua collocazione, proponendosi come «figlia dei
tempi», in una duplice veste: come risposta ingannevole alle situazioni di
disagio, e quindi mezzo di fuga verso la beatitudine, e come proposta di
«valore alternativo», cioè come un altro modo di vivere che non accetta quello
comune.
Nella complessità della
situazione giocano anche alcune pesanti contraddizioni della politica estera e
interna degli Stati nazionali circa i grandi valori della pace, della libertà e
della giustizia, che non sono affermati con decisione nonché l'incubo aberrante
del conflitto nucleare.
Ne derivano una sorta di pessimismo esistenziale, che induce a volere
le cose qui e subito,, a consumare alla svelta ogni emozione; e un
giovanilismo che carica di ingiuste attese la vita dei giovani, quale mito di
ebbrezza e di felicità. Entrambi non sono certo estranei alla diffusione della
droga, avendo privato l'uomo di valide certezze, della sicurezza di un modello
giusto, ed eliminato dagli orizzonti umani fedi e ideali nei quali credere e sperare.
La nostra società ‑cioè
tutti noi, consapevoli, compartecipi di eventuali errori, coagenti nel riproporli‑
ci spinge a superare tali insicurezze e tali ansie con gli psicofarmaci; ci
illude che felicità, realizzazione e successo siano ottenibili con pillole di
energia efficientistica, ci insegna a vincere l'angoscia con l'alcool, secondo la strategia di una produttività non asservita
ai bisogni umani, ma volta ad imporre bisogni falsi, negativi, alienanti. Non è
forse vero che le forze socio‑economiche oggi si rivolgono ai giovani (e
persino ai bambini) come a soggetti da conquistare al mercato del consumismo avendo come primo obiettivo l'utile, non l'educazione?
Scarse difese
per i giovani
È proprio il giovane, in
fase di formazione, il soggetto più esposto alle insidie. Nel momento in cui inizia la sua esplorazione personale del mondo,
facendosi una propria scala di valori, confrontando ciò che vorrebbe con ciò
che trova e sviluppando il processo di socializzazione, il giovane non è ancora
pienamente capace di scelte ragionate. In questa fase di strutturazione della
sua personalità egli si trova aperto alle novità, nutre curiosità, cerca il
rapporto con gli altri, per conoscersi e conoscere, per mettersi alla prova
anche, per definire la sua identità. Per
questo, egli può lasciarsi facilmente sedurre da modelli aberranti. In fondo al
suo cammino di ricerca, può anche
trovare lo spacciatore in cerca di nuovi acquirenti.
Le sue difese sarebbero
certamente più efficaci se egli avesse alle
spalle una famiglia che fosse per lui guida, informazione, affetto, rifugio nei
momenti difficili. Ma abbiamo già visto come e quanto la famiglia sia
cambiata, nel passaggio da una cultura contadina ad una cultura industriale e
tecnologica. Nella prima, la trasmissione di valori da padre in figlio era
lenta ma ineludibile e sicura: il
padre, depositario del sapere, insegnava al figlio le cose del mondo e della
natura. Oggi la figura del padre ha perso questo prestigio culturale, la sua
autorevolezza di guida: le conoscenze sono così vaste, rapide e mutevoli che
impediscono una assimilazione del sapere paterno. Spesso, inoltre, la
preparazione scolastica del figlio risulta addirittura superiore a quella del
padre, il quale quasi sempre per la rapidità dei mutamenti, rimane estraneo ai
fenomeni tipicamente giovanili di costume, per cui il figlio non vede più in
lui un interlocutore affidabile e «preparato». Infine, ha sempre maggior efficacia
(anche manipolante) una forma di trasmissione delle conoscenze al di fuori
dell'ambito familiare: quella svolta tramite i mass-media, che propongono
continuamente modelli culturali assai insidiosi per la psiche giovanile,
soprattutto attraverso la pubblicità. Per non dire del ruolo negativo di certi
genitori all'interno della famiglia «nuclearizzata», entrata in crisi come
cellula base della società. Sono sovente gli stessi genitori che ripropongono
acriticamente ai figli quei modelli di successo e di comportamento.
Non può venire alcun
beneficio ai giovani da una famiglia spesso minacciata nella sua stabilità da
separazioni, disoccupazione, introiti economici al di sotto della media
generale, cioè da fattori che creano emarginazione e un senso di frustrazione
in relazione al modo di vivere degli altri.
Dalla frustrazione alla rivalsa il passo è breve. E
allora il giovane «fugge»: nelle strade, nelle piazze, si aggrega a gruppi per
cercare ciò che gli manca. E qui trova l'ultima insidia, nella rete del vasto
mercato in cui opera gente senza scrupoli, con legami a livello internazionale,
un mercato di cui lo spacciatore all'angolo è solo il «terminale».
Il potenziale
tossicodipendente, fiaccato familiarmente e privo di certezze morali,
suggestionato dai comportamenti dei coetanei, del «gruppo», compie così la
prima scelta per evadere, per provare, o anche solo per essere accettato. La
droga è così giunta persino alle porte delle scuole medie inferiori, il che
eleva di molto la soglia di pericolosità sociale del fenomeno.
Il tossicodipendente,
carente di salute fisica e psichica, di amore, di comprensione, di sapere, ma
soprattutto di libertà, rientra dunque
nella categoria dei nuovi bisognosi: è l'imprigionato
nell'anima. Per questo, non stupisce che si siano andate creando comunità
terapeutiche di ispirazione cristiana che, con grande dedizione e competenza,
affrontano soprattutto la dimensione personale e psicologica del
tossicodipendente. Infatti, il vero problema non è la dipendenza fisica, ma
quella psicologica: nonostante le apparenti espressioni di «libertà»
manifestate ed ostentate dal tossicodipendente, egli si sente schiavo al punto
da non credere più nella possibilità di guarigione.
Un campo
aperto ai Fatebenefratelli
L'argomento richiederebbe ben
altri approfondimenti, ma per ora mi fermo qui.
Ho fatto questa riflessione
perché sono convinto che il Fatebenefratello possiede, a livello religioso e
professionale, la possibilità di accostarsi adeguatamente al problema,
sviluppando il ruolo di guida-animatore, collaborando con altre iniziative,
sempre attento al problema umano.
Miei cari confratelli: come
ho promesso, con questo documento non intendo darvi certi ordini, ma proporvi
riflessioni utili per scoprire l'enorme gamma delle nostre possibilità, che già
in parte abbiamo sviluppato, ma che possono trovare nel nostro tempo molte
altre applicazioni. Ne ho accennate tre, che mi sembrano più immediatamente
alla nostra portata, e che noi possiamo affrontare solo dopo un attento esame
delle nostre particolari situazioni e dopo aver individuato i bisognosi di
oggi.
Il mio scopo principale, lo
ripeto, è quello di stimolarci a meditare, ad uscire dagli angusti schemi che
ci impediscono di cambiare come esigono il nostro carisma e le nostre
Costituzioni. Intendo invitare ciascuno di noi ad uscire dalle nostre
tossicodipendenze ‑dalla routine, dal comodo, dal sicuro, dai rimpianti,
dalle pigrizie, dalle abitudini, dalle paure‑ per entrare nella sfera
della creatività, in modo da corrispondere efficacemente ai bisogni dell'uomo
contemporaneo.
La nostra identità infatti,
non si costruisce sulla conservazione acritica del passato, bensì sull'attenzione
al presente e al futuro, sulla pronta disponibilità di tutti a intraprendere
quegli atti, quei ruoli, quelle iniziative che i tempi richiedono, nella
indefettibile fedeltà al Vangelo e al nostro santo Fondatore.
INDICE
PRESENTAZIONE
Rinnovamento, fonte di
consolazione ... ................
Porre la mano al nostro
futuro non per paura, ma per amore
I nostri ruoli, i nostri compiti,
la nostra passione verso l'uomo
I. IL CAMBIAMENTO DEL MONDO
E LA NOSTRA CECITÀ
Un paradosso: non fare
niente
Abbattere i campanili o
comprenderne meglio il senso?
Stare in ascolto dell'uomo
trasmettere il profumo della
sacralità dell'uomo
II. APRIRSI ALLO SPIRITO
SANTO
Aprirsi all'energia dello
Spirito
Per una cultura
dell'attenzione
Il suono della Parola si fa
eco nello Spirito
Non mentire, non tradire
L'apertura allo Spirito
nelle nostre comunità
III. APRIRSI AL TEMPO E
ALL'UOMO
Un Tempo diverso, un Uomo
diverso
Custodi e artefici del
benessere della gente
Entrare nel tempio del Tempo
e dell'Uomo contemporaneo
IV. IL NOSTRO RUOLO
NELL'ORDINE
Unità nell'autonomia
Testimoni e guide morali per
i nostri collaboratori
Questione etica e ruolo di
coscienza critica dei Fatebenefratelli
Il nostro ruolo di
anticipatori ..
Il nostro rapporto con la
Chiesa
V. LA COMPRENSIONE DELLE
NUOVE CATEGORIE DEI BISOGNOSI ..........
Nello spirito delle nuove
Costituzioni
Il pianeta giovani
Le nostre tentazioni
VI. LA RICERCA COME MOMENTO
DI RINNOVAMENTO
DELLA NOSTRA OSPITALITA’
L'esempio del Fondatore
Viaggio di ricerca
Al passo coi tempi
APPENDICE
INTRODUZIONE
I. LA VECCHIAIA....
Un fenomeno in esplosione
La cultura del giovanilismo
Dimensione della vecchiaia
Cultura umanistica e fede
religiosa
Essere all'altezza del
compito
Restituire un ruolo
all'anziano
Le famiglie devono
collaborare
II IL MALATO TERMINALE
Un pietoso eufemismo
Un «tabù» da rimuovere
È cambiata l'immagine
tradizionale del morente
Riscoprire la morte
Interrogativi drammatici
Non abbandonare il morente
Coinvolgere la famiglia
III. I TOSSICODIPENDENTI
Chi è il tossicodipendente
Fattori e cause
Scarse difese per i giovani
Un campo aperto ai
Fatebenefratelli