Umanizzazione

Documento di P. Pierluigi Marchesi su come umanizzare la nostra vita e le nostre opere

Fra PIERLUIGI MARCHESI OH

Fra PIERLUIGI MARCHESI OH

 

 

 

UMANIZZAZIONE

 

 

 

CENTRO STAMPA FATEBENEFRATELLI

 

 

LETTERA AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA DI ROMA

 (26 Gennaio - 4 Febbraio 1981)


Ai PP. Consiglieri Generali, PP. Provinciali ed ai partecipanti all’Assemblea.

 

Nel presentare, in veste definitiva, il do­cumento sulla Umanizzazione, porgo a Voi che avete partecipato ai lavori dell’incontro di Roma, in rappresentanza di tutti i Con­fratelli del nostro Ordine, il più sincero rin­graziamento per il prezioso contributo offerto. In particolare a Rosta è stato fatto un primo, ponderato tentativo per raggiungere una meta: quella della collegialità, di una modalità cioè di pensare e di lavorare insieme verso un fine comune.

 

La collegialità si è manifestata attraver­so il consenso dell’Assemblea sia sul tema della Umanizzazione che su quello dell’uti­lizzo del documento medesimo. Il tema è diventato «vincolo unificante ed integran­te che può aiutarci a tradurre in fatti di vita il processo di Rinnovamento» (vedi di­chiarazione finale dell’Assemblea di Roma) e ci ha proposto un fine comune, e cioè quello di « difendere e promuovere senza indugio il rispetto della dignità umana »; l’utilizzo proposto è stato quello di «ac­cogliere il documento... studiarlo personal­mente e con le Comunità... vivere dinami­camente il suo significato».

Pertanto a Roma abbiamo trovato un denominatore comune, la base su cui fon­dare comportamenti di Rinnovamento per­sonale e dell’Ordine, mostrando di essere uniti sul tema dell’Umanizzazione, senza la paura di esprimere convergenze e divergenze sul modo di realizzarla nelle singole realtà del nostro Ordine.

Il documento presentato ha suscitato numerose e stimolanti opinioni ed alcune domande. Queste ultime riguardavano so­prattutto il modo con cui esso è stato co­struito ed i destinatari ultimi: nessuno ha obiettato circa il perché e a proposito del tema che, come già detto, è stato pronta­mente condivisa.

Quando ho pensato di intervenire diret­tamente sul tema della Umanizzazione, il mio scopo era, ed è, quello di invitare tutto l’Ordine a riflettere sulla Umanizzazione nel nostro Apostolato! Avendo in mente che destinatario della attività del nostro Ordine è l’uomo malato, quello che soffre nella per­sona oltre che in determinate parti del cor­po. Il mezzo che mi è sembrato più oppor­tuno per stimolare la riflessione nei religiosi - cui il documento è destinato - è stato quello di elaborare un lesto che contenesse una spassionata e franca esposizione dei miei pensieri, dei miei sentimenti, della mia esperienza.

Questo documento quindi non è il risul­tato di una ricerca o di uno studio sulla Umanizzazione, non è un trattato, non ha l’ambizione di rivolgersi al mondo intero, ma ha lo scopo di rispondere ad una neces­sità, quella di indirizzare il nostro Rinnova­mento e quello delle nostre opere. L’urgenza di Rinnovarci per Umanizzare è stata espres­sa in modo inequivocabile da tutto l’Ordine, sia a livello di Capitolo Straordinario che a livello di Capitoli Provinciali.

Ne deriva che quello da me preparato è un documento aperto che si rivolge con un messaggio esplicito a tutti i Religiosi perché riflettano prima e agiscano poi se­condo la direttrice dell’Umanizzazione no­stra e delle opere.

Essendo un documento aperto non ha la pretesa di fornire regolette di comporta­mento o ricette definitive, ma solamente principi generali, scaturiti dalle mie perso­nali convinzioni e supportati dal parere di esperti in scienze teologiche e psicologi­che. Ma anche dagli esperti non ho voluto contributi scientifici ma dei pareri sul mio modo di trattare il tema della Umanizza­zione.


Il documento, lo hanno affermato tutti a Roma, arriva al momento giusto, ed essendo aperto chiama tutti i Religiosi a svi­luppare, dopo una attenta riflessione, le ricerche, gli studi, le iniziative che riten­gono più opportune secondo la realtà delle singole Province. Ciò che è vincolante - an­che in base al consenso generale espres­so sul tema trattato dal documento - è che tutti i Confratelli accolgano l’invito a ricevere il documento come espressione del processo di Rinnovamento dell’Ordine. Il modo migliore di utilizzarlo - partendo dal presupposto che non è un documento finale e conclusivo ma un documento «ini­ziale», - è quello di accettarlo per quello che è, come uno stimolo e non come la risposta del Generale ad un tema così vasto e ‘complesso come quello della Umanizzazione.

Da questo stimolo, mi auguro, potranno moltiplicarsi studi ed approfondimenti, ini­ziative ed azioni concrete: perciò entro l’an­no potrà essere organizzato un incontro internazionale con e tra i Religiosi per mettere in comune quanto sarà stato elabo­rato e attuato in tema di Umanizzazione dei Religiosi e delle Opere.

Riguardo ai contributi «sul documen­to», debbo dire che essi sono stati talmente numerosi e stimolanti che mi è stato im­possibile inserirli tutti nella revisione dello stesso: avrei dovuto scrivere un tratta­to completo senza tuttavia riuscire a va­lorizzare tutti i suggerimenti e le critiche espresse.

Pertanto ho preso una duplice decisione:

a)   accogliere nel documento finale quelle osservazioni che una volta inserite non snaturavano la sostanza degli argomen­ti originari;

b)   restituire, a tutti i partecipanti ai lavori di Roma, l’intero lavoro di analisi, di commento e di suggerimento.

Tale restituzione avverrà sotto forma di un allegato (Bollettino della Curia Genera­lizia) e avrà lo scopo di garantire ai parte­cipanti e all’Ordine l’utilizzo di un materiale che non deve andare perduto.

Il documento ha subìto, dal punto di vi­sta relazionale, alcuni cambiamenti, come pure si è fatto uno sforzo per rendere più chiari o meno aspri alcuni capitoli. Qual­cuno aveva suggerito di togliere il capitolo sull’amore. Io ritengo che sul modo di trat­tare l’argomento si possano avere differen­ti opinioni, ma non credo che un Religioso - comandato da Dio ad esercitare l’amore verso di sé e verso il prossimo - possa considerare fuori tema tale argomento.

Nel concludere questa lettera di presen­tazione del documento, nella sua versione finale, ho il dovere di ringraziare Voi tutti per la collaborazione e per l’impegno as­sunto a far sì che l’invito dei Padri Superiori dell’Ordine venga accolto: è l’invito a riflettere singolarmente ed in Comunità sul­la Umanizzazione e su tutto ciò che ci oc­corre per sentirci veramente fratelli dei no­stri malati.

Con la consapevolezza che sviluppando la nostra umanità saremo più amorevoli verso i malati e più vivi nelle nostre Comunità.

 

 

fra Pierluigi Marchesi O.H.

Priore Generale

 

Roma 8 marzo 1981

Festività di S. Giovanni di Dio


PERCHE’ IL DOCUMENTO

 

 

Fratelli carissimi,

l’assillo di un dovere da compiere e l’ur­genza di rispondere alle vostre attese, mi hanno indotto a scrivervi. La fiducia di essere da voi generosamente compreso mi ha reso più facile la fatica.

 

Lo Spirito del Signore ci aiuti a com­prendere quale può essere il modo migliore per continuare a rendere testimonianza, nella fedeltà alla nostra peculiare voca­zione, secondo le sollecitazioni del Conci­lio, e secondo i segni dei tempi.

Vi   propongo alcune riflessioni, maturate da tempo nel mio animo, circa l’argomento scaturito dal nostro Capitolo Straordinario:

«Come umanizzare la nostra vita e le no­stre opere». Il fervore con cui tale argo­mento è stato in seguito ripreso e discusso in tanti incontri e nei Capitoli Provinciali dimostra quanto stia a cuore a tutti e con eguale urgenza, la prospettiva di rinnovarci come religiosi — sia individualmente che come Ordine — nello Spirito del Fonda­tore e secondo le Regole e le Costituzioni.

Talmente importante è questo impegno di umanizzare la nostra vita e le nostre opere, che, senza di esso, si perde i! no­stro stesso carisma di servi dell’ospitalità. Da qui la comune esigenza di «rinnovarci per umanizzare»: nella certezza, se riusci­remo, di essere ancora confortati dalla be­nedizione del Signore, di ritrovare in noi più gioia nel sostenere la grande fatica, e di riuscire più credibili di fronte ai fra­telli affidati quotidianamente alle nostre cure.

Potrebbe sembrare addirittura offensivo richiamare a persone consacrate nella vo­cazione di religiosi ospedalieri, l’impegno, assunto davanti a Dio e davanti agli uomini di servire i bisognosi, i malati, i poveri, seguendo le orme del Fondatore. Invece l’esperienza emersa dai nostri incontri, ci dice che anche nei casi più soddisfacenti dal punto di vista delle strutture e delle tecniche adottate, le nostre opere non sem­pre risultano all’altezza delle attese.

 

Se le nostre strutture avessero compiuto ogni sforzo per accogliere l’uomo di questa società, questo difficile malato del nostro tempo — l’uomo totale intendo — non avrebbe senso la presente riflessione. La mia esperienza di Priore Generale, confer­mata dalla Vostra, mi autorizza a dire che il paziente, in ogni parte del mondo, rischia di venire trattato in modo disumano quando deve ricorrere all’aiuto di una struttura complessa come l’ospedale, e che purtroppo anche nel nostro ospedale tale rischio esiste.

Non voglio, qui, fare un’analisi dell’evo­luzione che, nell’ultimo ventennio, ha in­vestito il mondo dell’assistenza, in senso generico, ed il mondo ospedaliero in modo specifico.

Forse abbiamo vissuto questa evoluzio­ne o con indifferenza o subendola, senza percepire le istanze nuove dell’uomo, limi­tandoci a difenderci quando eravamo col­piti dalle storpiature che in esse potevamo cogliere, sobillati da quei perturbatori di professione che esistono in ogni momento evolutivo socio-politico, e in qualsiasi area sociale.

Un Ospedale che cura ma che non si cura del malato rischia, secondo me, di essere un Ospedale disumano e disumaniz­zante nel senso più ampio del termine. E’ vero o no che molto curiamo e poco ci curiamo? Che le molte cose da fare ci al­lontano gradualmente dal rispettare il gran­de obiettivo dell’Ospedale che è quello di aiutare il paziente e soprattutto di curarsi della sua persona?

Ora se è vero che noi, consacrati per la vita a servire l’uomo che soffre, non ci rite­niamo soddisfatti del modo come viviamo il nostro Carisma, non deve stupire che il Priore Generale - spinto dalla vostra stessa insoddisfazione, manifestata in pub­blico ed in privato, da giovani e da anziani - esprima a chiare lettere le sue analisi e i suoi suggerimenti ai confratelli, ugual­mente tormentati di fronte alla propria vo­cazione, e con lui preoccupati di contri­buire, in modo più o meno consapevole, a un processo di disumanizzazione sia del­l’ospedale che dell’assistenza in genere.

A onor del vero, debbo dire che esi­stono opere dell’Ordine che hanno affron­tato l’argomento, testimoniando un impe­gno per il massimo rispetto delle dignità dell’uomo, esse ci autorizzano a sperare in un futuro migliore. Esistono tensioni che alimentano coraggio, dedizione, voca­zioni.

Ma, attraverso l’esperienza dei Capitoli Provinciali, molti si sono interrogati in me­rito al nostro essere religiosi nel mondo sanitario, cui dedichiamo vita affettiva, in­telligenza, azione, sacrificio.

Come può rispondere a queste doman­de il Priore Generale? Col Silenzio? Con un generico invito a fare meglio?

I discorsi «universali » oggi non ser­vono, e tanto meno i discorsi « moralistici ».

Il Vangelo ci richiama l’immagine della scure pronta a calare sulla radice. Il Van­gelo ci ricorda che non si può cogliere uva dalle spine o fichi dai rovi Non mi sento perciò, cari fratelli, di suggerirvi (meglio di suggerirci, perché siamo tutti ugualmente coinvolti) consigli « fa­cili »; e, nel contempo, non mi sento di dare il via ad esperimenti frettolosi, anche se alla moda. Vi voglio invece anticipare la mia proposta di principio: dobbiamo cam­biare radicalmente la nostra vita, se vogliamo trasformare le nostre opere in comu­nità che siano il segno della salvezza ini­ziata da Cristo.

A San Paolo del Brasile Papa Giovanni Paolo II ha ricordato, nel suo discorso ai religiosi, che la vita consacrata non si pone nella Chiesa sul piano delle strutture, bensì nella linea dei carismi. «La ragione prima per cui un cristiano si fa religioso, non è per assumere nella Chiesa un posto, una re­sponsabilità, un compito...».

L’alternativa è posta chiaramente tra chi è tentato di vivere la vita religiosa in quanto garanzia di professionalità o di « mestiere », e chi cerca di farsi un continuo messaggio di gioia (Buona Novella) per mezzo del nostro modo di vivere e del no­stro servizio.

La ragione per cui ci siamo fatti reli­giosi è forse quella di avere un posto, di assumere un compito, di esercitare una pro­fessione, un sapere, un controllo, un po­tere? Se per qualcuno fosse così, ma Dio non voglia, si dovrebbe valutare atten­tamente la seguente alternativa: o buttare la tonaca, oppure recuperare la ragione pri­ma del nostro essere religiosi, magari dopo avere bruciato la poltrona sulla quale abbia­mo realizzato a volte il profondo desiderio di avere una carica più alta, di essere pri­vilegiati e trovarci più comodi. In tutt’al­tra direzione vuole condurci la proposta di « umanizzarci », tema di questa relazione.

 

L’argomento è oggi di moda, e sotto que­sto aspetto esso deve non solo interessarci, ma metterci in guardia da nuovi equivoci, poiché nulla è più grave, alla fine, di un falso aggiornamento, di false «moderniz­zazioni ». La proposta di «umanizzazione» non è una ideologia, non è una filosofia, ma rappresenta un processo di ripristino della nostra alleanza con l’uomo che soffre; al­leanza che rischia di andare perduta, perché forse abbiamo perduto quella con Dio.

 

Noi che crediamo nel mistero, che cre­diamo in Dio per fede e non per adesione conformistica e ritualistica, dobbiamo am­mettere che il nostro « servizio per amore del prossimo » proviene dal nostro essere cristiani in senso pieno. Ora, sulle tracce del nostro Fondatore, il nostro prossimo sono direttamente e prioritariamente gli uomini che soffrono. La nostra vita ha quin­di un suo preciso orientamento, dal momento che abbiamo scelto di entrare nella vita religiosa dei Fatebenefratelli.

Dobbiamo ammettere che tale orienta­mento è faticoso da mantenere; e se l’ab­biamo, anche in parte, perduto, è faticoso da riconquistare. Ma non ci resta altro da fare. E’ questa riconquista, è questo vin­colo « di sangue» tra noi e il malato che io chiamo «umanizzazione ».

La Chiesa, nella misura in cui siamo membra viventi di essa, ci incoraggia affin­ché le nostre opere ed attività «continuino a dimostrarsi luoghi privilegiati di evange­lizzazione, di testimonianza della carità au­tentica e di promozione umana» (dal di­scorso del Papa alle religiose brasiliane).

Prima Dio e poi la Chiesa ci hanno affi­dato il compito di assistere gli ammalati; noi dobbiamo decidere se assisterli per do­vere o per amore, vale a dire per il gusto di esercitare l’amore tutte le volte che lo possiamo, se per il gusto e la follia di en­trare in comunicazione intellettiva, affetti­va, spirituale, con altre persone che sono nostri fratelli, o perché alcune leggi ci im­porranno (prima o poi) di essere più umani con il malato.

Dobbiamo chiederci fino al tormento se ci muove la consapevolezza che il bisogno fondamentale dell’uomo è quello di essere riconosciuto come persona degna per se stessa, degna cioè di ricevere attenzione, premura e amore al di là delle differenze di cultura, di istituzione, di classe sociale, di religione e di razza; oppure se ci muove l’esigenza di avere l’applauso per la nostra bontà e di mantenere in stato di dipen­denza chi è più debole.

Noi non dobbiamo decidere se restare in questa o in quella opera (ciò è molto spesso un falso problema: dove c’è un uomo malato ci sono bisogni che non si possono né si potranno mai soddisfare con risposte economiche e/o tecniche); dobbia­mo decidere tra il testimoniare la Buona Novella con gioia, con una vita ed attività appropriate, e il lasciare l’Ordine Religioso cui apparteniamo perché abbiamo soffocato il nostro cuore, e si è spento l’impulso che ci aveva portati a scegliere di servire il bisognoso. Ma forse, ed è la mia speranza, anzi la mia certezza, non siamo a questo dilemma: anche se sepolto sotto la corazza del nostro conformismo e delle nostre pau­re, il nostro cuore di religiosi continua a battere. Si tratterà allora di disseppellirlo e di aiutarlo a riprendere il suo ritmo, per dare e ricevere quell’amore del quale ab­biamo perduto l’esercizio, ma non la me­moria e il desiderio profondo.

Carissimi fratelli: come potete vedere, l’argomento che propongo alla vostra ri­flessione investe totalmente noi stessi, co­me singoli e come Comunità. Investe me prima di tutto, in quanto persona per ora la più responsabile del compito di diminuire la distanza, nel nostro Ordine, fra gli ideali possibili e la nostra realtà. Non mi consola affatto la consapevolezza che altri Ordini religiosi siano anch’essi in difficoltà nel realizzare i loro carismi specifici. Semmai la cosa mi stimola ad un maggior impegno e ad una maggiore serenità.

Come ho già detto, lo stimolo alla ste­sura di queste note è sorto in me durante il Capitolo Straordinario, ma anche in se­guito a contatti con molti di voi, con laici, con esperti interni ed esterni all’Ordine, e grazie alla predicazione e all’attività del nostro Pontefice. Queste note non vogliono essere un documento definitivo, ma una ri­flessione spassionata che ha lo scopo di stimolarne altre, e soprattutto di suscitare in noi la ricerca della nostra umanità senza la quale non potremo in nessun modo diven­tare umanizzanti.

 

Il tutto, dopo avere per prima cosa raf­forzata la nostra relazione con Dio, dalla cui bocca esce la parola che dà a noi, come ha dato a San Giovanni di Dio, la vita ab­bondante.

Vuole essere il mio un messaggio di gioia, di speranza, di fiducia e di fede, in un mo­mento in cui l’uomo, qual è ciascuno di noi e qual è ogni malato, rischia di perdere il ricordo e la certezza di essere stato creato a immagine di Dio. Con la convinzione che ci siamo assunti il compito di aiutare l’uomo più debole e di continuare in tal modo Fat­tività di partecipazione alla sua creazione; al suo divenire « persona vivens ».

Per aprire con tutta speranza il nostro di­scorso, può esserci di grazia e di aiuto que­sta esortazione di San Paolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie, espe­rimentate tutto, trattenete solo ciò che è buono... E il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, vi salvi tutti interi, in spirito, anima e corpo... » (1 Tess. 5, 19-23). Parola tanto più importante in quanto pro­prio con la prima lettera ai Tessalonicesi «comincia il nuovo Testamento». Il tem­po cristiano del mondo ha inizio con questa affermazione di libertà, per cui siamo invi­tati a esperimentare ogni cosa, certi che Dio vuole salvo l’uomo intero: « in spirito, anima e corpo ». Esortazione che deve farsi luce alla nostra indagine per salvarci sia da alienazioni spiritualistiche, sia da sopraf­fazioni di efficientismi, che possono essere altrettanto dannose per l’uomo. Esortazio­ne, per noi religiosi ospedalieri, che som­mamente gratifica la nostra stessa voca­zione, poiché nessuno più del samaritano ha pensato a « salvare l’uomo intero ». Ed è questo lo scopo del nostro esistere.


 

Parte Prima

 

 

L’UMANIZZAZIONE MISSIONE IMPROROGABILE

 

 

Capitolo Primo

L’UOMO COME CENTRO

 

 

Da quando l’uomo è apparso, milioni di anni fa, sulla terra, non ha fatto altro che affrontare i problemi della sopravvi­venza, della convivenza, della conoscenza, dell’amore, dell’arricchimento, dell’afferma­zione, della felicità, della morte. In questa sua continua ricerca di soluzioni, che han­no comportato grandi conquiste e grandi distruzioni, il risultato è stato lo sviluppo della persona umana. Anche se arresti pau­rosi, regressi e barbarie si presentano an­cora ai nostri occhi, è innegabile che la spinta principale del genere umano è un processo individuale e sociale di liberazione, sia da anarchie interne, sia da costrizioni esterne. Il significato della vita e il senso della esistenza esprimono la religiosità di ogni popolo e di ogni persona.

« Chiunque crede che la sua propria vita e quella dei suoi simili sia priva di signifi­cato non è soltanto infelice, ma appena capace di vivere » (Einstein).

Nella ricerca delle risposte da dare al si­gnificato dell’esistenza, la storia dell’uomo è piena di: felici intuizioni, ma anche di prevenzioni e di errori che hanno avuto un peso enorme sulla qualità della nostra vita, sulle nostre aspirazioni e sui nostri com­portamenti. L’uomo si è dato una organiz­zazione del sapere, una organizzazione poli­tica del lavoro, leggi che accolgono senti­menti morali di giustizia, di solidarietà.

L’uomo è complesso, misterioso, artico­lato, ricco di dimensioni; non lo si può ri­durre ad un’unica dimensione, neanche a quella soprannaturale.

La persona è creatrice, è sensibile, ha desideri, paure, limiti interni ed esterni, ha una storia, vive in un determinato ambiente, ha pregiudizi, intuizioni, ha bisogni mate­riali, fisici, psicologici, sociali, morali, spi­rituali, ecc...

Tutto l’uomo è stato « graziato », e il Dio che Cristo manifesta è un Dio umano: « intransigente per la verità e per il Re­gno, diviene pieno di compassione per il carico quotidiano del vivere » (Vivarelli).

Nessun avvenimento umano ha aiutato l’uomo a riconoscersi nella sua fierezza co­me l’avvento di Cristo. La Buona Novella è il messaggio che solleva l’uomo, il po­vero, il debole, il malato ad un rango mai raggiunto prima di allora. L’umanità di­venta un valore per Cristo, un valore reli­gioso. L’umanità diviene divina nel mo­mento in cui il divino diviene umano. Da questo momento il compito dell’uomo è prendere i suoi talenti e farli fruttare, cioè diventare egli stesso portatore di un mes­saggio di libertà, verità e amore.

Il cristiano, quindi, ha da due millenni la prerogativa di testimoniare che l’uomo è sacro, che l’uomo è destinato alla libertà, all’amore, alla verità, e che diventando li­bero, vero e amorevole diviene figlio di Dio.

Il progetto di ogni uomo secondo il cri­stianesimo è quello di crescere, di espan­dersi, di divenire persona adulta, di dive­nire continuamente e di aiutare altre per­sone ad espandersi, a crescere, a divenire. E’ un progetto divino che può essere osta­colato dalla malattia, dalla sopraffazione, dalle paure, dalla corruzione.

Per questo, ogni persona che si occupa del progetto uomo, nel senso sopra indi­cato, è cristiana, anche se dichiara di non esserlo. Mentre ogni religioso che non si occupa di tale progetto non è cristiano, anche se dice di esserlo.

Ciò nonostante, l’uomo è sempre minac­ciato nei suoi fondamentali diritti (Giovan­ni Paolo II): il diritto alla libertà, alla ve­rità all’amore. E purtroppo noi assisteremo ancora a violazioni di tali diritti.

Questa minaccia viene da più parti, per­ché si dimentica che la componente più preziosa della società non è lo Stato, o la «Chiesa», o l’istituto, non è la legge, non è l’organizzazione politica o quella del la­voro, ma è la personalità, cioè la persona nella sua « unicità ed irripetibilità » (Re­demptor Hominis).

Semmai lo Stato ha valore in quanto aiuta l’uomo a divenire persona. Divenire persona vuol dire realizzare ai massimo le proprie possibilità, le proprie potenzialità; questo è valido anche per il cristiano, no­nostante certe nostre scuole abbiano sva­lutato la persona umana, contrapponendola arbitrariamente al soprannaturale: è una delle tante dicotomie del pensiero filoso­fico e di una certa spiritualità o meglio spiritualismo pseudo-cristiano. E oggi stia­mo ancora scontando una secolare e per­vicace prevenzione nei confronti dell’umano.

 

 

Una cultura disumanizzante

 

Non sembri eccessivo, allora, rilevare che l’uomo, oggi, non è sempre aiutato a vivere da uomo. Il progetto umano è in pe­ricolo. Lo riconosce anche un marxista co­me Garaudy, che sancisce: «Si pensa oggi allo sviluppo, non come sviluppo dell’uo­mo, ma come sviluppo scientifico e tecnico di cui l’uomo è diventato il mezzo invece che il fine... La scienza non può essere fine assoluto».

La cultura materialista, che identifica il benessere sulla base delle categorie econo­miche e sociali, con la negazione del divino nell’uomo, ne minaccia gravemente proprio l’umanità.

La cultura sanitaria è largamente disu­manizzante perché «mistifica o tecnicizza i problemi vitali dell’uomo ». Essa inoltre tradisce l’uomo nel suo approccio disuma­nizzante con il paziente, visto solo in quan­to «paziente », sotto l’aspetto « tecnico.

E così non avviene non potrà mai avvenire l’incontro a livello di ruoli: «Tu paziente, io curante» ma solo ed esclusivamente a li­vello di due persone.

E che dire della nostra cultura religiosa? Siamo sicuri di aiutare una persona (ma­lata o non) se la riduciamo costantemente ad una sola dimensione? Se la consideria­mo solo un organo malato, un paziente, un suddito, una cosa di cui impossessarci o di cui disinteressarci?

Può essere difficile comprendere questo rilievo critico sulla cultura; ma ritengo fon­damentale ricordare, cari fratelli, che se non esiste cultura non è possibile lo svi­luppo di noi stessi, e questa è la premessa per aiutare altre persone a svilupparsi.

Paolo VI nella Esortazione Apostolica sulla Evangelizzazione disse: « Il Vangelo, e quindi la Evangelizzazione, non si identifi­cano certo con la cultura, e sono indipen­denti rispetto a tutte le culture. Tuttavia, il regno che il Vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati ad una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane ».

Che cosa si intende qui per cultura? Due definizioni in proposito: una cristiana ed una laica.

La prima (dalla « Gaudium et Spes »): « La cultura è il complesso di quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplicita le sue molteplici doti di anima e di corpo; procura di ridurre il cosmo stesso in suo potere; rende più umana la vita sociale... esprime e comunica le grandi esperienze spirituali e le aspirazioni».

La seconda (Marcuse): « Dovremmo de­finire la cultura come un processo di uma­nizzazione, caratterizzato dallo sforzo col­lettivo di proteggere la vita umana, di faci­litare la lotta per l’esistenza e di sviluppare le facoltà intellettuali dell’uomo, di ridurre e sublimare l’aggressione, la violenza, la miseria ».

Queste citazioni ci aiutano a ricordare il significato e il riferimento antropologico della cultura: ciò che serve all’uomo per vivere da uomo. Soffermiamoci ora sulle due definizioni: « rendere più umana la vita sociale » e «proteggere la vita umana », esse ci ricordano che la vita umana è in pericolo in tutti i continenti. Tutte le volte che noi non trattiamo con rispetto e fiducia un uomo, noi mettiamo in pericolo il suo pro­getto.

La creazione dell’uomo non si compie con la sua nascita, anzi questa ne segna appena l’inizio. E noi che abbiamo scelto, per vocazione, non di salvare tutti gli uomini, ma quelli, pochi o tanti, coi quali la vita ci mette in contatto, siamo sicuri di possedere la cultura necessaria per avvi­cinarci all’uomo in pericolo? Oppure par­tecipiamo freddamente alla sua spoliazione fisica, psichica, sociale e morale?

Abbiamo bisogno di conoscere i fattori culturali, positivi e negativi, che possono aiutarci a servire l’uomo di oggi nelle sue aspirazioni e nei suoi bisogni.

Non sta a me identificare gli aspetti ca­renti della cultura dei nostri Confratelli. Mi basta affermare con certezza che noi siamo carenti non di studi, non di corsi o di scienza, di tecnica e di attività — perché la cultura non si definisce, e va al di là del sapere e del fare — ma la nostra carenza consiste soprattutto nel non essere in fun­zione del fine: l’uomo.

E senza un’esatta visione del fine — aiutare i sofferenti ed i poveri perché pos­sano vivere da uomini — non v’è cultura, e perciò non v’è umanesimo, né cristia­nesimo.

Quando parlo di cultura umanizzante, parlo di persona e di azione orientate verso l’uomo, verso il fine ultimo di noi religiosi attivi, come ricorda in continuazione Gio­vanni Paolo II. Si possono usare il Van­gelo, la preghiera, la regola per allontanarci dagli uomini, per tenerli in soggezione; la scienza e la tecnica per tenere sotto mi­naccia il genere umano. Ma si possono uti­lizzare vita religiosa, azione, scienza e tec­nica per sviluppare l’uomo, per proteggerlo nel momento della debolezza, per assicurargli libertà, responsabilità, desiderio di vi­vere da uomo.

Dobbiamo vivere la nostra cultura, in tutti i sensi, non per diventare eruditi, sac­centi, o per collezionare diplomi e lauree. Abbiamo bisogno di fratelli che studino, che riflettano, che preghino per rendere più onore al malato, a colui che può per­dere, magari sotto i nostri occhi, la propria umanità.

Rivedere la nostra cultura significa non solo e non tanto leggere di più, riunirsi di più, ma soprattutto finalizzare le nostre conoscenze, le nostre abilità, le nostre ca­pacità. in questa ottica, il Capitolo Gene­rale Straordinario è stato una formidabile occasione per diagnosticare la nostra sa­lute (o la nostra malattia, perché anche gli Ordini Religiosi si ammalano e muoiono), e per assumere la responsabilità della nostra cultura, di una cultura che sia so­prattutto umanizzante.

Chi deve rivedere la propria cultura? Solo i fratelli giovani? Solo noi religiosi? Tutti. I religiosi in primis, ma anche i laici, se vogliono, senza ipocrisia, che le nostre Opere siano veramente ospitali!

Ai fratelli più anziani voglio ricordare che sicuramente essi sono più vicini alla cultura umanizzante di quanto si possa cre­dere, sicuramente più vicini dei giovani, per il semplice fatto che sanno, per esperienza diretta, quali siano stati i momenti umaniz­zanti e quali quelli disumanizzanti della loro vita. I fratelli anziani sono ricchi di spiritualità, proprio perché come San Gio­vanni di Dio, non hanno fondato nessuna scuola di spiritualità, come San Giovanni di Dio hanno cercato di fare i samaritani in semplicità ed immediatezza. La persona colta, ricca di cultura umana, è una persona semplice. Contrariamente all’opinione co­mune, la spontaneità è l’elaboratissimo ri­sultato di un lavoro di emancipazione inte­riore dalle costruzioni ideologiche, razio­nalizzanti ed artificiali. Semplici non si na­sce, ma si diventa attraverso un lungo sfor­zo, un impegno che però premia, perché quello che sgorga da noi, pensieri, azioni, rapporti, viene direttamente dal cuore. La grandezza della personalità di San Giovan­ni di Dio consiste proprio nel fatto che egli, semplice laico, ha compreso e realiz­zato con tanta passione la fondamentale e profonda essenza della vita cristiana.

San Giovanni di Dio aveva raccolto e col­tivato — da qui la sua grande «cultura » — l’idea che occorre dedicare tutta la vita al­l’amore di Dio ed al servizio degli amma­lati. La sua carità era rivolta a proteggere la vita umana, a rendere onore al bisognoso, a diminuire la miseria. Questa era la cultura del nostro Fondatore, che proteggeva la vita umana assistendo l’uomo per i bisogni cor­porali, per quelli morali e per quelli spi­rituali.

 

A questa cultura noi dobbiamo attin­gere per rinnovarci.


 

Capitolo Secondo

IL MALATO, QUESTO SCONOSCIUTO

 

 

Se l’uomo rimane sconosciuto, si trova immediatamente emarginato. Se non viene accolto come persona singola ma come nu­mero, rientra nella realtà inanimata delle cose, delle attrezzature, degli strumenti. Se il malato non è al centro dell’ospedale, al centro degli interessi di tutti gli operatori, religiosi in prima fila, allora altri si met­tono al suo posto. Non è raro negli ospe­dali vedere emergere la centralità del me­dico, o dell’amministrativo, o del sindaca­lista o del religioso: tutti usurpatori. Per­ché il posto centrale in Ospedale non spetta ai medici, né agli infermieri, né agli am­ministrativi, né alla comunità dei religiosi. Diceva un vescovo in Africa rivolgendosi ad una nostra comunità: «Se c’è un pa­drone nell’ospedale, deve essere il malato ».

Ma come mai la centralità del malato si perde? Perché una istituzione voluta ed alimentata da persone consacrate (che giu­rano fedeltà a Dio e al malato) diventa in­fedele, tradisce cioè la promessa? E’ solo questione di egoismo, di assuefazione?

Io penso che l’infedeltà nei confronti del malato, e quindi la disumanizzazione dell’ospedale e dell’assistenza, dipenda anche dal profondo ostacolo che mettiamo tra noi e il malato. Una barriera conoscitiva ed affettiva, che ci porta a non riconoscere più il malato, a non dargli la nostra atten­zione, ma a fuggire e a rifugiarci nel ruolo, nella professionalità. Non so fino a che punto la barriera conoscitiva sia causa od effetto di quella affettiva. Sono sicuro però che tale barriera impoverisce la relazione tra noi e il malato.

 

Che cosa c’è dietro la barriera?

 

Se osserviamo una persona malata quan­do entra nel nostro Ospedale, che cosa ve­diamo? Innanzitutto che è preoccupata per la malattia, per la sofferenza che la ma­lattia inevitabilmente comporta. La malat­tia è un insulto, è un’evenienza minacciosa, è il male, la persona quindi si vede e si sente in una situazione che tra l’altro, oltre ad essere penosa per il suo benessere abi­tuale, la rende insicura e la obbliga a ricor­rere all’aiuto di altre persone, di una strut­tura come l’ospedale.

 

Ed ecco il secondo fattore di crisi per la persona malata, e cioè l’interrogativo: le persone che si occupano di me, l’ospedale, saranno capaci di curarsi di me e di guarirmi?

Per il malato l’ospedale non è il bar, il cinema, lo stadio: è il luogo nel quale si può morire, si può non essere curati bene, si può essere trascurati. E’ noto a tutti che per certe persone l’ospedale è il fattore patogeno per eccellenza. Pensiamo agli anziani che vivono in piccoli nuclei familiari, a contatto con le piccole comodità ed abi­tudini, che muoiono o si spengono psico­logicamente quando si trovano in un am­biente così diverso, così assurdo rispetto al loro modo consueto di vivere. Allora: è l’uomo che si deve adattare all’ospedale o l’ospedale che si deve adattare all’uomo? Da anni scopro una cronica attitudine nei religiosi a non considerare lo sconvolgimen­to fisico ed emotivo che rappresenta per il malato l’entrata in ospedale, proprio per­ché per i religiosi l’ospedale è un ambiente familiare, è il loro ambiente, sono abituati ad esso.

 

Infine c’è sempre un terzo fattore di crisi: la malattia e il ricovero obbligano l’ammalato a non occuparsi più dei suoi problemi quotidiani. La vita, miei cari fra­telli, nei paesi industrializzati, è dura: il matrimonio, la famiglia, il lavoro, l’educazione dei figli, i rapporti sociali sono spesso fonte di preoccupazione per l’uomo, per quell’uomo che entra nel nostro ospe­dale. Si dirà che è dura anche la vita degli operatori ospedalieri e dei religiosi, che fare allora? L’uomo vive la sua malattia in modo unico ed irripetibile, e dei suoi pro­blemi noi non ci occupiamo: ci buttiamo -quanto è più facile! - sul suo organo malato, riempiendoci d’orgoglio quando, quasi per designazione, gli rivolgiamo qua!­che domanda non solamente tecnica.

Ecco, questa è la grande barriera per cui l’uomo rimane lontano, sconosciuto. Questa barriera riduce il valore terapeutico e tecnico dell’ospedale e quindi ci fa com­piere un atto di ingiustizia, ci condanna come cristiani che dichiarano di voler ser­vire con amore il prossimo e invece pec­cano contro la carità.

Qual è il peccato più grave che si per­petua oggi in un ospedale? Ha detto un medico psichiatra: «Fare del male è pec­cato, ma è anche peccato per un medico fare un po’ di meno di quello che potreb­be fare. E’ peccato non essere aperti ai problemi dei pazienti, è peccato la man­canza di comprensione totale, quindi an­che psicologica, di coloro che ci chiedono aiuto. E’ peccato impedire ad un uomo di crescere, di soffrire, se la sofferenza è un mezzo per andare avanti nel vivere. E’ pec­cato visitare in fretta venti persone al gior­no invece di quattro... ».

Il peccato più grave è dunque la man­canza di comprensione dell’uomo nella sua totalità. L’uomo è complesso, ma è un tut­to, ha una unità: a tale unità dobbiamo guardare. Il nucleo regolatore della sua unità è minacciato quando la persona è malata, ed alla disintegrazione può parte­cipare anche l’uomo colto, istruito e pur­troppo anche religioso.

 

E il malato non riconosciuto nei tre fat­tori di crisi o a malapena accolto, diviene debole, più debole: non ha l’assistenza pre­murosa che il nostro ospedale si vanta di offrire.

Il religioso dov’è? Cosa fa nel frattem­po? Di che cosa si occupa?

 

Vi sono tra noi religiosi convinti che ormai sia inutile lavorare nei Paesi indu­strializzati, nei cui istituti non ci sarebbe più nulla da fare. La mia risposta è invece che questi religiosi, in modo più o meno consapevole, intuiscono che il «da fare» è troppo, e che non sono pronti ad affron­tarlo. Perché questo « da fare » comporta, paradossalmente, un modo di essere che il religioso non ha più (magari per il trop­po fare).

 

Chi mi può smentire sulla realtà di soli­tudine, di abbandono, di ansietà, di preoc­cupazione, di povertà di spirito del ma­lato nelle nostre metropoli? Chi può soste­nere che nel nostro mondo cosiddetto in­dustrializzato non si soffre più perché i bi­sogni materiali sono stati soddisfatti?

 

Cari fratelli, io so che a questo punto qualcuno di voi mi porrà la domanda: ma allora dobbiamo diventare psicologi, assi­stenti sociali? Tento di rispondervi così: prima di decidere cosa fare, dobbiamo sco­prire di cosa ha bisogno il malato. Provia­mo a fare qualche piccola ricerca, magari quando il malato lascia l’ospedale. Andia­mogli a chiedere (naturalmente dopo aver cambiato la tonaca ed esserci messi dei baffi per non farci riconoscere): « Che cosa hai ricevuto durante la tua degenza? ». Ne scopriremo delle belle! Scopriremo che la critica più forte non è rivolta alle capacità tecniche degli operatori, ma a quelle uma­ne, soprattutto dei religiosi. Il malato è veramente addolorato non quando scopre l’incompetenza del religioso, i suoi limiti, il suo tic, la sua immaturità, ma piuttosto quando lo trova carente di attenzione, di capacità di umanità, di personalità.

 

Io farei una distinzione tra « capace » ed «abile ». Capace (in latino capax, dal verbo capere) significa letteralmente atto a contenere, spazioso, in grado di ricevere, di accogliere. Certi medici, infermieri, reli­giosi sono in grado di dare qualcosa, di offrire delle prestazioni, ma non di ricevere, di fare spazio alla persona del malato. In loro non vi è posto per l’altro.

 

Sono bravi, abili, perfino famosi, ma non certo capaci. Il religioso più capace è quello che riesce a far posto al malato nella sua totalità, altrimenti anche la guari­gione definita completa, sarà sempre par­ziale - Qualcuno ha detto che «ognuno ha la guarigione che si merita ». La cosa non vale soltanto per il malato; direi che vale soprattutto per i medici e per i religiosi ospedalieri.

In un recente libro dal titolo « Il ma­lato, protagonista sconosciuto », un giovane paramedico olandese descrive che cosa si­gnifica ammalarsi. Il malato può sentirsi estraneo, angosciato, diverso; la medicina, invece, ha scarsamente considerato questo carattere che la malattia possiede. Esso co­stituisce per il malato un diverso anda­mento della vita, per cui egli diventa estra­neo anche ai parenti..- ed agli amici. E dove si colloca l’infermiere? Risponderei con le parole di Virginia Henderson «l’infermiera è temporaneamente la coscienza di chi si trova in stato di incoscienza, l’amore per la vita del suicida, la gamba di chi ha subito l’amputazione, gli occhi del cieco, il mezzo di locomozione del neonato, la consulente, la confidente e la portavoce dei più deboli ».

 

Guai venir meno a questa nobilissima e delicata funzione. Guai limitarsi agli inter­venti tecnici e perdere di vista il malato, il contatto naturale, da persona a persona senza complessi, cordiale; perdere cioè quel calore che spesso si rivela l’unica medicina di cui il malato ha bisogno per guarire o per morire in pace.

Noi, cari fratelli, ci siamo talmente abi­tuati alla malattia da abituarci al malato, da assuefarci ad esso, col risultato di eri­gere una barriera alla sua conoscenza e, di conseguenza, alla nostra efficacia di ope­ratori, di uomini e di religiosi.

Se abbatteremo questa barriera allora sapremo che fare. E sicuramente troveremo che per prima cosa dobbiamo essere più capaci, più attenti, più puntuali, più per­sona e meno ruolo. Faremo in noi stessi la riscoperta che « essere » con il malato è più importante che «fare» per il malato. Ma per essere veramente con un altro bi­sogna prima ascoltarlo, conoscerlo, condi­viderne problemi, aspettative, difficoltà, sto­ria ed umanità. A quel punto e solo a quel punto, noi avremo la risposta. E sarà tale da qualificare la nostra professionalità, dan­do senso alla parola assistenza e soprat­tutto riconoscendo valore alla persona nel­la sua interezza.


 

Capitolo Terzo

L’OSPEDALE DISUMANIZZATO

 

 

E’ sufficiente leggere i quotidiani o en­trare in una libreria per documentarsi in abbondanza sul tema della disumanità di cui è teatro l’ospedale in tutti i paesi del mondo e in tutti i sistemi sociali vigenti. Gli stessi Servizi Sanitari nazionali sono in gran parte sotto accusa: in particolare il malato, anche negli stati ad assistenza sanitaria più sofisticata è il grande schiac­ciato. La burocratizzazione eccessiva com­porta la spersonalizzazione: l’individuo da uomo diventa cavia, e l’ospedale una ca­tena di montaggio.

La disumanità del servizio — è ormai noto — non solo si traduce in disagi per l’ammalato, ma spesso diventa per lui addi­rittura causa di altre malattie. Un quoti­diano italiano riferiva l’esperienza di una ginecologa, ricoverata per la nascita di un figlio proprio nel posto in cui abitualmente lavorava. Ebbene, lei stessa si è sentita trattata, dopo un po’ di tempo, come una «cosa», subendo una serie di «piccoli so­prusi che ti snervano e ti fanno sentire nien­te e nessuno». Un ingranaggio nella mac­china della salute! Solo quando l’infermiera di turno ha saputo che era medico, ha cambiato completamente atteggiamento.

 

 

Carcere o azienda?

 

L’Ospedale disumanizzato e disumaniz­zante non sfugge a un duplice destino: di­ventare carcere o azienda, anche se mo­derna. Il dizionario dà la seguente defini­zione di carcere: « Luogo in cui vengono rinchiuse le persone private della libertà personale per ordine dell’autorità compe­tente». Negli ospedali, nei nostri ospedali l’autorità competente è il medico che sug­gerisce il ricovero al malato, il quale può essere letteralmente rinchiuso, confinato e privato della sua libertà personale.

La macchina della salute lo confina in sala d’attesa: egli deve consegnare ai me­dici, agli infermieri e ahimé!, ai religiosi, il suo fegato, il suo cuore, le sue gambe. « Ci pensiamo noi — gli dicono — lei non deve interferire nel corso dei lavori, se ne stia buono, non dia fastidio, non disturbi. Lasci fare.. ». Insomma, deve mettersi da parte!

Così l’uomo viene spogliato non solo dei suoi abiti, ma della sua concretezza - quest’uomo qui, con questi problemi, con questa storia, in questa situazione – del suo essere soggetto, e gli si fa indossare il pigiama del caso clinico, dell’organo ma­lato.

Penso a certi manicomi del passato, ma anche del presente, penso ad orari di visita addirittura pazzeschi per i parenti, penso alla spoliazione del malato del diritto al­l’informazione e alla propria identificazione personale. Penso agli spazi nei quali, in pi­giama, il malato vaga nell’ospedale, pro­prio come un carcerato. E noi non ci accor­giamo di essere carcerieri soprattutto quan­do utilizziamo il nostro potere, le nostre comunicazioni, per dare ordini, per rendere ancora più deboli le persone, per rimpic­ciolirle.

Almeno visitassimo i nostri degenti-car­cerati secondo il consiglio evangelico!

Il carceriere non visita nel senso evan­gelico: controlla, punisce, sorveglia, offen­de se non si sente prontamente obbedito. Nel carcere, al centro, invisibile ma pre­sente, non è l’uomo ma la espiazione, la colpa. Purtroppo anche nelle nostre Opere la malattia diviene una colpa. A volte l’han­dicap mentale o fisico è pretesto per umi­liare, per farci sentire superiori, migliori, fortunati, quando poi non utilizziamo il mi­norato per i nostri comodi, i nostri piaceri, o come spia, come secondino aggiunto per mantenere il nostro controllo sulla situa­zione, sulle persone.

Quanta mancanza di dignità umana e cristiana nell’ospedale disumanizzato, dive­nuto pian piano carcere del malato e no­stro, luogo di morte e non di speranza e di misericordia! Dall’altro lato abbiamo l’ospe­dale-azienda, quello che in virtù di una valida premessa di efficienza — da perse­guire sempre in ogni opera — mette sullo sfondo il problema dell’efficacia, che ri­guarda l’obiettivo salute del malato, sem­pre intesa come benessere biologico, psico­logico, sociale, spirituale.

L’Ospedale-azienda lo si riconosce subi­to: vi si parla di profitto, di quantità di degenze, di livelli di retribuzione, di camere attrezzate, di moquette negli uffici, di preoc­cupazioni economiche: non si parla mai del malato, se non come di un oggetto che deve garantire soddisfazione economica ai bilan­ci dell’opera.

Non bisogna essere contrari alla moder­nizzazione dell’Ospedale. Anzi, è un bene che molti abbiano dato la dovuta impor­tanza alla modernità, alla efficienza, alla rispondenza tecnica e spaziale delle nostre Opere. L’efficienza è certamente un valore, un grande valore. Ma non l’unico.

Che cosa distingue un’azienda da un ospedale? Il fatto che l’Ospedale produce salute, non solo risultati economici. Vuol produrre benessere per un uomo che è in stato di malessere. La disumanizzazione dell’ospedale-azienda è molto difficile da ve­dere di primo acchito. In genere l’Ospe­dale è bello, moderno, costruito da poco, ricco di malati. Ma l’umanità c’è? Dov’è l’umanità se si dedicano ore per fare bilanci e pochi minuti per discutere dei malati, dei loro problemi anche assistenziali?

L’Ospedale-azienda non è il nostro mo­dello, è parziale, insufficiente e pertanto da non accettare. La più alta efficienza possi­bile non deve mai e poi mai divenire pre­testo per sottrarre al malato la nostra per­sonale attenzione e quella dei nostri colla­boratori.

 

«Di modernità si può morire» dice uno slogan attuale. Invece, di umanità si vive, si spera e si guarisce. E quando non si può guarire, si muore in pace. Perché l’umanità non è solo qualcosa di buono da dare pa­ternalisticamente, ma è una risorsa, è una competenza che ha valore terapeutico, è un « farmaco », a volte il migliore a disposi­zione dell’ospedale.

 

Nell’Ospedale-azienda il religioso divie­ne un manager: e ciò non mi disturba, a patto che non rimanga solamente tale.

 

Il religioso-manager entra presto in concorrenza con i laici, si occupa di tante cose, del benessere economico dell’opera, del per­sonale, degli acquisti, delle strutture, ma rischia di perdere il cuore, la sua umanità.

Di rimbalzo a quanto abbiamo detto circa i pregiudizi e i comportamenti che ci fanno « passare oltre l’uomo », è bene aggiungere qualche osservazione. Il discor­so si può anche capovolgere, almeno in apparenza, iniziandolo dai comportamenti che ci impediscono di giungere all’uomo. Ancora una volta scopriremo quanto sia at­tuale il rischio di non raggiungere mai l’uomo, persino in noi stessi, che siamo per vocazione consacrati all’uomo. L’uomo ri­schia di restare fuori dallo stesso atto di fede, o almeno dal creduto atto di fede; fuori dal « sacrificio » della nostra stessa vita. Tanto che alla fine, in un’eventuale e augurabile presa di coscienza, qualcuno potrebbe anche domandarsi: perché e per chi mi sono « sacrificato »? Che senso han­no dato i voti religiosi a tutta una esistenza?

 

Bisogna avere sempre coscienza degli ostacoli che ci impediscono di giungere al­l’uomo. Ne cito alcuni:

 

a) l’affermazione assolutizzata magari inconscia di noi stessi, invece dell’afferma­zione preminente dell’altro, cioè del pros­simo, del malato nel nostro caso. Solo l’am­malato è un assoluto, è Dio stesso: « io ero ammalato e voi mi curaste ». Purtrop­po stesso di assoluto per noi, magari allo stato inconscio, non ci sono che il nostro Io, la nostra carriera, la nostra professio­nalità.

E’ di questo che dobbiamo essere co­scienti e rendere coscienti gli altri, non tanto con le parole quanto con la vita. L’Io è l’anti-Dio.

La mia umanità sta nella comunione, nella mia donazione all’altro. Dio è « l’esse­re per l’altro », ha scritto Bonhoeffer;

 

b)   altro ostacolo che ci impedisce di giungere all’uomo è l’« Istituto ». Il pro­prio istituto! Un amore che può essere il più idolatrico e deviante. Certo: viva l’Isti­tuto! Come dobbiamo dire «evviva il cor­po ». Vivano tutti gli istituti. Il corpo è la gloria di Dio, il momento della sua visibi­lità. Lo Spirito ha sempre bisogno di segni sensibili per trasmettersi. Ma l’Istituto non è la Chiesa, e neppure la Chiesa è il Regno. Solo nel Regno l’uomo trova la sua defini­tiva dimora, e il povero avrà il suo trono regale. E il Regno è promesso a quanti sono segnati da questa passione dell’uomo, pur se inconsapevoli di essere, nel contem­po, portatori della stessa passione di Dio. Perciò sarà detto loro: « Venite, benedetti, possedete il Regno ». Perché Lui era am­malato ed essi lo hanno curato. Da sotto­lineare: anche se non sapevano di lavorare per il Regno. Noi saremo rivelazione di que­sta speranza, se saremo consumati dalla stessa pietà per l’uomo, per l’ultimo di tutti gli uomini, proprio in quanto religiosi e cri­stiani. Solo così salveremo anche l’Istituto.

 

c) Altro ostacolo che ci può impedire di giungere all’uomo, può essere la ricerca di fare chiesa, intesa questa solamente in quanto istituzione, una chiesa cioè che non sia regno di umanità, anzi di pienezza di umanità come l’umanità è di Cristo che per questo diventa sede della divinità. La Chiesa, o è per l’uomo, anzi per l’ultimo di tutti gli uomini, o non è Chiesa! « Chi è malato che non sia io malato? ».

Tecniche, progressi, efficientismi, per quanto tutti siamo consapevoli del loro va­lore e della loro insostituibilità, possono diventare i momenti più forti di devasta­zione dell’uomo, del suo asservimento; spe­cialmente in ospedale, dove, senza che neppure lo sospetti, il paziente può essere usato non solo come cliente, ma pure come cavia: per il progresso!

Il  luogo che si pensa il più umano di tutti, accanto a una chiesa e a una casa, ecco che può risultare il più disumano; e questo senza neppure la soddisfazione di trovare un responsabile. E, per noi reli­giosi, senza la grazia di dirci responsabili.


 

Capitolo Quarto

LA NOSTRA MISSIONE: IMPEDIRE CHE SI PASSI OLTRE L’UOMO

 

 

A Roma, uno speciale Tribunale per la difesa dei diritti del malato, recentemente costituito, ha denunciato il fatto che « l’assi­stenza ospedaliera ha spesso come risul­tato non la guarigione degli ammalati, ma una loro interiore sofferenza ». Si è par­lato dei difficili orari della vita di corsia, del trattamento da sergente di giornata da parte degli infermieri, delle difficoltà di incontrare i parenti, dell’impossibilità di conoscere le proprie condizioni di salute, di vedere la propria cartella clinica, di man­giare cibo caldo, del fatto, forse più grave di tutti, di essere considerati non uomini ma casi clinici.

Ebbene, al di là degli obiettivi che que­sto Tribunale vuole conseguire, notiamo una costante avvertibile in ogni regione del mondo: l’assistenza sanitaria quanto più si organizza, si specializza e avanza sul piano tecnico e della efficienza, tanto più disu­manizza, cioè passa «oltre» l’umanità, ol­tre l’uomo come persona.

 

L’uomo deve entrare come soggetto — partecipe, informato e responsabile — della propria guarigione o della propria salute. Non è giusto che deleghi ad altri total­mente la tutela della sua salute, e non è giusto che altri lo sostituiscano escluden­dolo dal processo di guarigione. L’uomo non solo ha diritto alla salute — in questo sen­so la carta dei diritti del malato avrebbe la sua giustificazione — ma anche il do­vere di occuparsi in prima persona del suo benessere biologico, psicologico, sociale e spirituale.

 

Ecco, allora, l’aspetto fondamentale del­l’opera di umanizzazione dell’Ospedale: al­lenare tutti a considerare la persona nella sua totalità e non solo nella dimensione patologica, in modo che il diritto della per­sona come tale venga soddisfatto; nello stesso tempo allenare il malato ad assu­mere il dovere di pensare alla propria sa­lute che, tra l’altro, molto spesso è minac­ciata da abitudini di vita dannose. Bisogna convincerci che non è possibile occuparci della salute (intesa non solo come assenza di malattia, ma come benessere biologico, psicologico, sociale, spirituale), di una per­sona, se la si sfiora soltanto, se non la si accosta nella sua totalità per rispondere ai suoi bisogni, per risvegliare in essa il desiderio più umano e più cristiano: quello della sua felicità.

Perché soffre il malato? Perché ha do­lore fisico, ma soprattutto perché vede mi­nacciata la possibilità di realizzare la pro­pria felicità. Perché, ospedalizzato, possa ve­dere attuati i suoi diritti alla salute, oc­corre che qualcuno si occupi di garantire risposte umane e di suscitare partecipazio­ne alla salute, ciò che tra l’altro rientra nei piani di educazione sanitaria di molti Stati.

Non è forse questa, ripeto, l’area di in­tervento, la missione del religioso ospeda­liero in strutture che, se garantiscono ri­sposte tecniche, sono povere di umanità? E’ forse tradire la propria missione restare in Opere complesse (ed erroneamente rite­nute non aventi più bisogno del religioso) per testimoniare quel qualcos’altro che la società tende a dimenticare?

La vita religiosa diventa insignificante quando, invece di fornire qualcos’altro, mira a farsi accettare, vorrei dire a « farsi per­donare » di esistere, adattandosi, entrando in concorrenza, mettendosi sullo stesso pia­no degli altri, quando cioè si limita ad ag­giungere quelle cose che il mondo pos­siede già.

 

Umanizzare l’ospedale non vuole dire aggiungere un lusso maggiore ad opere già ritenute buone, ma vuol dire donare quella cosa di cui l’uomo ha un grande bisogno, o meglio, ha un assoluto bisogno, e cioè l’uma­nità. L’umanizzazione della vita risponde ad una necessità diffusa in tutto il mondo (si chiami rispetto dei diritti umani, rispetto dell’uomo, realizzazione o promozione il di­scorso è sempre lo stesso): la nostra so­cietà ha bisogno di un « supplemento» di cuore, oltre che di un supplemento di ani­ma (Bergson).

 

Credo che il malato di oggi, oltre che di mezzi tecnici avanzatissimi, ha biso­gno di ospitalità nel vero senso della pa­rola. Se l’ospedale non ospita l’uomo, la totalità dell’uomo, noi diamo un grande scandalo, oltre a togliere credibilità alla nostra testimonianza: i malati possono ca­pire qualcosa di Dio soltanto se noi lo ma­nifestiamo attraverso la nostra umanità. Al malato non interessa che il religioso com­peta in bravura con il medico, con l’infer­miere, con l’amministrativo laico; al malato interessa, anche se non lo manifesta, che il religioso sia pieno di umanità, che sap­pia cogliere la sua umanità in pericolo tutte le volte che entra in Ospedale.

 

Al malato interessa avere un punto di riferimento sicuro, un porto cui affidare la propria barca, quella della esistenza mes­sa in pericolo dalla malattia. E chi rappre­senta il porto se non il religioso che, a tempo pieno e per vocazione, per scelta lu­cida e responsabile, brucia la propria vita per il benessere del prossimo?

Eppure quante volte noi non ci accor­giamo di offrire porti impraticabili ai ma­lati, per i quali l’ospedale è una terra stra­niera, un mare denso di pericoli! Per noi l’ospedale è la casa nella quale magari vi­viamo da decenni, e di cui quindi cono­sciamo spazi, persone, funzioni; ma non è così per il malato. Per lui l’ospedale è a volte una giungla nella quale districarsi pe­nosamente, perché nessuno lo prende per mano. Spesso ci lamentiamo perché il ma­lato all’inizio è ansioso, fastidioso, impu­dente! Ma che abbiamo fatto per metterlo a suo agio, per fargli capire che non è fore­stiero, che l’ospedale, è la sua famiglia, che noi siamo i suoi fratelli? L’ospedale non è forse la casa per gli ospiti, l’albergo stesso cui arriva l’uomo portato dal buon samari­tano? I nostri Ospedali non sono forse la casa di Dio, e perciò la Chiesa? E’ così che la nostra ospitalità riceve la sua valutazio­ne teologica. E perché, allora, io lascio stra­niero in patria il malato, l’ospitato? E lo sopporto con indulgenza, con fastidio, in­vece di accoglierlo? Ogni malato che resti straniero è un fallimento della nostra mis­sione. E il malato può restare straniero an­che quando è guarito, se non ha avuto l’at­tenzione che ogni uomo merita per se stesso e perché nostro fratello.

 

A questo punto, capirete che non basta che ci comunichiamo i nostri pensieri sull’Umanizzazione, occorre che ci aiutiamo a scoprire e poi a rimuovere gli ostacoli che ci impediscono di realizzare la nostra mis­sione; occorre individuare insieme quali sia­no le idee migliori per realizzare, oggi come ieri, l’ospitalità dell’uomo contemporaneo, sull’esempio e secondo lo spirito di S. Gio­vanni di Dio.

Come non pensare alla parabola del buon samaritano « Un uomo scendeva da Gerusalemme...! », e riflettere che il samari­tano ha usato misericordia perché l’altro era un uomo, e non perché era un amico o un superiore o un potente?

Non a caso il Signore fa passare sulla strada di Gerico un sacerdote, un uomo religioso; e di Lui dice che «passò oltre », pur avendo visto, cioè conoscendo le condi­zioni dell’uomo incappato in una banda di ladri.

Da notare che lo fa passare per primo. Infatti, quale altro scopo può giustificare una scelta di vita religiosa se non quello di dedicarsi all’uomo, alla salvezza dell’uomo « carico di ferite », lasciato dalla società a morire nella sua solitudine, ai margini del­la strada?

La stessa Chiesa, se non si ferma da­vanti all’uomo, può forse dirsi Chiesa? Cosa possono avere un religioso, un sacerdote, una Chiesa di più importante da fare che occuparsi dell’uomo lasciato solo a morire?.. Nessuna meraviglia che il profeta dica che Dio «volge altrove la faccia » (Is. 2), pur davanti alle nostre « palme congiunte » per pregare, se prima non «scendiamo da cavallo », e non ci fermiamo a raccogliere « nel nostro stesso ospizio » il malato, rapinato di tutti i suoi beni.

E noi religiosi ospedalieri? Facciamo co­me il sacerdote della parabola che passa oltre? Si, noi purtroppo, in molte opere, passiamo oltre: lo sapete anche Voi che si passa oltre... con tante giustificazioni, ma impoverendoci noi per primi. Chi passa ol­tre l’uomo malato, cioè oltre la persona nella sua totalità, non è ancora diventato persona, non ha raggiunto la sua unità, la sua umanità. Difatti, se avesse l’umanità — che è un valore religioso, poiché «Cristo è il volto umano di Dio» — se fosse capace di amare se stesso e di rispettarsi, saprebbe anche amare l’altro, oltre che occuparsi del­la malattia dell’altro.

Sul piano della funzione specificamente sanitaria, passar oltre vuol dire ostacolare il processo di guarigione. Non è forse il paziente, il malato il primo e principale agente terapeutico? Per esperienza quotidia­na sappiamo che il paziente che per vari motivi non collabora, che vive la sua ma­lattia in modo inadeguato, rappresenta lo ostacolo più evidente ad ogni progresso te­rapeutico.

Il samaritano, «passando sulla stessa strada, lo vide e si fermò» perché «mosso a compassione ». Appunto come Dio, il qua­le ha una sola passione, l’uomo! E per lui, per l’uomo e per la sua salute, discende dai cieli.

Questo samaritano, che pure non appar­tiene alla vera Chiesa, una volta conosciuta la situazione del fratello infelice, non solo si ferma, ma subito compie le azioni che possono ben dirsi il programma di vita di un «Fatebenefratello» : sintesi della sua re­gola ed esempio di come eseguirla. Una regola riassunta in questo nuovo decalogo dell’amore.

Così il Vangelo descrive il samaritano, cui si ispira il nostro Fondatore, il quale non per nulla è chiamato «S. Giovanni di Dio », perché appunto « rivelatore di Dio, attraverso l’amore ». Così, dicevo, è descrit­ta la vera regola dell’infermiere divino:

«1)    lo vide,

2)     si mosse a pietà,

3)     si curvò su di lui,

4)     gli fasciò le ferite,

5)     gli versò olio e vino,

6)     lo caricò sul suo giumento,

7)     lo portò nell’albergo,

8)     si prese cura di lui,

9)     pagò per lui,

10)       ritornò indietro a pagare ».

 

Tutto questo intendo dire quando parlo della nostra missione, quando faccio appel­lo a tutte le vostre volontà per impedire che si passi « oltre » l’uomo.


Parte Seconda

 

 

UMANIZZARSI PER UMANIZZARE

 

 

Capitolo Primo

LA NOSTRA REALTA’ CI STIMOLA

 

 

Fratelli, quando si arriva a vedere con chiarezza la stupenda missione che Dio ci ha affidato in nome di Gesù, cioè offrire ai nostri Fratelli che vivono il dolore della malattia o della solitudine, una accoglienza fraterna che li aiuti a recuperare la spe­ranza di vivere, mi viene spontanea una do­manda inquietante: « Siamo capaci di vi­vere questa missione conservando il nostro stile di vita attuale e le forme di apostolato che finora abbiamo sviluppato?

Ho l’assoluta certezza che la nostra mis­sione ci rende capaci di offrire all’uomo di oggi risposte che lo aiutano a vivere uma­namente. Però, allo stesso tempo, mi vedo obbligato a riconoscere che il nostro modo di vivere da religiosi e le forme con le quali realizziamo la nostra missione di carità, ri­chiedono da noi una revisione in profon­dità.

Questa considerazione, oltre che frutto della mia esperienza di Superiore Generale dell’Ordine, è stata confermata e fatta pro­pria dall’ultimo Capitolo Generale e mani­festata, in modi differenti, in tutti i Capitoli Provinciali.

Per questi motivi, sento di dover far mie ed invitarvi a far vostre, con serietà ed impegno, le seguenti parole dei Padri Capitolari: « Tutta questa problematica ci ha fatto prendere coscienza che — dato il rapido cambiamento della società in cui viviamo — l’Ordine si trova ad una svolta decisiva in cui occorre prendere sul serio la realtà, valorizzarla alla luce del Vangelo, e por mano ad indilazionabili cambiamenti, se vogliamo che il Carisma di S. Giovanni di Dio continui ad essere vivo nella Chiesa ». (DCGS 2°, B., p. 24).

 

Queste parole ci confermano l’urgente necessità che abbiamo di impegnarci, ogni giorno più in profondità, nel rinnovamento autentico della nostra vita e delle nostre opere apostoliche. Partendo da questo con­vincimento, che, son sicuro, è condiviso da tutti i Confratelli dell’Ordine, mi sento in­coraggiato ad offrirvi la mia riflessione per­sonale riguardo alla problematica che vi­viamo come religiosi ospedalieri, nella spe­ranza di contribuire positivamente ad una decisione serena della nostra vita personale e comunitaria, in modo che la nostra mis­sione di carità, migliorata nei livelli di uma­nizzazione, possa rispondere adeguatamen­te alle speranze e alle necessità dell’uomo che oggi soffre accanto a noi.

 

Ombre nel nostro « stile di vita »

 

Sono molti gli aspetti positivi della no­stra realtà che è necessario tener presenti nel momento in cui tentiamo di risolvere i problemi delle nostre Comunità e dei Cen­tri nei quali svolgiamo la nostra azione di carità.

Saremmo ingiusti se non riconoscessimo che, pur negli inevitabili limiti umani, i no­stri Confratelli vivono davvero la loro voca­zione ospedaliera, sentendosi assai uniti a Dio, e che, partendo da questa esperienza si impegnano con entusiasmo nel servizio dei bisognosi.

Saremmo parimenti ingiusti se non rico­noscessimo che, in generale, esiste una sen­sibilizzazione al rinnovamento, e che vi sono Comunità che hanno preso sul serio tale impegno.

Non saremmo obiettivi né dimostrerem­mo la nostra fiducia e gratitudine a Dio se non riconoscessimo che stiamo vivendo nel­l’Ordine un momento storico, nel quale si avverte più chiaramente la presenza di Dio, il suo amore verso di noi.

Dico questo perché, nella misura in cui siamo coscienti che la nostra vita merita di essere vissuta, scopriamo in essa aspetti che ci sollecitano a crescere e possiamo guardare con fiducia ad un domani mi­gliore.  

Se non fossi convinto che vale la pena di essere fatebenefratello oggi, e che nel no­stro Ordine si mantiene vivo lo spirito ar­dente del nostro Fondatore, rinuncerei a insistere ancora sul fatto che non possiamo nascondere la luce che abbiamo ricevuto, ma dobbiamo invece diffonderla, affinché l’uomo di oggi scopra che Dio continua a preoccuparsi delle sue necessità.

Sono sicuro che, facendo leva sulla for­za che ci viene dal Carisma che abbiamo ricevuto e sull’amore che Dio fa presente in ciascuna delle nostre Case — veri templi di Dio, poiché vi si pratica la carità verso il prossimo — ci è possibile superare qual­siasi difficoltà e, soprattutto, realizzare ope­re capaci di dimostrare ai nostri contem­poranei che la carità cristiana continua a trasformare il mondo.

Le riflessioni che ora condivido con voi, e che toccano gli aspetti negativi della no­stra realtà, così come sono stati messi in evidenza dai Confratelli che hanno parte­cipato al Capitolo Generale, sono fondate sulla fede e sulla speranza. Desidero che siano riflessioni semplici e profonde allo stesso tempo, che non si fermino a questi problemi, ma ci aiutino a vedere le cause degli stessi, ad accettarne con umiltà e con fiducia in Dio le conseguenze, e a cercare tracce di soluzione.

Non si tratta, pertanto, di muovere cri­tiche a qualcuno, né, tantomeno, di giudi­care o colpevolizzare. E’ l’autocritica di un vostro Confratello che, per disegno di Dio, oggi si sente responsabile di collabo­rare con lo Spirito, nel nome del nostro Fondatore, affinché dal primo all’ultimo dei membri del nostro amato Istituto, vivia­mo la nostra consacrazione ai fratelli « in conformità alla vocazione che abbiamo ri­cevuto » (Ef. 4,2).

Nelle Dichiarazioni del Capitolo Genera­le Straordinario si evidenzia la « difficoltà a conciliare i tre livelli di attività del Con­fratello: personale, comunitario, apostolico-ospedaliero» (DCGS 2° A. 3,12).

Se ci chiediamo la causa di questa dif­ficoltà, possiamo facilmente individuarla nel fatto che non viviamo « centrati », vale a dire non abbiamo raggiunto la « unità’» per­sonale che ci rende possibile quel realizzar­ci nella vita, che è la base per poter conci­liare il nostro essere persone e le attività che ne rendono manifesta la vita.

Quando iniziammo il processo di rinno­vamento nell’Ordine, vi dissi che eravamo troppo abituati a coniugare il verbo «fa­re », dimenticando l’importanza di coniuga­re anche il verbo « essere ». Dinanzi alla realtà messa in evidenza dal Capitolo Generale, credo che sia il momento di cer­care di coniugare bene tanto l’essere che il fare, per poter superare la divisione, la dicotomia della nostra vita.

Senza pretendere di fare la teologia del­la nostra vita ospedaliera, mi sembra op­portuno offrirvi alcune semplici idee ri­guardo a ciò che si intende per « vivere » in maniera equilibrata le nostre attività.

Come potremmo riassumere i diversi li­velli che integrano la nostra vita? Ecco ciò che, di primo acchito, credo che sia la no­stra vita come persone e come gruppo:

 

1) siamo cristiani, e per una speciale chiamata di Dio, abbiamo deciso di vivere radicalmente il Vangelo, seguendo Cristo povero, obbediente e casto (cfr. LG, nn. 43 e ss.) sullo stile di San Giovanni di Dio, nell’ospitalità.

 

2)         Non realizziamo individualmente il nostro seguire Cristo, ma come membri di una Comunità — l’Ordine che ci ha comu­nicato il Carisma — e condividiamo la no­stra scelta con un gruppo di persone, riuni­tesi non perché prima si conoscevano ed erano amiche, o al fine di lavorare per gua­dagnare insieme, ma perché tutti vivono la stessa fede in Cristo e tutti, ugualmente, sono stati chiamati a vivere lo stesso Carisma, a realizzare la stessa missione di carità.

Quanto sopra non annulla le qualità per­sonali, né sopprime l’originalità di ciascuno di noi, portatore di una storia personale, di determinati sentimenti, di determinati modi di pensare, ecc.

 

Se consideriamo questi aspetti fonda­mentali della nostra identità come persone e come gruppo, possiamo vedere che la difficoltà di vivere « equilibratamente» i diversi livelli della nostra attività, si deve al fatto che non abbiamo raggiunto quella maturità che è necessaria per essere noi stessi, che sostiene la nostra identità come persone e l’equilibrio della nostra vita.

 

Mi riferisco alla maturità propria di una persona consacrata a Dio nella vita reli­giosa-ospedaliera, maturità personale e di fede. Non esiste maturità religiosa disgiunta da una maturità personale che, anzi, ne è la premessa. Credo sia utile soffermarci su ciascuno di questi punti.

 

 

Manifestazioni di scarsa maturazione affettivo-emozionale

 

L’uomo di oggi, nonostante abbia tante possibilità d’esser felice, si sente insoddi­sfatto, concretamente isolato, solo. Questo sentimento generale è avvertito anche nelle Comunità religiose. La mia esperienza, ar­ricchita da quella di altri Superiori Mag­giori, mi dice che il problema della soli­tudine, dell’isolamento, della difficoltà a sta­bilire relazioni interpersonali profonde che soddisfino le necessità fondamentali di ogni persona riguarda sia i Confratelli anziani, sia quelli di mezza età, che i giovani.

 

Noi che abbiamo abbastanza anni di vita religiosa, abbiamo ricevuto una forma­zione nella quale i valori della persona, e più concretamente i valori affettivi, veni­vano sottovalutati, quando non addirittura repressi, ritenendo che ciò fosse più « per­fetto », che costituisse l’essenza di quanto Dio richiedeva da noi con il voto di ca­stità. Non c’è da incolpare nessuno in con­creto, però ciò non toglie che dobbiamo sen­tircene tutti responsabili perché abbiamo creato ambiti di vita nei quali le persone perdevano spontaneità: le relazioni erano stereotipate, superficiali… fredde.

 

Ci veniva detto che dovevamo amarci così, poiché questo avrebbe accresciuto il nostro amore a Dio e saremmo stati capaci di offrirci più generosamente ai malati. Quali sono stati i risultati? Il Capitolo Ge­nerale, al quale parteciparono Confratelli con notevole esperienza di vita religiosa, ha evidenziato la « Povertà di relazioni inter­personali a livello di fede e di comunicazio­ne di vita» (DCGS II. 3,14).

Il risultato del nostro modo di vivere in comunità non ha dato i frutti che si aspettavano perché si cercava di « spiritua­lizzare » tanto l’amore umano, da dare la impressione che si volesse vivere «disin­carnatamente ».

 

Alle conseguenze che derivano da tale mancanza di maturazione affettiva si ri­bellano spesso i religiosi giovani, che però non si rendono conto che molte volte loro stessi vivono una identica situazione. Essi fanno parte di una generazione nella quale la società ha rovesciato i valori, privile­giando il benessere materiale, a volte fino a fare di esso l’unico centro di interesse. In quest’ambiente, la maggior parte delle famiglie si sono preoccupate che ai loro figli non mancasse nulla, riempiendo le case di comodità. Risultato di questo sforzo? I figli non mancano di alcunché, però quasi non riescono ad incontrarsi con i genitori, o, quando li incontrano, questi sono troppo stanchi per ascoltarli e per offrir loro l’af­fetto e l’appoggio di cui hanno bisogno.

 

In questo modo, ci troviamo dinanzi ad una gioventù insoddisfatta, vuota, quasi senza ideali, in una situazione di cui essa stessa non è responsabile. I giovani, che di­spongono di mezzi di informazione migliori, in generale, di quelli di cui disponevamo noi, scoprono che i valori della persona, soprattutto la capacità di amare e di es­sere amati, sono al di sopra dei valori mate­riali del benessere, che non li soddisfa.

 

Quando uno di questi giovani si imbatte in Cristo e scopre che la sua vita può avere un significato, che le aspirazioni che sente dentro di sé possono essere soddisfatte nel­la vita religiosa, porta con sé tutta la man­canza di affetto, se non addirittura delle tare affettive, e tutta l’insicurezza e l’in­soddisfazione della sua vita anteriore.

 

Credo di non sbagliarmi nell’affermare che se non tutti, certo in quasi tutti i gio­vani che hanno già professato o stanno com­pletando la loro formazione, uno dei motivi che ne hanno determinato la scelta religio­sa è stato, almeno inconsciamente, quello di trovare un ambiente di uomini maturi, che si volessero bene da adulti e li aiutas­sero ad amare e ad essere amati.

 

Qual è l’ambiente che incontrano quan­do vengono? Dicevo prima che non tutto è negativo e che non dobbiamo generalizzare, soprattutto perché stiamo facendo dei passi sulla strada del rinnovamento. Però torno a ricordare le Dichiarazioni del Capitolo Generale Straordinario: «mancano Comu­nità autentiche, capaci di accogliere i gio­vani’» (D.C.G.S. II. 4,16).

 

Di fronte a questi due gruppi di persone —      quelli di noi che hanno ricevuto una for­mazione di tipo piuttosto repressivo ed i giovani, che vivono le conseguenze della nostra formazione nel momento della loro crescita — non è azzardato trarre alcune conclusioni concrete che evidenziano la no­stra mancanza di maturità affettiva.

 

Nelle nostre Comunità ci incontriamo spesso con persone adulte che hanno rea­zioni di tipo infantile, che si evidenziano mediante azioni personali sproporzionate ri­spetto ai sintomi, persone che si credono il « centro » del mondo, quasi che tutti deb­bano pendere dalle loro labbra, e che quasi sempre vivono insoddisfatte. Queste perso­ne sono incapaci di rendersi conto che an­ch’esse sono chiamate a offrire risposte alle necessità dei loro Confratelli.

 

La manifestazione più chiara degli atteg­giamenti infantili emerge quando non si fa altro che criticare la Comunità, esigendo tutto dalla Comunità come se essa fosse la « mamma» che deve alimentare i suoi figli, senza rendersi conto che io, ciascuno di noi, siamo la Comunità, che essa non può funzionare se io non funziono, che non può offrire accoglienza, possibilità di dia­logo, ecc., se io non sono capace di acco­glienza e di avere un atteggiamento che per­metta il dialogo.

Cari Confratelli, non voglio scoraggiare nessuno con le mie osservazioni: mi spinge soltanto l’interesse, il vivo desiderio che in ciascuna delle nostre Comunità possiamo arrivare a superare queste reazioni che tan­to pregiudicano la crescita del gruppo e che, in definitiva, non si addicono a per­sone adulte, spesso avanzate negli anni. Ve le offro con tutto l’affetto che nutro verso di voi, in modo che qualora vi riconosciate in qualcuna delle cose che ho evidenziato, in­vece di scoraggiarvi, le prendiate in consi­derazione e cerchiate di superarle, convinti che la persona, soprattutto la persona che crede in Dio, è sempre capace di « rina­scere ».

 

Altre manifestazioni di immaturità del­le persone, che rendono difficili le relazioni e la crescita dei gruppi, sono gli atteggia­menti adolescenziali, che possono manife­starsi con azioni di vario tipo. Vi sono per­sone, molto sensibili, che soffrono quando l’ambiente in cui vivono non offre loro quei segni di accoglienza, di stima e di affetto di cui necessitano. Altre reagiscono negativa­mente quando si parla della necessità di condividere la nostra vita in un clima di maggiore amicizia e profondità, con la scu­sa di difendere la loro « intimità » da qual­siasi « violazione ». Vi sono casi in cui ciò che può sembrare segno di confidenza con la persona in realtà altro non è che il desi­derio di soddisfare una necessità affettiva, uno sfogo personale, e la si scambia per amicizia, la si accaparra, la si pretende co­me esclusiva, al punto da indispettirsi quan­do tale confidenza viene estesa ad altri.

Non è facile arrivare a costruire ed a vivere relazioni interpersonali profonde. Dobbiamo riconoscere che l’amicizia — per essere così necessaria e bella in se stessa — costituisce un privilegio di pochi. La ra­gione è che non è semplice arrivare a vi­vere l’amore adulto, che esige reciprocità, trasparenza, mutua conoscenza, valorizza­zione e accettazione di se stesso e dell’al­tro, a partire da se stesso e a partire dal­l’altro, come persone chiamate a crescere nell’amore partendo dalla libertà e nella li­bertà.

Mi sembra importante, a questo punto, che ci soffermiamo un poco a considerare alcune caratteristiche dell’amore adulto. Tra queste, credo che acquistino speciale impor­tanza per la nostra vita:

a)   la conoscenza di se stessi. Noi che abbiamo vissuto già vari anni nella vita religiosa ospedaliera, durante il periodo di formazione venivamo stimolati soprattutto a preoccuparci degli aspetti negativi della nostra vita. Gli esami di coscienza, i capi­toli delle colpe, portavano ad evidenziare solamente la parte oscura, il peccato... Ci veniva detto che questo era essere umili, che in questo modo si poteva vivere più aperti alla grazia di Dio. Per motivi diversi, anche i giovani scoprono ciò che c’è di positivo nella loro vita partendo da una co­noscenza autentica, reale di se stessi.

Il    fatto è che non ci conosciamo o ci conosciamo male. Ci siamo dimenticati, nel­la nostra vita concreta, che Dio ci ha comu­nicato dei doni, delle qualità positive, e che Egli aspetta e desidera che le sviluppiamo: «Voi siete il sale della terra... siete la luce del mondo... non si può nascondere una città situata sull’alto del monte, né si ac­cende un lume per metterlo sotto il moggio, ma per porlo sul candelabro affinché illu­mini tutti quelli di casa » (Mt. 5, 13-15).

Siamo stati abituati a vedere in modo negativo non solo la nostra vita, ma anche la vita altrui. E quasi mai siamo stati ca­paci di rallegrarci delle qualità degli altri e di ringraziare Dio delle nostre qualità.

b)   La valorizzazione di se stessi. Se non conosciamo ciò che di positivo esiste in noi, è impossibile arrivare a valutarci bene. E dato che è impossibile per l’uomo realizzarsi senza sentirsi valorizzato, è nor­male che egli cerchi compensi fuori di se stesso, si decentri fissandosi o nelle cose, o in qualche persona; anche nel rapporto con Dio avrà un atteggiamento di decentra­mento poiché, partendo da un concetto ne­gativo di se stesso e dalla non giusta valo­rizzazione, cerca negli altri appoggio e si­curezza... quando invece Dio ha fatto cia­scuno responsabile della propria vita e di quella dei Confratelli (cfr. Gen. 4,9; 9,5.6).

c)      L’accettazione di se stessi. E’ ovvio che, mancando i due requisiti anteriori, ri­sulta impossibile una autentica accettazio­ne di se stessi. Nessuno è disposto a rico­noscere che ci siano solo cose negative nella propria vita. E se la parte positiva non l’abbiamo guardata con semplicità, a volte abbiamo quasi paura a scoprirla; ci sem­bra di non essere umili, O ci rendiamo conto che se scopriamo aspetti positivi della no­stra vita, questo ci richiede di svilupparli, oppure non ci accettiamo, o ci accettiamo passivamente, pensando che «siamo fatti così e che non possiamo farci nulla...» o che «Dio ci ha fatti così e non possiamo cambiare ».

Cari Confratelli, vi invito serenamente a prendere in considerazione queste sem­plici riflessioni, che faccio con voi e per noi. Sono sicuro che ciò si potrà aiutare a sco­prire che nella nostra vita personale, nei nostri Confratelli, nelle nostre Comunità, esistono valori che, sviluppati e messi in comune, potranno contribuire a cambiare l’ambiente in cui viviamo.

 

 

Manifestazioni di scarsa maturazione nella fede

 

Quasi non ci sarebbe bisogno di entrare in troppi dettagli, giacché è facile dedurre che la persona adulta che vive con atteg­giamenti infantili o adolescenziali le pro­prie relazioni con le altre persone, lo fa perché non si fida di se stessa, né tanto meno crede negli altri. E se non crediamo del tutto in noi stessi, perché non ci cono­sciamo, non ci valorizziamo, non ci accet­tiamo bene, non è possibile che la nostra fede in Dio sia anche una fede adulta e matura. Dice San Giovanni: «Se non credi nel fratello che stai vedendo e dici di cre­dere in Dio che non vedi, sei un mentitore» (cfr. 1 Gv. 4,20-21).

 

Il    Capitolo Generale Straordinario ci ri­corda che «manca una profonda vita inte­riore» e che sono povere «le nostre rela­zioni a livello di fede» (DCGS II. 2,5 e 3,12). In diversi Capitoli Provinciali si pose in evi­denza che la nostra preghiera è abitudina­ria, che non esiste legame tra la preghiera e il resto della nostra vita...

Per quanto si riferisce al tema della pre­ghiera e del mancato apostolato, sono ogni giorno più convinto che una delle cause di difficoltà, oltre alla principale già enunciata, è la mancanza di uno stile di preghiera pro­pria della nostra vita di Fatebenefratelli. Considero questo un tema di vitale impor­tanza per il conseguimento di uno stile di preghiera coerente con la nostra spiritua­lità. Affido tale ricerca soprattutto ai Con­fratelli sacerdoti dell’Ordine: il loro sarà un grande servizio non solo per i nostri Confra­telli, ma per tutta la Chiesa.

Ma devo ricordare che non è sufficien­te aver scoperto la funzione della preghie­ra: dobbiamo cercare il modo di rendere vive le celebrazioni liturgiche ora abitudinarie, monotone, senza incidenza nella nostra vita normale. Partendo da un equilibrato rispetto degli orientamenti liturgici della Chiesa, è possibile incrementare la creati­vità. Dobbiamo giungere ad uno stile di vita nel quale si renda presente Dio e sap­piamo scoprirlo in noi stessi, nei nostri Confratelli, nei malati e bisognosi, negli avvenimenti anche i più ovvii della nostra vita. Allora la nostra preghiera sarà un autentico segno di comunione tra noi e con gli altri.


 

Ripercussioni sul nostro apostolato

 

Nelle dichiarazioni del Capitolo Straor­dinario leggiamo:

« Il problema fondamentale arriviamo a centrarlo nello squilibrio tra la “logica assistenzialistica” e la “logica evangelizza­trice”, quale lo implica e lo esige il carisma specifico dell’Ordine » (DCGS II. b, p. 22).

«L’esame di questa problematica ci ha portato ad accettare che, alla base della stessa, esiste una realtà negativa: la disu­manizzazione» (idem, pag. 21).

 

Tenendo presenti gli aspetti negativi che abbiamo evidenziato, specialmente gli atteg­giamenti infantili e adolescenziali che si no­tano nelle nostre Comunità, possiamo com­prendere a cosa si debbono alcune delle no­stre reazioni negative nella vita pratica. Vi invito a riflettere con me su quelle che il Capitolo Generale ha sottolineato in modo particolare.

1)   «Corriamo il pericolo di perdere il sen­so apostolico della nostra vita, di non sentirci membri vivi della Chiesa. Siamo trop­po chiusi nei nostri ambienti, nei quali si avverte la mancanza di povertà evangelica, poiché viviamo fuori dalla « realtà quoti­diana del povero» (cfr. DCGS II. 2, n. 5-7, n. 13 e 15).

 

Non convenite con me che è impossi­bile vivere il senso della nostra presenza nella Chiesa, con autentico contenuto apo­stolico, se alla base di tutto manca una personalità matura, centrata su se stessa, centrata sulla propria vocazione — che si considera felice — centrata su Dio?

 

2)   « Ci manca la capacità di comunica­zione dello spirito che viviamo, di quello che significa la nostra missione apostolica, e un autentico stile di assistenza che si centra sull’uomo, che lo serve con dignità ed effi­cienza. Né tanto meno in fluiamo a livello di Chiesa per promuovere e realizzare una degna pastorale ospedaliera » (cfr. DCGS II, 2 n. 7, 8, 9).

 

Credo che sia molto importante, se vo­gliamo recuperare l’autentico significato della nostra missione nella società e nella Chiesa, riflettere sulla « difficoltà ad inse­rire i laici, volontari e benefattori, nel no­stro spirito e nella nostra missione ospeda­liera » (DCGS II, A 2,9).

 

Partendo da un’ammissione obiettiva e serena, è giusto riconoscere che, senza la collaborazione dei 25.000 laici che lavorano con noi, sarebbe impossibile realizzare il nostro attuale lavoro assistenziale e ci ve­dremmo costretti a chiudere la maggior par­te delle nostre case. Inoltre, l’assistenza che offriamo, e che è riconosciuta quasi una­nimamente efficiente, potremo continuare a prestarla sempre meno, essendo noi assai pochi numericamente e disponendo di una qualificazione professionale che non è certo sempre quella a cui, oggi più che mai, l’uomo malato e bisognoso ha diritto.

 

E’ nostro preciso e grave dovere rea­lizzarci davvero, come uomini e come reli­giosi, perché solo in questo modo potremo influire positivamente sulle persone che la­vorano con noi. Senza la collaborazione dei laici oggi noi non potremmo sussistere. D’al­tronde ricordiamo che è la Chiesa stessa che esorta il laico credente ad impegnarsi nell’apostolato, e che anche la sua è testimonianza autentica di Cristo e della altissima dignità della persona.

Con questa presa di coscienza e di cre­scita spirituale, comprendiamo che il laico che lavora con noi è un nostro collabora­tore anche nell’apostolato, oltre che nel la­voro, e non uno che ci fa concorrenza e ci detronizza.

Può essere « detronizzato» solo chi non si sente sicuro né realizzato, non chi si è veramente identificato con la propria mis­sione; chi ha ben compreso che missione non è potere, e il servizio al malato non è un modo per affermare la propria insicu­rezza personale, ma sempre e solo una estrin­secazione del proprio essere e del proprio credo.

Dobbiamo riconoscere che una delle cause per cui siamo incapaci di influire, con la nostra vita, in forma positiva sulla tra­smissione dei valori racchiusi nella nostra missione di carità è « la mancanza di pro­fonda vita interiore, di comunione fraterna e di aggiornamento nella preparazione uma­na, teologica e professionale, ecc. » (DCGS 2°, A II 5).

Penso siamo tutti d’accordo nell’affer­mare che non arriveremo mai a conseguire un rinnovamento in profondità della nostra vita con la sola acquisizione di maggiori conoscenze teoriche, anche se non possiamo prescindere da ciò. Otterremo un cambiamento, un rinnovamento, saremo capaci di comunicare il nostro spirito e la filosofia che anima la nostra vita di persone al ser­vizio degli uomini che soffrono, solo nella misura in cui andremo crescendo ai livelli umani e di fede.

Per realizzarci non basta raggiungere una maggiore maturità psicologica, affettiva o cercare di umanizzare le nostre opere ser­vendoci anche della tecnologia più progre­dita, ma è indispensabile unire maturità umana e maturità di fede. La realtà fonda­mentale che ha segnato la nostra vita è che abbiamo posto Cristo al centro di essa, ed a questa dobbiamo essere conseguenti. Dobbiamo saper unire armonicamente tec­niche, umanizzazione e fede.

Se non riusciamo a vivere in questa di­mensione evangelica tutti gli aspetti della nostra vita, non faremo altro che aumen­tare lo « squilibrio» denunciato nel Capitolo Generale come causa principale di tutti i problemi in cui ci dibattiamo.

Ben conoscendo l’enorme ricchezza uma­na e spirituale che è in stato latente e po­tenziale nel nostro Istituto, vi esorto ad impegnai-vi seriamente a vivere il carisma più genuino che il nostro Santo Fondatore ci trasmise: un profondo spirito di servizio ai bisognosi. Questo vivere nel più genuino spirito evangelico garantirà un futuro per il nostro Istituto.


 

Capitolo Secondo

BASI PER CRESCERE IN UMANIZZAZIONE

 

 

Per rinnovarci nell’umanizzazione della nostra esistenza personale e comunitaria, è sufficiente aver scoperto quali sono i problemi e le principali loro cause. Se ci fermassimo qui avremmo fatto solo un lavoro di analisi, con il pericolo che l’avere individuato i lati negativi della nostra vita, ci porti allo scoraggiamento e ci colpevolizzi.

­Per rinnovarci in profondità, e riuscire ad essere autentici testimoni di umanizzazione, è indispensabile che riscopriamo i valori che esistono in noi e nella nostra comunità, valori che ci potenziano per aver ricevuto il carisma dell’ospitalità e la missione di carità mediante il servizio ai poveri, ai malati, ai bisognosi.

E’ consolante poter condividere con voi tutte le ricchezze che sono racchiuse nella nostra vita. Non pretendo di essere esauriente, né nella enumerazione, né nella riflessione. Voglio solo invitarvi a considerare una realtà che esiste in noi, per incoraggiarci e per rinforzare la nostra spe­ranza. Ci sono, infatti, momenti nei quali, se non scopriamo dentro noi stessi gli stimoli a proseguire il cammino verso la pienezza cui Dio ci chiama, rischiamo di lasciarci prendere dallo scoraggiamento e di abbandonare la strada intrapresa.

 

 

Centralità della persona umana

 

E’ impossibile vivere gioiosamente la no­stra vita quotidiana di uomini, se non sia­mo profondamente convinti che la persona umana, considerata in se stessa e dal punto di vista del piano salvifico di Dio, è porta­trice di determinati valori che la costitui­scono in una realtà inviolabile, sacra.

Ce lo conferma il racconto della crea­zione: « E disse Dio: facciamo l’uomo a no­stra immagine e somiglianza.., e Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò» (Gen. 26-27).

Fin dalla sua prima apparizione sulla terra, l’uomo è portatore delle ricchezze della stessa vita di Dio.., è dimora di Dio, « immagine di Dio », è chiamato a rendere Dio presente nel mondo e a continuare, nel nome dello stesso Dio, il processo della creazione. E parimenti, prima della stessa creazione, il Padre « Ci scelse con Cristo prima di creare il mondo... destinandoci già da allora ad essere adottati come figli suoi per mezzo di Gesù Cristo » (Ef. 1,4-5).

Fratelli, potremo scoprire la enorme di­gnità della persona umana e la profonda sua potenzialità partendo da Cristo, dalla persona di Gesù di Nazareth, «Dio con noi » (Mt. 1,23), e dal suo stile di vita che ci offre il modo più profondo d’essere uomo tra gli uomini e di scoprire la dignità in­trinseca della persona umana. E’ in Gesù che possiamo scoprire cosa significa auten­tica umanizzazione, « incarnarsi » e condivi­dere la vita con i nostri fratelli. E’ in Lui che noi siamo chiamati a contemplare tutto l’amore che Dio professa per l’uomo:

«Dio amò talmente il mondo che dette il suo Figlio perché avesse vita eterna... perché Dio non inviò suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvasse mediante Lui’» (Gv. 3,16-17).

Alcuni pensano che umanizzarsi compor­ti una certa dimenticanza di Dio. Coloro che avessero qualche dubbio su come in­tendiamo l’umanizzazione e i suoi conte­nuti alla luce degli esempi della persona e della vita di Gesù di Nazareth, possono ve­dere ora con chiarezza cosa significhi e come lo stesso Dio, partendo da Gesù, ci inviti a sentirci riabilitati e salvati nella nostra pro­pria umanità... Dobbiamo scoprire che la nostra vocazione di ospedalieri è una chia­mata di Dio per annunziare all’uomo che la sua vita ha un significato, che la sua per­sona è stata collocata dallo stesso Dio al centro della storia del mondo, della storia della Salvezza.

Alla luce di queste semplici considera­zioni, la nostra vocazione di Fatebenefratelli ci costituisce collaboratori di Dio nel proces­so di umanizzazione.

Questa è la vocazione che riceve non solamente ciascun religioso, ma ciascun cre­dente, ciascun uomo. Per questo ci soffer­meremo su ciò che Dio ci chiede e sui mezzi a nostra disposizione per realizzare la mis­sione che ci ha affidato la Chiesa in nome dello stesso Dio.

La porzione di umanità nella quale Dio ci invita a centrare la nostra vita, è formata da coloro che vivono in se stessi la dolo­rosa esperienza della malattia, della solitu­dine, della povertà, del disamore. Sono que­ste le persone che Dio ci affida. E ci invita a vivere con esse, a servirle, a riceverle in noi, dentro la nostra propria esistenza, a riabilitarle e aiutarle a conseguire la pro­pria liberazione e salvezza.

Per vivere in comunità nell’atteggiamen­to di dedizione e servizio alle persone che mancano dei beni della salute fisica o men­tale, di mezzi di vita degni dell’uomo; per vivere il nostro servizio non come semplice altruismo ma come apostolato, possiamo contare sull’esempio di Gesù di Nazareth, e, più vicino a noi, sull’esempio del nostro Fondatore, nella cui vita scopriamo un mo­do concreto di collaborare al processo di salvezza dell’uomo.

Certamente, oggi non possiamo manife­stare la nostra missione allo stesso modo con cui lo fecero Gesù e S. Giovanni di Dio. Pur tenendo presente l’evoluzione verifica­tasi, noi siamo chiamati a « vivere secondo gli atteggiamenti di Cristo » (Fil. 2,5) e gli atteggiamenti del nostro Santo Fondatore.

 

 

Centralità di Dio nella nostra vita

 

E’ questo l’atteggiamento fondamentale di Gesù: egli si sa e si sente uno col Padre, si sa e si sente amato profondamente da Lui.

A partire da questa esperienza di unità con Dio e di presenza dell’amore del Padre nella sua vita, Gesù realizza la propria mis­sione e si sente interiormente appoggiato in tutti i momenti della sua esistenza ter­rena.

E’ questo anche l’atteggiamento fonda­mentale del nostro Santo Fondatore, a par­tire dalla sua conversione. Giovanni di Dio scopre che Dio lo ama. E sperimenta in modo speciale l’amore di Dio nella mise­ricordia che Egli ha per lui.

A partire da questa esperienza, Giovanni di Dio vive l’atteggiamento di misericordia e carità verso tutti gli uomini, si identifica con loro, giunge a riabilitarli e a comuni­care loro l’amore.

 

La manifestazione di Dio come amore misericordioso, con il quale ci comunica la presenza di Gesù, costituisce la base della nostra spiritualità di Fatebenefratelli. Quan­do giungiamo a sperimentare in noi questo amore misericordioso di Dio, ci sentiamo riabilitati nella nostra vita, ci accettiamo come salvati da Dio durante tutta la nostra esistenza, nella misura in cui la accettiamo ogni giorno.

Questa esperienza di Dio che ci ama e ci comunica ogni giorno la capacità di ama­re misericordiosamente i nostri fratelli, potenzia in noi i valori positivi della nostra personalità, e ci aiuta a valorizzarci e ad accettarci, nonché ad accettare le nostre debolezze.

 

 

Esperienza concreta della presenza di Cristo

 

Il modo concreto con cui siamo chia­mati a manifestare Cristo, è l’atteggiamen­to di servizio ai bisognosi, nel suo amore che cura, libera, fa del bene a tutti (Atti, 10,38). Sono i gesti mediante i quali Egli rende presente l’amore misericordioso del Padre verso i poveri, i malati, gli affamati, i peccatori.

Ciò vuoi dire che Gesù ci qualifica per poter vivere secondo il suo spirito, ci chiede di essere testimoni come Lui, amando l’uo­mo, vedendo nell’uomo la sua stessa pre­senza: « Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avete fatto a me » (Mt. 25,40).

Ancora una volta si vede quale impor­tanza ha la nostra vita per Dio e quale fi­ducia Egli ha riposto in noi. Colpisce que­sto atteggiamento di fiducia che Dio ha ver­so l’uomo. Egli sa e conosce la nostra po­vertà, la nostra debolezza, però si fida to­talmente di noi.

Questo ci stimola ad approfondire i mo­tivi che abbiamo per amare la nostra vita, la nostra vocazione; ci stimola a prendere sul serio e a valorizzare la persona, in parti­colare la persona dei Confratelli della mia Comunità.

Questo modo di agire di Dio ci sollecita a scoprire che da quando Egli ci ha scelti come Fatebenefratelli, per seguire Gesù se­condo lo stile del nostro Santo Fondatore, e ci ha portati in Comunità, ci sta chie­dendo di renderci sensibili alla ricchezza di vita dei fratelli e di condividere con loro le ricchezze della nostra vita.

 

 

Importanza della Comunità

 

La chiamata di Dio l’abbiamo ricevuta mediante la Comunità, l’Ordine, e realizzia­mo la nostra missione apostolica spinti dal­la stessa Comunità. Non abbiamo ricevuto un incarico individuale. Non siamo stati chiamati per agire isolatamente. Siamo stati chiamati per condividere la nostra esperien­za con un gruppo di persone che hanno cen­trato la loro vita in Dio, che vivono il Suo amore e si dedicano al servizio dei fratelli bisognosi nel nome dello stesso Dio.

 

Questi pensieri mi riportano alla mente le parole del nostro Capitolo Generale Stra­ordinario:

« Fioriscono comunità fraterne di fede, amore e preghiera, aperte all’uomo che sof­fre, servendolo in semplicità evangelica, se­condo il dono ricevuto per testimoniare la presenza salvifica di Cristo e della Chiesa » (DCGS III, 1).

 

« Il fratello di S. Giovanni di Dio, im­merso in Cristo, vive con i suoi confratelli i valori cristiani e socio-culturali» (DCGS III, 2).

 

In queste poche parole ci sono le basi su cui fondare la nostra vita. Ci dicono che solo quando nelle nostre comunità si vive la fraternità possiamo affermare di essere Fatebenefratelli, e che per vivere in questo modo, occorre riscoprirci, valorizzarci e ac­cettarci nella nostra dignità di persone. Per « poterci aprire all’uomo che soffre e ser­virlo con semplicità evangelica », abbiamo bisogno di coltivare la nostra vita, di svi­lupparla, di crescere come uomini e come religiosi.

E’ impossibile fare un servizio di amore che aiuti a vivere, che riabiliti, se noi non abbiamo avuto e non viviamo un’esperienza di amore. Amore che ci è necessario speri­mentare come uomini nelle nostre comuni­tà, nella persona dei nostri Confratelli.

Per questo abbiamo bisogno di raggiun­gere un equilibrio personale, una matura­zione che ci conduca a realizzare gli obiet­tivi già indicati parlando delle modifiche da apportare al nostro «stile di vita».

Abbiamo bisogno, allo stesso tempo, di potenziare la nostra vita di fede e di con­fessarla nei nostri momenti di preghiera, facendo sì che questi non siano separati dal resto della giornata.

La preghiera ci aiuterà ad ottenere un ambiente comunitario nel quale i fratelli si sentano realizzati come religiosi e come ospedalieri, a vivere in base agli autentici atteggiamenti di povertà evangelica, che ci invitano alla semplicità interiore, alla dispo­nibilità, all’apertura agli altri, a non chiu­derci in noi stessi, a rinunciare a qualsiasi tipo di sicurezza, di privilegio, a qualsiasi forma di potere e dominio sopra le persone, in spirito di servizio.

E’ un atteggiamento, questo del servizio, che dovremmo potenziare in modo partico­lare. E’ un valore importantissimo della vita di ogni persona, che però, e giustamente, lo è assai più nella vita di chi come noi è stato chiamato a servire, per salvare i no­stri fratelli, come Gesù (cfr. Mt. 20,28).

 

 

La comunità come stimolo e appoggio

 

Se arriveremo a vivere in questa manie­ra le nostre relazioni interpersonali, la no­stra comunità sarà per ciascuno un am­biente di stimolo e di appoggio.

 

a)   Stimolo ed appoggio personale

Tutti noi ci ritroviamo, in certi mo­menti, dinnanzi a situazioni interiori ed am­bientali ardue da superare solo con le no­stre forze. Tutti sperimentiamo momenti nei quali la nostra vita sembra non aver significato e Dio è come nascosto, lontano, sperimentiamo che essere religiosi richiede sacrificio.

Se la nostra comunità vive secondo i valori evangelici di povertà e fraternità, e secondo solidi valori umani, in quei mo­menti potremo ritrovare, a volte nella testi­monianza silenziosa dei Confratelli, altre volte nella vicinanza con coloro che vivono con noi ad un livello di maggior confidenza, lo stimolo per reagire alle difficoltà e l’ap­poggio per superarle poco a poco.

Scopriremo specialmente che i nostri Confratelli ci vogliono bene e ce lo dimo­strano, aiutandoci così a superare i momenti duri nella vita di ogni uomo. Inoltre, i confratelli non avranno timore quando sentiranno bisogno di affetto, né andranno a rinchiudersi in se stessi, perché sapranno accettarsi con le loro normali necessità — poveri noi se arrivassimo a pensare che, per il fatto di essere religiosi, non provas­simo gli stessi bisogni di qualsiasi altra persona! — e non si vergogneranno di mani­festarsi poveri, deboli...

Se saremo maturi come uomini, e uomi­ni consacrati a Dio, ci sentiremo capaci di rispondere positivamente a queste neces­sità dei nostri fratelli senza repressione né compensazione.

 

b)   Stimolo ed appoggio nell’apostolato

Se sapremo vivere nelle nostre comunità gli atteggiamenti di servizio, di apertura e di accoglienza reciproca, ci troveremo li­beri nel servire il malato, capaci di offrirgli accoglienza e compagnia.

Nelle nostre comunità in cui si vive l’atteggiamento di servizio, scopriremo che il nostro fratello non ci fa concorrenza, non ci detronizza, non ci sottovaluta. Trovere­mo la soddisfazione di sentirci valorizzati e accettati a partire da noi stessi, e valoriz­zeremo e accetteremo i fratelli a partire da essi.

Se arriveremo a provare questa esperien­za, ci risulterà normale, nel momento di condividere il lavoro con qualsiasi altra persona non religiosa, vedere in essa un compagno, un amico.., una persona degna di essere valorizzata e accettata per se stessa.

Nella Comunità in cui si vivono gli at­teggiamenti evangelici di povertà e frater­nità, nei momenti difficili che a volte at­traversiamo a causa della complicazione delle strutture, saremo gli uni di appoggio agli altri. Soprattutto esisterà capacità di discernimento, di autocritica...

Quando i membri delle nostre Comunità si sentono maturi come persone e come religiosi sono capaci di dialogare, di analiz­zare in comune le circostanze, le difficoltà che la vita comporta... e si aiutano reci­procamente a rivedere gli atteggiamenti personali, a programmare in comune le at­tività apostoliche, a vedere qual è la volontà di Dio in ogni momento.

Quando infine le Comunità vivono in atteggiamento evangelico di povertà, sco­prono come il religioso che ha deciso di imitare Gesù non ha un luogo fisso, ma è chiamato a camminare annunciando sempre la trascendenza di Dio e la propria tra­scendenza... E non si rinchiuderà in opere che non siano più segno del Regno, ma disporrà della forza di decisione adeguata alle circostanze... E alcuni membri appog­geranno altri per aprirsi a nuove forme di manifestazione del nostro apostolato oggi, in atteggiamento di ascolto e di discerni­mento dei segni dei tempi.

Questi sono i punti forti che siamo chia­mati a vivere e a sviluppare, partendo da una visione autentica della umanizzazione della nostra vita personale e comunitaria come Fatebenefratelli. Questi sono i valori che ci aiuteranno ad essere autentici testi­moni di umanizzazione nell’assistenza ai bi­sognosi, difendendo e promuovendo i loro diritti umani; questi stessi valori ci aiute­ranno a vivere relazioni umane profonde, autentiche, con i nostri collaboratori laici, e a promuovere e difendere i loro diritti come persone, non limitandoci a conside­rarli come semplici lavoratori, ma per ciò che sono: i nostri compagni, anch’es­si impegnati nel servizio umano ed umaniz­zante dei malati e dei bisognosi.


Parte Terza

 

 

VERSO L’ALLEANZA CON IL MALATO

 

 

Capitolo Primo

L’OSPEDALE UMANIZZATO

 

 

Non voglio, in questo documento, scen­dere all’analisi di una metodologia tecnico­applicativa per umanizzare l’ospedale come struttura sanitaria: anche se appassionante, questo tema richiederebbe troppo spazio. Pertanto, dopo avere tentato un’analisi dei nostri atteggiamenti umani e spirituali nei confronti del nostro essere oggi figli di Gio­vanni di Dio, voglio solo rivolgere a me stesso ed a voi una esortazione che ci faccia camminare verso il nostro obiettivo.

Umanizzare l’ospedale non è come sten­dere una mano di vernice sulle pareti di una casa; significa intervenire in modo ra­dicale sulla struttura della stessa casa. Fuor di metafora: l’umanizzazione del­l’ospedale non è un qualcosa da fare in più, in aggiunta! E’ un’azione che ribalta i rapporti, le comunicazioni, il potere, la vita affettiva nell’ospedale, in quanto rapporti, potere, comunicazioni e sentimenti sono ri­volti al malato, al suo benessere: il malato è al centro dell’ospedale umanizzato, e fi­nalmente può ricevere risposte non solo scientifiche o tecniche, ma anche umane.

 

Le caratteristiche di un Ospedale umanizzato

 

Un Ospedale religioso che non sappia dare tutte queste risposte, nel rispetto della libertà, della verità, dell’amore, non ha nes­suna possibilità, nessun diritto di definirsi tale. Per essere davvero umanizzato esso deve presentare le seguenti caratteristiche:

 

1)      L’Ospedale umanizzato è spalancato: cioè aperto, trasparente. Tutti lo possono non solo frequentare, nel rispetto della sua efficienza, ma anche vedere, criticare, aiu­tarlo ad essere sempre più puntuale nel ser­vizio.

Alcuni Ospedali del nostro Ordine han­no già trasformato in questo senso strutture e comportamenti. Un Ospedale spalancato, certo, mette in difficoltà, almeno all’inizio. Non è più possibile fare certi giochi, ma­scherare pigrizie, ingiustizie, insufficienze. E’ impossibile in un Ospedale spalancato non seguire con attenzione il malato con la scusa di non avere tempo, o per un reli­gioso sostenere di essere troppo occupato!

L’Ospedale spalancato chiama attorno al malato parenti, amici, infermieri, me­dici, l’ambiente, il territorio, la chiesa lo­cale: non soltanto per avere consensi ed aiuti economici ma soprattutto per ottenere suggerimenti, per creare all’interno un flus­so di umanità davanti alle sofferenze del mondo, senza filtri o false percezioni. Ciò che non è possibile se l’ospedale resta chiu­so: luogo di dolore, di rassegnazione, di puro e semplice inferno terreno. Il vedere l’uma­nità pulsare nelle sue molteplici manife­stazioni, permette al religioso di restare ade­rente a questa umanità.

Non è facile spalancare l’ospedale quan­do i cuori sono chiusi, quando si vive il parente come un nemico, come un secca­tore; non è facile spalancarsi, perché si cor­re il rischio di scoprire i laici molto più ric­chi di noi in fatto di umanità, di amore, di dedizione: tanti padri, madri, parenti, amici hanno molto da insegnarci sul come trat­tare i malati. L’Ospedale spalancato esige religiosi coraggiosi, in grado di collegarsi alla realtà esterna dell’ospedale e a quella interna del malato. L’ospedale umanizzato­-spalancato esige nel religioso ampi spazi mentali ed emotivi, una capacità di vivere con il parente, oltre che con il malato, una capacità di apprendere e di educarsi in con­tinuazione. Il religioso, in un simile Ospe­dale, non può più tirare avanti alla meglio: o cambia, evolvendosi, o rimane schiacciato da attività che non sa svolgere se non in modo stereotipato.

 

2)   L’Ospedale umanizzato ha una map­pa del potere ben precisa, trasparente a tutti i livelli, religiosi compresi.

In questo Ospedale il potere è ritenuto un processo particolarmente importante per garantire efficacia, efficienza, soddisfa­zione dei bisogni del malato. La comunità religiosa, in un Ospedale che vuole umaniz­zarsi, si dà regole circa la struttura e la finalità dei centri di potere, nella convin­zione che il potere è di tutti, anche del malato, e non solo dei vari operatori.

 

Il potere, usato in modo occulto, o in modi non corrispondenti alle esigenze di ruolo, diventa minaccioso e improduttivo. Il religioso, quando è in Ospedale, è il pri­mo a rispettare le regole del gioco, non usa mai il suo abito per arrogarsi poteri diversi da quelli stabiliti. Il religioso, con un comportamento rispettoso del proprio e dell’altrui potere, comunica a tutti gli operatori che senza una forte disciplina dei ruoli e dei mezzi, l’ospedale non può fun­zionare in modo adeguato. Il potere di un religioso in un Ospedale umanizzato è quel­lo di fare bene il proprio lavoro, e di soste­nere l’autonomia, l’assunzione del potere delegato da parte di tutti gli operatori.

 

La fiducia negli operatori laici caratte­rizza il religioso ospedaliero umanizzante: egli vede nei collaboratori delle persone che possono diventare umanizzanti a loro volta; pertanto li sostiene e non li vive come com­petitori, come quelli che stanno «dall’altra parte». Il religioso nell’Ospedale umanizza­to ed umanizzante non copre ruoli se non possiede la capacità adeguata, e non intral­cia il laico nell’assunzione di ruoli anche di grande responsabilità.

 

La chiarezza dei moli favorisce solu­zioni tempestive nei casi di sovrapposizioni di comportamento, di by-pass, di invasione di campo. In questo modo, la mappa del potere, chiaramente modellata secondo le effettive necessità, rappresenta un efficace mezzo per lavorare in modo organizzato e convergente, in una atmosfera di lucidità, di responsabilità e di valorizzazione del ruolo di tutti.

 

3)      L’Ospedale umanizzato crede nel la­voro di gruppo. Una caratteristica dell’Ospe­dale umanizzato è rappresentata dal lavoro di gruppo. Dal Priore all’infermiere, dal medico all’amministrativo, tutti gli opera­tori utilizzano questa tecnica per rendere sempre più ricca l’attività, e per mantenere elevata la propria prestazione professionale. Nell’ospedale umanizzato non si temono le riunioni di gruppo né il lavoro di équipe, anzi si fa tutto per favorirli, per miglio­rarli.

Nel gruppo non ci si ritrova per diluire responsabilità o per perdere tempo, ma per effettuare uno scambio di esperienze, per arricchirsi, per prendere decisioni più sagge.

Il  Priore, in un Ospedale umanizzato, non ha paura di ascoltare opinioni che contrastino con il suo punto di vista, non ha paura di «perdere la faccia» se nel grup­po emergono indicazioni operative migliori di quelle da lui sostenute. Il Priore e la Comunità di un Ospedale umanizzato cre­dono negli uomini che lavorano sotto lo stesso tetto, e fanno di tutto per aumen­tare la confidenza, lo spirito di collabora­zione, il lavoro in comune. Pertanto un Ospedale umanizzato disporrà di molte sale di riunione, di ambienti attrezzati apposita­mente per il personale, di luoghi di svago, di lettura, di incontro, per creare il gusto di comunicare, di camminare assieme, di so­stenersi a vicenda, nel convincimento che tutti gli operatori, assieme, sono umanizzan­ti. Perché il religioso non ha il monopolio della umanizzazione, ma al massimo favo­risce delle iniziative che aumentano il po­tenziale terapeutico dell’ospedale.

 

4)      Nell’Ospedale umanizzato c’è Forma­zione Permanente.

Tale formazione interessa tutti i colla­boratori, in particolare i religiosi. Non si entra nei tempi nuovi senza Formazione Permanente. Non si crea un Ospedale uma­nizzato se la Formazione Permanente non garantisce a tutti, operatori e religiosi, un costante punto di riferimento per mante­nersi non solo aggiornati, ma anche pronti, sempre pronti all’appuntamento col malato, con i colleghi, con i fratelli. L’usura indotta da una struttura come l’ospedale è altis­sima: secondo alcuni esperti, senza Forma­zione Permanente l’obsolescenza tecnica ed umana colpisce il 90 per cento degli ope­ratori nel giro di 5 anni.

Non è mia intenzione approfondire qui i modelli di «Formazione Permanente» a nostra disposizione nei singoli Paesi. Ogni Ospedale dovrà fare riferimento al proprio, mantenendosi però in collegamento con quelle Opere dell’Ordine dove la Formazio­ne Permanente è stata già, e positivamente, introdotta.

 

Quello che mi preme dire è che tutti, giovani e vecchi, siamo in divenire, e tutti, nel rispetto dei ritmi e dei tempi personali, possiamo fare qualcosa per rallentare il nostro invecchiamento umano, professio­nale e religioso.

Per noi religiosi, chiamati a stare al fianco di persone malate, è determinante non entrare in «routine», rimanere freschi anche a 90 anni. Se noi non ci preoccu­piamo di rimanere attenti e premurosi, ve­niamo meno al nostro compito.

 

Ebbene, oggi scienza e tecnica ci pos­sono aiutare anche a imparare, a impedire la sclerosi culturale e relazionale.

La Formazione Permanente all’inizio ci metterà non poco in difficoltà, ma nel tem­po ci renderà più umani, più pronti, più cristiani.

 

5)      L’Ospedale umanizzato è una casa fa­miliare: è una Comunità che affronta con serietà il dolore, che non teme la sconfitta, che produce ed induce nelle persone la spe­ranza. E’ il fulcro intorno al quale ruota la vita professionale, affettiva, intellettiva degli operatori, dei malati, dei parenti. L’Ospe­dale Umanizzato è la domus nella qua­le l’uomo si trova come a casa sua, accet­tato così come è, compreso ed aiutato nei suoi fondamentali bisogni.

Nell’antica prefazione alla vita di S. Gio­vanni di Dio è detto che nel nostro Ordine gli ammalati non devono trovare solo una casa (domum), ma un hospitium pietatis, una casa di amore misericordioso. Se nel nostro Ospedale i malati trovano solo una casa, qualcosa da mangiare e delle terapie, ma non trovano l’amore misericordioso, ri­mangono estranei, stranieri, forestieri al­l’amore umano, alla fratellanza e al mes­saggio cristiano.

Quando alcuni religiosi mi dicono che non c’è più nulla da fare negli ospedali co­siddetti moderni, io rispondo: « Il giorno in cui avrete garantito ai malati non solo la casa ma anche un hospitium pietatis, allora lasciate pure l’Ospedale. Andate altrove, ad evangelizzare. Ma son sicuro che non basterà la nostra vita per trasformare le nostre Opere in hospitium pietatis. Non basterà la nostra vita né quella dei nostri confratelli delle prossime generazioni. «Ho­spes eram, et collegistis me», «Ero fore­stiero e mi avete ospitato». Ma se noi ci limitiamo a fornire solo tecnica, solo al­bergo, ma non l’amore misericordioso, noi non avremo ospitato né l’uomo, né Cristo.

 

Ma, cari fratelli, come facciamo a ga­rantire al malato l’hospitium pietatis se non ci colleghiamo, se non sosteniamo l’al­tro prossimo che, nell’ospedale, è il nostro collaboratore? Come possiamo garantire be­nessere (biologico, psicologico, sociale, spi­rituale) se non amiamo noi stessi e non amiamo i nostri collaboratori? Come pos­siamo mantenere elevata la terapeuticità e l’umanità dell’ospedale se noi lottiamo con­tinuamente col personale, se lo sottomet­tiamo, o se lo ignoriamo nei suoi bisogni di realizzazione, di crescita? Noi abbiamo bisogno della collaborazione, della umanità dei collaboratori. E chi, se non il religioso, deve saper offrire loro quella assistenza, quell’aiuto perché curino meglio i nostri malati? Il collaboratore non è solo un pro­fessionista, è un uomo con una sua per­sonalità, e non raramente ci supera in uma­nità, in spiritualità. E noi invece di utiliz­zare queste presenze come occasione per un arricchimento spirituale, rifiutiamo l’incon­tro: a volte isoliamo proprio le persone più valide, per questa paura di ammettere la nostra ignoranza. Uomo maturo è colui che ammette la propria ignoranza, e solo chi è forte ammette le proprie debolezze.

Quante volte nei miei contatti con i re­ligiosi ho udito parlare di problemi, di con­flitti con questo e con quell’operatore laico; ma quanto poco ho sentito parlare del ma­lato e della voglia di fare sempre meglio per lui!

Essere col malato è il primo nostro compito per realizzare la nostra missione. E’ personalizzare tutti gli eventi significa­tivi. E’ scrivere nel nostro cuore, prima che sulla carta, quali sono i diritti fondamen­tali del malato. E’ medicale, oltre che uma­no, l’atto di comprensione, di personaliz­zazione del rapporto paziente-operatore. Il mondo dei bisogni del malato è stato trop­po poco esplorato nelle nostre Comunità, nei nostri Ospedali.

Il secondo compito fondamentale del religioso è quello di offrire strutture e per­sone efficienti, umanizzanti. Quanto tempo dedichiamo all’assistenza dei nostri colla­boratori perché si formino in continuazio­ne, perché vivano in condizione di «salute» la loro attività? Il prossimo è quindi anche il nostro collaboratore: a lui dobbiamo of­frire attenzione, ascolto, stimolo, esempio, amore e sostegno. A lui dobbiamo guardare come al nostro fratello che collabora con noi all’opera di reintegrazione dell’uomo. Non è necessario che il laico sia credente o si dichiari tale. E’ sufficiente che rispetti la nostra missione in concreto e si allei con noi prima di tutto per garantire al malato il diritto alla salute e al rispetto. E se noi saremo esemplari nell’attenzione verso di lui e verso il malato, se il nostro stile di vita sarà veramente cristiano, il collabora­tore non potrà non adottare comportamen­ti sempre più vicini alla nostra etica. Tal­volta, diffidenza e ostilità non ci verranno risparmiate. Ma forse che il cristiano ha scelto di essere esente da incomprensioni? O ha dimenticato che la sua missione porta scompiglio, scomodità, contraddizione?

Alla nostra personale umanizzazione e conversione si aggiunga la ricerca di un rapporto adulto, cordiale, amorevole con i nostri collaboratori. Se essi sono conside­rati come intrusi o come estranei, noi dob­biamo correre ai ripari, per orientarli verso il centro del nostro operare quotidiano: la salute dei nostri malati.


 

L’Umanizzazione dell’ospedale: atto di giu­stizia o di carità?

 

Il samaritano è portato da Gesù come esempio di amore e di carità per il pros­simo. L’atto del samaritano è un atto di Humanitas e corrisponde ad un impegno filantro­pico, ma non è solo quello. Il samaritano fa tutto gratuitamente, secondo un certo spirito, non mosso da leggi. Tutti i grandi santi, impegnati in opere sociali, reggen­dosi su grandi principi spirituali, morali e cristiani — quelli di cui l’umanità ha ed avrà sempre bisogno per non ripercorrere all’indietro il cammino verso la giungla — non hanno aspettato che il diritto sancisse di riconoscere e di rispettare l’uomo, ma l’hanno anticipato con la carità, col cuore.

S.   Giovanni di Dio, con la sua carità e pietà, non solo ha colmato i vuoti spaven­tosi creati dalle Nazioni impegnate più che altro a farsi la guerra, ma ha stimolato gli Stati ad occuparsi della salute e della po­vertà dell’uomo.

La carità precede sempre la giustizia e la orienta.

Essa sfugge alla regolamentazione, ri­chiede un atteggiamento interiore, non solo un comportamento esteriore, è gratuita, agi­sce non con l’odio verso i privilegiati ma con l’amore per i diseredati.

Il samaritano ha agito per amore del­l’uomo che scendeva da Gerusalemme, non visto da alcuno, in modo disinteressato. L’amore non si può comprare o vendere: è una delle qualità incorruttibili.

Oggi gli Stati si danno da fare per provvedere alla salute dell’uomo. Ciò no­nostante ogni Paese, malgrado gli enormi progressi scientifici, economici, organizza­tivi, tecnici, lamenta che l’attenzione delle opere sanitarie si sposti spesso dal centro della situazione, che è l’uomo, alla periferia, vale a dire, alla parte fisica, biologica del­l’uomo. Oggi l’antica pietas, l’antico rappor­to amichevole tra ospitante ed ospitato è in crisi, e viene nostalgicamente invocato da tutte le parti. E’ paradossale, ma vero, che oggi, mentre si curano meglio le malattie, ci si curi meno dell’uomo.

Non solo, ma la società suscita nuove malattie, nuove dipendenze (dalla droga, dagli oggetti, dai farmaci, ecc.).

E accade un fatto strano. Mentre le con­quiste tecniche si accumulano nei secoli e il sapere si somma, il comportamento uma­no è sempre in gioco. Il bene e il male che l’uomo produce non dipendono solo dal be­ne o dal male delle generazioni precedenti, ma dipendono soprattutto dalla buona o dalla cattiva volontà dell’uomo. La verità, la libertà, l’amore, la capacità al bene non vengono ereditati: sono sempre conquiste personali.

Per questo le opere risultano sempre imperfette di fronte all’ideale. E poiché l’amore non ha mai fine, non possiamo pre­tendere di superare il comandamento dell’amore, ma dobbiamo indirizzarci costan­temente nella sua direzione.

Parlando di Umanizzazione non ci si può limitare a dire semplicisticamente che ac­canto alla nostra Ospitalità dobbiamo in­serire l’amore, l’Humanitas: dobbiamo ri­cordare che la nostra ospitalità è volta ad accogliere chi è afflitto da tribolazioni, oltre che da mancanza di cibo e di far­maci; che l’Umanizzazione ha la sua col­locazione più autentica nel carisma del­la ospitalità, e quindi rientra in quel di più, o meglio di quel qualcosa d’altro per cui il nostro Ospedale deve essere non solo una clinica) un albergo, un ufficio, ma un luogo caldo di «affetto» e dove il malato vede soddisfatte le sue esigenze morali, spiritua­li, soprannaturali, oltre che psicologiche e sociali.

Nelle nostre opere — spesso finanziate da leggi civili, per cui l’assistenza corporale e tecnica è assicurata — commettiamo un gravissimo peccato se ci limitiamo solo a cu­stodire il malato (funzione carceraria) o a garantirgli una buona efficienza (funzione aziendale). E’ il peccato verso la giustizia e verso la carità.

Il nostro compito è garantire giustizia al malato con un trattamento ricco di com­petenze. Ma è anche nostro compito, al di fuori delle leggi umane, rispettare il sacro diritto che ha l’uomo che soffre di ottenere rispetto, dedizione, amore, comprensione, trasparenza, solidarietà. E’ per l’uomo che dobbiamo infiammarci e non per mantene­re potere o conquistare diplomi: a volte ci scaldiamo per le cose e ci raffreddiamo per l’uomo. Non dobbiamo dare solo il pane, ma anche la nostra persona. Al quesito se l’Umanizzazione sia un atto di giustizia o di carità, risponderei subito: oggi è l’uno e l’altro. E’ di giustizia, perché rispettiamo così il diritto dell’uomo sancito dalle leggi umane; è di carità, perché rispettiamo un bisogno, quello di attenzione, che nessuna legge può regolare ed imporre. La carità, l’amore caritatevole, deve sopperire ancor più laddove il diritto umano non è ancora arrivato a proteggere l’uomo nei suoi biso­gni e segnare la strada, indicare e favorire l’avvento della giustizia. Così la carità di­venta strumento di giustizia molto più effi­cace di qualsiasi riforma o rivoluzione so­ciale.

Il     comandamento dell’amore per Dio e per gli uomini sensibilizza l’uomo, l’orienta verso la giustizia.

 

S.  Giovanni di Dio, infatti, seguendo alla lettera l’insegnamento di Paolo secondo il quale le buone opere e l’osservanza delle leggi non bastano, non ha aspettato l’av-vento della giustizia sociale, che il cristiano deve desiderare e realizzare: « la carità... non gode della ingiustizia.

La nostra rivoluzione, quella di seguaci di Gesù, è una rivoluzione del cuore, l’op­zione per i poveri, gli emarginati, i sof­ferenti è, come dice Giovanni Paolo II, da interpretare alla luce del Vangelo: « senza cedere al radicalismo sociopolitico che, pre­sto o tardi, si dimostra inopportuno, pro­duce effetti contrari a quelli desiderati e genera nuove forme di oppressione ».

 

Cari fratelli, quanta ingiustizia noi ve­diamo nelle opere del Terzo Mondo, del­l’America Latina! A volte ci sembra di fare poco, di essere limitati nel nostro apostolato, e sentiamo l’esigenza di modificare lo stato delle cose in modo più diretto e forte, per non dire violento, perché assistiamo alla violenza dell’uomo sull’uomo, perpetrata da secoli.

 

In quei Paesi la tentazione di unirsi ai poveri per combattere i ricchi, gli in­giusti, è molto forte. Quest’ansia di cam­biamento non è negativa, anzi. Mantenia­mola viva; ma non dimentichiamoci mai che noi, quando ci siamo consacrati a Dio e all’uomo, abbiamo scelto di combattere il male col bene, di testimoniare e di comu­nicare ai nostri malati, a quelli che si avvi­cinano a noi, che l’uomo è sacro, che l’uo­mo è il valore; che l’uomo deve diventare libero, vero, amorevole. Se noi diamo alle persone che soffrono per le ingiustizie più gravi il senso della loro dignità, dei loro diritti di uomini, della loro sacralità, allora il povero, l’oppresso, diventerà ricco den­tro, non accetterà più alcuna oppressione e a lungo andare diventerà protagonista del­la propria autentica liberazione. Infatti l’au­tentica liberazione non si può delegare agli altri. Noi siamo già rivoluzionari quando, con amore e per amore, facciamo brillare, nell’uomo che raggiungiamo tramite le no­stre Opere, la luce della sacralità dell’uomo. Gesù non fece rivoluzioni contro la schiavitù, non fece crociate militari. Ma la schiavitù ricevette dall’apparente « inattività » dei pri­mi cristiani il più violento colpo nella storia dell’uomo.

 

La crociata, in quei Paesi ad elevata in­giustizia sociale, la facciamo con la nostra azione di carità che non deve sopperire e ritardare il processo di giustizia, ma anti­ciparlo, precorrerlo, stimolarlo. Un uomo povero e debole, trattato da uomo, esigerà di essere trattato da uomo. Un uomo po­vero, trattato da piccolo, è un uomo violen­tato dal sadismo che ci può accompagnare sottilmente nella brama di aiutare i più po­veri. Infatti, quale sottile piacere è quello di aiutare i poveri, il terzo mondo, per sen­tirci forti sulla debolezza ed ignoranza al­trui! Sì, il vero sadismo sta nel ritenere gli altri tanto deboli, tanto piccoli da non po­tersi difendere o da non imparare mai a difendersi. Così facendo rendiamo gli altri schiavi della nostra potenza e bontà. Noi li asserviamo o quanto meno non li aiutia­mo ad esercitare la propria capacità, la pro­pria grandezza.

In questa riduzione degli altri, apparen­temente mascherata da benevolenza, noi realizziamo il nostro bisogno di potenza. Mentre è nostro compito innalzare l’uo­mo, sollevarlo in alto, dirgli che è suo di­ritto-dovere restare in alto, guardare ad ogni uomo senza sentirsi inferiore a nes­suno.

 

Noi dobbiamo essere profeti e, se neces­sario, martiri come il nostro Santo; non combattenti armati. La nostra vita deve in­dicare in quei Paesi — e non solo in quel­li — il senso da dare all’esistenza.

Questo il programma ispiratoci da Gio­vanni di Dio che non uccise i potenti ingiu­sti di allora, che non fece crociate dopo la sua conversione — che non lottò con odio, ma realizzò — con l’aiuto dei suoi successori — la salvezza fisica e morale di milioni di persone e obbligò i potenti a ri­tenere giusto e sacrosanto il diritto di tutti alla salute, ricchi o poveri che fossero.

Per questo nostro comportamento, per questa convinzione che deve trasfigurare noi e le nostre opere, per questo nostro Ordine, che si muove sulle orme del samaritano, vorremmo che tutti i nostri pazienti potes­sero dire le parole di Ezechia, salvato dalla morte: «Ecco, ritorna in vita lo spirito mio…Ecco il male mutarsi in salute: la vita, o Dio, tu mi hai preservato, e mi hai strappato dall’aspra rovina» (Isaia 38,15). Che lo dicano, anche se per un disegno superiore non avranno ottenuto la salute corporale; che lo dicano ugualmente, perché comunque curati dai Fatebenefratelli: per la serenità spirituale che avranno ricevuto, oltre all’assistenza, dalla nostra partecipazione alla loro sorte.


 

Capitolo Secondo

UNA NUOVA PRESENZA DEL RELIGIOSO

 

 

In queste ultime righe vorrei comuni­carvi il mio pensiero circa le strade da per­correre per realizzare il nostro carisma del­l’Ospitalità.

Nella linea di tale carisma ho cercato di mostrarvi quanto spazio noi tralasciamo di occupare in termini di relazione col ma­lato, con gli operatori, coi parenti, con i laici, con noi stessi.

L’area che appartiene all’uomo, ma che non viene presa in considerazione dalla me­dicina, è enorme. I problemi morali e spi­rituali della vita non vengono presi in carico da nessuno, anche se essi a volte, contri­buiscono a determinare la malattia, la sof­ferenza fisica e possono ritardare il pro­cesso di guarigione.

 

Nelle opere dell’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio può esserci spazio e sensibilità per tali problemi della vita, e persino per quelli connessi alla morte del malato. Anche questo della morte è un te­ma appassionante che sta cambiando l’Ospedale, e che dovrebbe vederci tanto im­pegnati.

La società fortemente industrializzata risponde ad alcuni bisogni dell’uomo, ma crea nel contempo nuove categorie di emar­ginati. In particolare — e qui siamo chia­mati in causa noi Religiosi ospedalieri — il malato è esposto alla emarginazione perché la comprensione e l’amore non sono merce corrente nella società industrializzata.

Ma per dare comprensione e amore al sofferente è necessario credere, non aver paura di amare, di essere amati e persino di essere incompresi, bisogna essere crea­tivi. Senza creatività non si ama, non si può amare! E’ una verità che dobbiamo ri­peterci tutta la vita.

Non c’è vera salute, vero benessere se un uomo malato non può disporre di rela­zioni personali significative, ricche di em­patia e di amore. Ma non c’è amore se noi religiosi ci emarginiamo, se la nostra Co­munità è emarginata, se i nostri collabora­tori sono emarginati magari da noi stessi. Noi siamo ai margini quando non crediamo più nella forza della carità, cioè non cre­diamo più nel Vangelo, nel Fondatore, in noi stessi.

Nella società di oggi disumanizzata, i nostri Ospedali non raggiungono l’obietti­vo di offrire Humanitas al malato, non per­ché mancano i mezzi, ma perché troppi ideali sono soffocati in noi religiosi, oltre che nei cristiani in generale.

Bisogna restare nella storia mettendo in luce i nostri ideali, che non tramonteranno mai. Bisogna stare nella storia riempien­doci di umanità, partecipare alle speranze e alle delusioni dell’uomo. Il mondo ha avu­to e avrà sempre bisogno di religiosi, ma di religiosi non emarginati, non spaventati, non riottosi ai cambiamenti, non passivi, perché ricchi di quella libertà che viene dal­la fede, una libertà che non leghi ad un ruo­lo, ma dia la capacità di una presenza pro­fetica, ci consente di « stupirci» davanti all’uomo, alla vita. Dice un grande scien­ziato che chi non è più in grado di provare stupore né sorpresa è per così dire morto: i suoi occhi sono spenti.

 

Cari Confratelli, quanto è vera questa intuizione! Come è vero che noi siamo di­sumanizzanti quando ci identifichiamo to­talmente nel ruolo e quando diventiamo as­suefatti alle persone, al malato, ai collabo­ratori, alla Chiesa locale. Il religioso è disu­manizzante quando è legato ad un ruolo; ognuno di noi ha corso e corre questo ri­schio mortale. Invece di svolgere mansioni operative in vista di un rapporto migliore, più autentico col malato e con gli opera­tori, ci serviamo del ruolo per nascondere la nostra personalità non piccola, ma schiac­ciata, messa da parte. Legarsi al ruolo vuol dire diventare prigionieri, cattivi (captivus, dal latino).

 

Quanti religiosi hanno lottato per di­fendere questo o quel ruolo invece di espan­dere la loro persona, per dilatarla, così da offrire al malato anche una prestazione di umanità, di attenzione, di amore. Quanti re­ligiosi si sentono morire perché hanno do­vuto lasciare una funzione operativa! Si ve­de che non hanno trovato il vero posto che è quello di stare al servizio dell’uomo e non a servizio del potere, del compito, del­l’autorità.

 

Non stanchiamoci mai di ripeterci che il malato ha sì bisogno di ruoli competenti, ma da noi si aspetta soprattutto la presenza viva, piena di speranza anche e soprattutto nei casi di inguaribilità. Chi viene nei no­stri Ospedali e non trova umanità è vittima di un tradimento.

Noi siamo spenti e traditori quando, en­trando in reparto la mattina, parliamo di malati in termini quantitativi: cioè quan­do diciamo che abbiamo tot malati, che ne sono usciti un dato numero, che ne è en­trato uno nuovo, che dobbiamo fare tante medicazioni. A questo punto dobbiamo ave­re il coraggio di non entrare più in reparto: siamo diventati dei robot. Non ci commuo­viamo più, non abbiamo più la capacità di gioire, di scherzare, di identificarci col ma­lato. Siamo assuefatti, abbiamo perso la parte più bella di noi, la nostra persona, il nostro sentire. E magari pensiamo di aver raggiunto un alto grado di maturazione per­sonale-professionale perché siamo indiffe­renti a tutto, anche alla morte, e pretendia­mo che i malati non facciano troppi ca­pricci, non esigano da noi più tanto, non si considerino unici, diversi, particolari. E quando il reparto esige che tutti siamo uguali, senza renderci conto abbiamo in­staurato la dittatura più spietata e sottile. Sì, perché il dittatore — noto o sconosciu­to, grande o piccolo — è convinto che gli altri siano tutti bisognosi delle stesse cose, per cui, avutele, non debbano pretendere altro.

Il malato — pensiamo — ha un letto, medici, medicine, cibi, di cosa si lamenta? Certo soffre, ma la sofferenza la sopporti... Sapesse quanta ne dobbiamo sopportare noi!

Quanta sofferenza noi distribuiamo quando siamo assuefatti al malato, quando abbiamo gli occhi spenti! E’ normale che i religiosi legati al ruolo e assuefatti, si chie­dano se ha ancora senso restare nelle no­stre Opere o non sia meglio andare verso altre forme di apostolato per meglio rea­lizzarsi. A parte il fatto che la nostra casa, l’Opera siamo noi, si diventa santi solo cambiando la nostra vita, non la naziona­lità o i pazienti: se siamo in Ospedale per «lottare con Dio contro il male » (Teilhard de Chardin), dobbiamo lottare contro il male ovunque esso si trovi e qualunque es­so sia: fisico, psichico, morale, esistenziale, spirituale. E se i nostri collaboratori sono carenti, noi dobbiamo lottare perché allar­ghino ed approfondiscano le aree in que­stione. Il vero male sta nel non lottare per migliorare noi stessi, la nostra Comunità: solo così l’organizzazione del lavoro, l’effi­cienza e l’efficacia delle nostre Opere mi­glioreranno.

 

Il    religioso Fatebenefratello esercita la sua ospitalità quando — e questo è suo compito — mette struttura e collaboratori nelle condizioni di offrire il meglio di uma­nità, di tecnica, di spazi.

Il      rinnovamento, che ci vede tutti impe­gnati, deve portarci a questo profondo cam­biamento che riguarda soprattutto il nostro cuore. « Voi valete quanto vale il vostro cuore ». E’ una affermazione del Papa fat­ta in occasione del viaggio a Parigi. « Tutta la storia dell’umanità è storia del bisogno di amore e di essere amati ». Quanto va­liamo noi? Non è possibile affermare che tutti noi dobbiamo insistere per rieducare il nostro cuore. Non illudiamoci, come uno sguardo superficiale al mondo giovanile po­trebbe far credere, che l’uomo abbia impa­rato ad amare, e che il cuore abbia vinto sull’egoismo, sul potere, sul freddo calcolo.

Quanta violenza; tanto più grave quanto più raffinata: quanta emarginazione, quan­te malattie sociali, quanti milioni di morti di fame perché il cuore non ha vinto! Il no­stro cuore, che ha paura di amare, ha bi­sogno di una lunga rieducazione perché non è più abituato: ha paura di Dio. Ha paura di avere l’attenzione verso l’altro, ver­so il prossimo. Avere un cuore dedicato al­l’amore è un dono di Dio e un’impresa che spetta a chi, come noi, è consacrato al­l’amore serviente. E’ un’impresa, come ho detto, rischiosa e molto lunga: non si ama una persona senza amare sè stessi, e non si può amare sè stessi senza amare gli al­tri. Il nostro cuore può essere protetto da un guscio più o meno spesso ma noi dobbiamo uscirne, se vogliamo dirci cristiani e se vogliamo servire veramente il malato.

 

« Vi toglierò il vostro cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» diceva il pro­feta Ezechiele. Solo Dio può toglierci il cuo­re di pietra, ma a condizione che noi lo vo­gliamo. Pensate: possiamo dire di no a Dio.

Se noi diciamo di sì, dobbiamo educarci ed avere sempre un cuore nuovo, giovane: un cuore che sia il centro della vita spiri­tuale. Un religioso, un confratello, si educa se educa il cuore prima di tutto. Siamo o non siamo convinti che in Ospedale noi sia­mo esposti alla assuefazione e pietrificazio­ne del cuore? Cosa e come fare per evitare il mostro dell’abitudine? Un religioso che si rinnova per essere umanizzante, e quindi veramente ospitale, si ferma a riflettere, da solo o con la comunità, con gli amici e con i collaboratori sul perché della pietri­ficazione. Si rivolge a Dio, a San Giovanni di Dio, ad altri religiosi: frequenta corsi, si dedica ad attività permanenti, a impegni di lettura e di scambio; fa vacanze intelligenti, cerca di cogliere il senso delle opere in via di Umanizzazione (all’interno e all’esterno dell’Ordine); impara ad ascoltare il malato, tende le orecchie a lui oltre che prestare attenzione alle scienze umane.

 

La pienezza di umanità diventa sede della divinità: in analogia alla persona di Cristo.

Per amare se stessi bisogna uscire dalle more del narcisismo egoistico, o del maso­chismo spirituale (che è un altro aspetto del narcisismo); bisogna progettare di di­venire persona con l’aiuto nostro, degli al­tri e di Dio.

Da soli dobbiamo prendere la decisione di diventare persone e non pallide figure anacronistiche. Diventare persone vuol dire considerare i nostri desideri, i nostri sogni, ammettere la nostra grandezza ed i nostri limiti reali.

E avere una sola paura: quella di fare il male.

Ogni uomo ha il diritto-dovere di dive­nire persona, con un cuore di Carne ed una passione per il prossimo.

Ciò non ha nulla a che vedere con il sentimentalismo. A qualunque età noi pos­siamo riprendere il cammino per essere ri­conosciuti e per riconoscerci. Al di là della paura e della colpa, ma nella accettazione dei rischi e delle responsabilità, il religio­so che si rinnova ha davanti a sé un pro­getto entusiasmante: la sua crescita, la sua espansione di cuore e di intelligenza, che si manifesterà, senza tante parole, senza ru­more, senza imporsi ad alcuno. Il prossimo, il malato soprattutto, coglierà in pieno l’av­venuta mutazione. Dentro il suo cuore av­verrà quel tumulto che lo porterà a mani­festarsi, a chiedere, a gustare la nostra pre­senza.

Il religioso che non percorre un cammi­no interiore potrà costruire le opere più belle, potrà avere posti di responsabilità, ma avendo evitato la faticosa salita verso la propria Umanizzazione non potrà otte­nere quella visione, quegli orizzonti che so­lo l’ascesa alla fine gli potrà concedere.

Questi orizzonti non potrà descriverli al malato, al prossimo, perché lui per primo non li ha mai veduti. La prima grande im­presa del religioso è divenire uomo, perso­na. La nostra missione, che è quella di al­largare la nostra domus ai bisogni dell’uo­mo, passa inequivocabilmente attraverso l’allargamento — per mezzo della educazio­ne e della esperienza — del nostro cuore, del nostro essere, oltre che del nostro sa­pere.

Così abbiamo, fratelli, la certezza di vi­vere la nostra fede. Perché « credemmo al­l’amore » (I Gv, 4).

Un religioso in professione sanitaria quando si pone di fronte alla, sofferenza, quando cerca di disperdere le angosce e di assicurare basi più solide alla vita fisica e psichica, diviene, grazie alla sua compe­tenza e consapevolezza, lo strumento dello Spirito: continua l’azione evangelica di Gesù che passava « facendo del bene» e guarendo.

 

Non è dunque una questione di efficacia maggiore o di attività nuova, ma di un nuo­vo titolo di presenza nella fede. Tutto, qui, è infatti questione di fede per il significato nuovo che questa fede attribuisce ai com­portamenti umani. Fuori della fede, anche attività professionali più altruiste, più ca­ratterizzate dal dono di sé compiute da un religioso non si distinguono da identiche attività che altri, anche increduli, possono compiere. Ci sono infatti atei che consu­mano le loro energie al servizio dei ma­lati, sacrificano persino la vita a difesa dei più poveri, corrono tutti i rischi per il trionfo dei diritti dell’uomo. I religiosi hanno questo particolare: da una parte ri­collegano le loro azioni al mistero di Cristo Gesù nel cui nome essi le compiono; dal­l’altra le collocano nella prospettiva del regno di Dio, la cui pienezza deve venire ol­tre la nostra terrena. Ed è la fede che ispi­ra questo comportamento.

 

Se la fede ha tale importanza per la « sequela di Cristo », è vitale garantirne il vigore. Tradizionalmente questo compito spetta alla comunità come tale. Prima di essere comunità di condivisione dei beni e dei carismi, la fraternità religiosa è comu­nità di fede. E’ un fatto un po’ dimenticato nelle discussioni sulla vita di gruppo. Sot­tolineavamo prima che il mondo sanitario si pone al crocevia dell’incredulità, che il dubbio può corrodere la fede delle religio­se e dei religiosi impegnati in tale mondo. Possiamo ora aggiungere che costoro non sono in grado di resistere se non si dà loro l’opportunità di luoghi in cui testimoniare la propria fede e nutrirla, in una maniera non pietista. Se c’è una parte della Chiesa che ha più che mai bisogno di scrutare la fede con l’intelligenza e non solamente con il sentimento, questo è proprio l’insieme di coloro che il lavoro mette a contatto diretto con la vita, la malattia e la morte. E’ in causa, l’abbiamo visto, la fedeltà della Chiesa al cammino di Gesù.

Misteriosamente associati alla lotta di Dio contro la morte e in difesa della vita, questi cristiani riscoprono la presenza del suo amore in un cuore umano e in gesti umani (quelli di Gesù) nella compassione per l’uomo da cui germina il Vangelo. Bi­sogna naturalmente, che essi ci credano. E davvero.

«L’uomo è chiamato a soffrire con Dio delle sofferenze che il mondo infligge à Dio... Ecco la metanoia: non pensare prima di tutto di lasciarsi portare nella vita di Gesù Cristo, nell’evento messianico (...), Quando si è rinunciato completamente a di­ventare qualcuno..., allora ci si mette piena­mente nelle mani di DIO, si prendono sul serio non le proprie sofferenze, ma quelle di Dio nel mondo; si veglia con Cristo nel Getsemani: questa è, io penso, la fede, la metanoia; è così che si diventa un uomo, un cristiano » (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa).

E’ così che si vive in verità il «Sono io sulla strada del mio vangelo ».


Conclusione

 

 

LA NUOVA ALLEANZA CON IL MALATO

 

 

Questo intervento sulla Umanizzazione aveva lo scopo principale di richiamare il religioso ad un suo preciso compito: quello di affrontare coraggiosamente il cambia­mento personale, professionale e delle strut­ture per ricostruire una nuova alleanza con l’uomo che soffre.

Permettetemi di ripetere due cose: 1) che sono necessarie profonde modificazioni al nostro interno, nella Comunità; 2) che l’Umanizzazione nell’ospedale è un atto di carità, di giustizia, un atto dovuto al ma­lato di oggi, ricco o povero che sia. Se noi impariamo ogni giorno a restare dalla parte del malato, dalla parte dell’uomo in carne ed ossa (al di là delle numerose figure pro­fessionali che possono orbitargli intorno), l’ospedale diventa una grande Comunità ospitante nel vero senso della parola.

Umanizzare l’Ospedale comporta la mo­dificazione delle strutture, certo. Soprat­tutto comporta la modificazione del nostro rapporto con gli operatori, con i parenti, ed infine col malato.

Noi dobbiamo imparare ad assumere la nostra umanità per offrirla al malato e ad identificare la nostra disumanità per contenerla, per diminuirla, con l’aiuto di una vita di preghiera, di studio, di formazione permanente che, ripeto, contempli non solo il nostro sapere ma anche il nostro essere.

 

Il    nostro punto focale è quello di ten­tare con determinazione di rapportarci in modo nuovo al malato, in modo da met­terlo al centro dell’Ospedale e della atten­zione di tutti gli operatori. Può sembrare poca cosa affermare e sostenere nella pra­tica la centralità del malato, ma sono si­curo che in molti nostri Ospedali questa centralità è offuscata. Ebbene, se questa diagnosi fosse confermata, noi non potrem­mo dormire tranquilli fino a che il malato non tornasse al suo posto, a quel posto che S. Giovanni di Dio ha ben identificato. E noi, suoi seguaci, coraggiosamente, pronti anche a trasgredire vecchie abitudini, com­portamenti non più orientati, possiamo, dobbiamo ogni giorno rinnovare la nostra antica alleanza con l’uomo che si rivolge a noi, ben sapendo che da noi può ricevere quella collocazione centrale che altrove dif­ficilmente troverebbe.

 

L’Umanizzazione dell’Ospedale non è possibile al di fuori della nostra Umanizza­zione. Non esiste ancora in commercio il farmaco che possa umanizzare l’Ospedale! Se è vero che l’Ospedale umanizzato è un Ospedale diverso, radicalmente diverso in quanto a comunicazioni, potere, stile di decisione, vita affettiva, ecc... è altrettanto vero che per divenire diverso, ha bisogno di uomini a loro volta cambiati. Ha bisogno in particolare di religiosi maturi, o che si impegnino a diventarlo, e di una comunità ricca, sempre pronta alla crescita umana, spirituale.

Come diventare più maturi dal punto di vista affettivo, visto che senza questa cre­scita in umanità, in stabilità, in affettività, noi non possiamo diventare più umani e più umanizzanti?

Convinti che non esiste una strada pra­ticabile per tutti, è certo che a questa do­manda dobbiamo dare una o più risposte, prima o poi, se vogliamo entrare in un’area, quella della nostra Umanizzazione, che ci sta tanto a cuore e che è tanto importante per il malato, per l’ospedale, per la vita di relazione con tutti gli operatori e con il mondo esterno.

 

A mio avviso una possibilità è quella di spalancarci il più ampiamente possibile sul mondo, verso i laici che vivono con noi, in Ospedale, sulle loro famiglie, senza sosti­tuire mai, con queste amicizie, la nostra fondamentale amicizia con noi stessi, con la Comunità, con Dio.

Apriamoci anche agli altri Ordini Reli­giosi, ai nostri familiari, al malato senza usare e senza lasciarci usare se non per i fini per i quali dedichiamo la nostra vita. Amare il prossimo, il vicino a noi e lasciarsi amare, questo può essere un esercizio, me­no facile di quanto possa sembrare a prima vista, ma indispensabile se vogliamo cresce­re in umanità.

 

« I cristiani impegnati negli ambienti sa­nitari, specialmente i religiosi e le religiose, si pongono così tra gli agenti principali del Vangelo. Sono a titolo particolare coloro che mantengono la Chiesa di Dio in costan­te armonia con il cammino evangelizzatore iniziato in Gesù e perpetuato dalla comu­nità apostolica primitiva. Grazie a loro, in­fatti, la Buona Novella si impianta al centro della miseria e delle speranze umane, vale a dire nel suo «luogo» privilegiato. Senza di loro e di quelli che affrontano diretta­mente la miseria, il vangelo rischierebbe di diventare meraviglioso ma senza impatto sull’oggi, una religione astratta che adora un Dio lontano ma non più Salvatore.

 

E’ interessante ricordare come a uomini e donne, che cercano di calare il Vangelo nelle pene e nelle angosce umane, la Chiesa abbia sempre dato uno stato speciale — diaconi e diaconesse negli istituti fondati a questo scopo — è come non abbia mai smes­so di chiedere al vescovo di vigilare con estrema attenzione. Se il termine, adoperato senza criterio, non fosse mai svalutato, di­remmo che i cristiani impegnati nel settore della sanità in nome del Vangelo assicu­rano quel nucleo di «prassi» senza il quale la Buona Novella si ridurrebbe a pura teo­ria. Anche qui, per un istinto proveniente dallo Spirito di Dio, la tradizione cristiana, con interpretazioni diverse a seconda delle epoche, ha tenuto in onore quello che viene chiamato (con espressione molto bella) « il servizio corporale ». Essa sentiva che que­sta misericordia era il sacramentum della salvezza di Dio. (Da J.M.R. TILLARD o.p.).

 

E Gesù gli disse:

«Va e fa anche tu lo stesso » (Luc. 10,37).


…DALLA MOZIONE FINALE DELLA ASSEMBLEA DI ROMA

 

(26 Gennaio - 4 Febbraio 1981)

 

 

Noi Padri Provincia/i e Vice Provinciali dell’Ordine, che abbiamo trascorso con il P. Generale ed il suo Consiglio alcune gior­nate di riflessione, lavoro e preghiera in comune, siamo consapevoli del fatto che il processo di rinnovamento vissuto attual­mente dall’Ordine si trova ad una svolta im­portante in cui è necessario unire tutti gli sforzi e le idee per il raggiungimento degli obiettivi che la Chiesa e, più concretamente il Capitolo Generale Straordinario, ci hanno indicati.

Spronati dallo Spirito a svolgere la no­stra missione di servizio per i fratelli me­diante un segno tangibile, abbiamo iniziato un cammino di compartecipazione della pro­blematica del nostro Ordine e nelle linee fondamentali che devono animare la espres­sione del nostro carisma e della nostra fi­nalità — superando i confini di ogni singola Provincia — con una prima pratica presa di coscienza della corresponsabilità nostra nell’animazione e nell’orientamento dell’Ordine in comunione con il P. Gene­rale ed il suo Consiglio.

 

Ci rendiamo conto che questo altro non è che un primo passo verso quel sentimento di collegialità insistentemente propostoci dal IX obiettivo del Capitolo Generale Stra­ordinario. Sappiamo che non è facile supe­rare abitudini e forme particolari di vivere ed esprimere l’autorità. Siamo nondimeno convinti che l’unità dell’Ordine esige da tutti noi, parti integranti della stessa, che si faccia ogni sforzo per dare una auten­tica testimonianza di fraternità espressa di­rettamente attraverso comportamenti ed espressioni di solidarietà e corresponsabi­lità fra le varie Province, le Comunità ed i fratelli nei confronti del Governo Centrale dell’Ordine.

 

I centri di interesse che hanno costi­tuito l’argomento più immediato del/e no­stre riflessioni sono stati: la revisione del Piano del Capitolo Generale Straordinario e lo studio del progetto di massima di un documento sulla umanizzazione presentato dal P. Generale e direttore ai fratelli del­l’Ordine.

 

LA UMANIZZAZIONE, VINCOLO UNIFICANTE

 

La nostra Assemblea riafferma la pro­pria speranza ed il proprio impegno nel costante rinnovamento dell’Ordine. Siamo convinti che esso può essere ottenuto esclu­sivamente se tutti noi, membri dell’Istituto, viviamo in continuo atteggiamento di atten­zione per quelle esigenze che implica la nostra consacrazione a Dio come religiosi ospedalieri e se ci sforziamo di tradurre questo nostro atteggiamento in concrete ri­sposte alle speranze riposte in noi dalla Chiesa e dalla Società.

Considerando che il mondo sta vivendo un momento importante della sua storia, i cui valori fondamentali del/a persona sono ad un tempo rivendicati ed infranti, noi assumiamo l’impegno preciso, espressione concreta del carisma dell’Ordine, di difen­dere e promuovere senza indugio il rispetto della dignità umana.

Ciò ha suscitato in noi la convinzione che l’umanizzazione, intesa nel senso da essa acquisito nella persona di Gesù di Nazareth, costituisce, nel momento storico che stiamo attraversando, il vincolo unifi­cante ed integrante che può aiutarci a tra­durre in fatti di vita il processo di rinno­vamento.

 

 

DOCUMENTO SULL’UMANIZZAZIONE

 

Convinti dell’importanza del tema della umanizzazione e persuasi della necessità di far sì che sia compresa e vissuta in tutto l’Ordine secondo determinati criteri umani, noi fratelli partecipanti a questo Incontro, abbiamo accolto con gran fiducia il progetto di massima che il P. Generale ha of­ferto alla nostra considerazione. Dopo aver riflettuto privatamente e a gruppi sul con­tenuto dello stesso, invitiamo i Confratelli dell’Ordine:

 

a)   ad accoglierlo come espressione del nostro pensiero e della nostra adesione al P. Generale e al suo Consiglio;

b)   a riceverlo, dopo opportuna rielaborazione, quale pratica espressione del processo di rinnovamento dell’Ordine;

c)   a studiarlo personalmente e con le Comunità, per poter cogliere il suo conte­nuto e vivere dinamicamente il suo signi­ficato.

 

Concludiamo questa comunicazione dichiarandoci in piena solidarietà con tutti i nostri fratelli e con ognuno di loro, con tutti i professionisti che collaborano nella nostra missione di carità e, segnatamente, con le sofferenze e speranze degli ammalati e dei bisognosi di ogni categoria, ai quali dedichiamo il nostro servizio nel nome della Chiesa e di Cristo, animati dallo stesso spi­rito del nostro Padre San Giovanni di Dio.

 

Fra Pierluigi Marchesi

Priore Generale

Fra Narcisio Petrillo

Segretario della Assemblea

 

Roma, 4 febbraio 1981

 

 
 

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